Anthropoetics III, no. 1 (primavera/estate 1997)

Scrivere nella polvere: linciaggio e ironia nel Vangelo di Giovanni

Matthew Schneider

Department of English
Chapman University
Orange, California 92866
schneide@nexus.chapman.edu

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

brottof@libero.it

www.bibliosofia.net 

 

Uno dei racconti più memorabili del Nuovo Testamento è Giovanni 7, 53 - 8, 11, la sconvolgente e drammatica pericope de adultera, meglio conosciuta come la storia al centro della quale sta il famoso detto "chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei".

E tornarono ciascuno a casa sua. Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. Ma all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: "Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici? ". Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: "Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei ". E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.

Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? ". Ed essa rispose: "Nessuno, Signore". E Gesù le disse: "Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più".

Omileti e teologi, per cercare di dimostrare la "radicalità del perdono" e la "radicale accettazione dei peccatori" praticate dal Gesù storico (Kysar 134), hanno frequentemente fatto ricorso a questa pericope, dal momento che essa sembra incarnare così potentemente la moralità egalitaria del Discorso della Montagna: "Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la legge ed i profeti" (Mt 7, 12). Ma vedere la storia della donna sorpresa in flagrante adulterio come poco più che un contenitore drammatico di un comando etico separabile induce a trascurare il significato morale di quegli aspetti della scena che le conferiscono la sua potenza: il tono ironico che pervade le espressioni di Gesù e l'azione criptica di chinarsi a scrivere nella polvere. L'approccio omiletico segue il teologo esistenzialista Rudolf Bultmann nel tracciare una distinzione tra il contenuto significativo della storia - il famoso detto - e la sua forma, il contesto drammatico in cui il detto è pronunciato. Per Bultmann, il detto possiede una priorità storica e teologica; il contesto, d'altra parte, egli lo assegna a ciò che potremmo chiamare lo sfondo "mitico":

Qui, propriamente, Gesù è anzitutto richiesto di un giudizio, e risponde con un detto che è stato concepito come un'unità con la situazione stessa. Ma il silenzio iniziale di Gesù è inusuale e può essere classificato come elemento narrativo; se è così, il finale circostanziato, che introduce la conversazione con la donna, è sicuramente un elemento narrativo e secondario (63).

Esiste un'alternativa alla rigida dicotomia bultmanniana forma/contenuto, un modo di leggere questa storia - e, per estensione, gli altri testi evangelici similari - che dimostri la eguale significatività teologica dell'enunciato e del contesto in scene rivelatorie come questa? Questo saggio intende presentare un' interpretazione di questo tipo, con un approccio alla pericope de adultera basato sull' antropologia generativa di Eric Gans. Impostata in The Origin of Language [University of California Press, 1981] e successivamente ampliata e corroborata in quattro libri e numerosi articoli, l'antropologia generativa rappresenta un modo rigoroso ed efficace di comprendere i fenomeni culturali - come la religione - vedendo la cultura alla luce della sua origine ipotetica. Gans pone l'origine della cultura come simultanea al sorgere della caratteristica che definisce l'umanità, la capacità di usare il linguaggio. Ma in che modo esattamente ebbe origine questa capacità? Gans rifiuta la diffusa opinione che il linguaggio si sia evoluto gradualmente (cioè inconsciamente) a partire dalla comunicazione animale non-significante, poiché tale opinione ignora sia "l'unicità dell'uomo rispetto ai suoi antenati animali" (Science and Faith 2 ) sia la necessità logica che "la coscienza si origini tutto a un tratto - si origini consciamente" ("Differences" 798) (1). La capacità di usare il linguaggio, egli sostiene, non derivò solo dalla graduale accumulazione di mutazioni fisiologiche casuali in singoli individui, ma piuttosto emerse in un evento sperimentato collettivamente - una scena - nel quale la capacità di significazione linguistica operò il differimento di un conflitto imminente che stava minacciando di scoppiare entro un gruppo di proto-umani. Per Gans, l'attributo essenziale dell'umanità è pertanto la sua attitudine a differire la violenza mediante la rappresentazione.

Ma donde sorge il bisogno di simili differimenti? L'antropologia generativa risponde a questa domanda considerando non le differenze tra proto-umano e homo sapiens, ma ciò che essi hanno in comune. Umani e animali superiori condividono una capacità di imitazione o mimesi, che è sia veicolo di trasmissioni non genetiche di informazioni che potente fonte di conflitto intraspecifico. Qui l'antropologia generativa segue le intuizioni innovative di René Girard, cui Gans riconosce di aver riscoperto "la natura critica, intimamente conflittuale, della mimesi, una categoria di azione che in precedenza era stata vista, sulla scorta della Poetica di Aristotele, come una non problematica fonte di piacere estetico" (Originary Thinking 8). Girard concorda con Aristotele sul fatto che "la tendenza all'imitazione è congenita agli esseri umani fin dall'infanzia (in effetti, l'uomo differisce dagli animali nel fatto che è il più imitativo e apprende le sue prime lezioni mediante l'imitazione)" (Poetica 20). Girard si discosta però da Aristotele nel ritenere che l'intensità della capacità umana di mimesi (come spiega Gans)

conduce ad un'intensificazione della rivalità per oggetti attraenti e quindi ad un conflitto generalizzato che può essere risolto soltanto canalizzando l'aggressione collettiva contro un singolo membro segnato del gruppo; uno la cui condizione marginale ne faccia un bersaglio appropriato per le azioni ostili degli altri. Poiché questa vittima reca pace alla comunità in crisi, diventa il primo oggetto sacro; … è anche il primo oggetto significante, e la fonte di ogni significanza. ("Differences" 800)

La turba che Gesù fronteggia nella pericope de adultera reca in sé tutti i contrassegni di quella che Gans e Girard identificherebbero come una "comunità in crisi": percependo la propria tradizione religioso-legale sminuita dall'imposizione dell'autorità romana, e spaccata da conflitti di idee sui modi di riaffermare il significato della nazionalità e identità giudaica, la folla si riunisce e si prepara ad immolare una sventurata donna nella speranza che l'esecuzione di un'adultera ristabilirà l'unità del gruppo. Di fronte al ricorrere di un evento umano archetipico - il linciaggio - Gesù apporta un'intuizione originaria delle radici comuni della violenza e della significanza, che gli consente di mandare a monte il sacrificio della donna sorpresa in flagrante adulterio. Nelle pagine seguenti, utilizzerò la visione e i metodi dell'antropologia generativa per interpretare due degli aspetti più provocatori e problematici della pericope de adultera: perché esattamente le famose parole di Gesù disperdono il gruppo dei linciatori, e qual è il senso dello scrivere nella polvere, un'azione che Bultmann vede come un mero abbellimento d'atmosfera del silenzio "narrativo" con cui inizialmente Gesù risponde alla sfida della folla. Successivamente amplierò questa visione fino a suggerire come la pericope, sebbene non scritta dalla stessa mano del resto di Giovanni, sia tematicamente e teologicamente unificata al Quarto Evangelo dalla sua dimostrazione delle dimensioni etiche dell'ironia verbale e gestuale. Da questa analisi emergerà infine una vivida illustrazione della straordinaria capacità dell'antropologia generativa di cogliere da testi e fenomeni religiosi gli elementi cognitivi ed etici che vi sono connaturati e tuttavia spesso oscuri.

II

Lo studio della storia della donna sorpresa in flagrante adulterio dal punto di vista dell'antropologia generativa comincia con una sorta di analisi della risposta del lettore: nella storia, qual è l'elemento su cui si focalizza la mia attenzione e perché? È chiaro che la nostra attenzione alla pericope è altrettanto richiamata sul detto che sta al suo centro quanto lo è su quei dettagli particolarmente suggestivi - lo scrivere nella polvere, le azioni della folla, e l'enigmatico scambio alla fine dell'episodio tra Gesù e l'adultera. Nondimeno, dal momento che il detto si staglia dal resto della storia con una sorta di intensità epigrammatica, comincerò con esso, prima di dedicarmi agli aspetti più misteriosi della scena.

Nel famoso detto "chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei" vi è una complessità maggiore di quella che la tradizione omiletica tende ad attribuirle, una complessità che possiamo riuscire a determinare meglio col situare il detto nella pienezza del suo contesto. La prima fonte della complessità nel detto e nel contesto è il miscuglio di impulsi che motivano la folla a volere anzitutto linciare la donna. Dietro questi impulsi talvolta sospetti e contraddittori sta, tuttavia, l'esperienza unificante del risentimento, diretto anzitutto contro i conquistatori romani della Giudea. Catturata dopo che il Sinedrio era stato privato del suo potere di sanzionare le violazioni della legge giudaica (si pensa attorno al 30), la donna deve essere linciata, ovvero si deve procedere alla sua esecuzione capitale, senza passare attraverso un processo ufficiale, poiché, come osserva Duncan M. Derrett,

quello era l'unico modo in cui ella poteva essere punita. In ogni caso, anche in Gerusalemme, dato che il Sinedrio non aveva l'autorità di giudicare casi implicanti la pena di morte, il metodo legittimo di ottenere la punizione della donna sarebbe stato quello di rivolgersi al governatore romano. La legge giudaica prescriveva come e con che mezzi dovesse essere punita un'adultera: ma la sua applicazione era ostacolata nella misura in cui era coinvolto un tribunale ordinario, e i Romani non potevano fornire alcuna alternativa attraente. Nessun giudice romano avrebbe mai condannato a morte una donna sorpresa in adulterio, ma questo, parrebbe, era quello che la folla (e il marito) volevano per lei. Una punizione legale più lieve, o anche un'altra a discrezione del giudice, non avrebbe in alcun modo soddisfatto il loro zelo (10-11).

La pericope stessa dimostra, tuttavia, che lo zelo della folla era eccitato da qualcosa di più della violazione della legge da parte della donna. Commisti alla sua giustificata indignazione contro il peccato della donna vi sono almeno due generi di risentimento: il primo contro l'autorità coloniale costituita dei Romani, la cui imposizione di un codice legale relativamente permissivo poteva essere vista come un ennesimo affronto alla sovranità religiosa e politica giudaica, e il secondo contro Gesù, visto dalla folla come un'autorità morale autocostituita, la cui autoevidente giustizia suscita anch'essa risentimento. Quando in Giovanni 7, 20 Gesù chiede ad una moltitudine adorante "Perché cercate di farmi morire?", incontra sconcerto e incredulità: "Tu sei indemoniato! Chi cerca di farti morire?". Il verso 6 del capitolo 8 ci ricorda che lo sdegno morale della folla contro la donna non è senza legami con un'avversione a Gesù: la storia sottolinea come il proposito della richiesta "tu dunque che ne dici?" è "per metterlo alla prova e poterlo accusare". Dunque questo linciaggio è un'impresa più complessa di quanto appaia in superficie. La donna è essenzialmente un pretesto per l'espressione di altri risentimenti, specialmente quelli degli scribi e dei farisei per ogni percezione di minacce alla loro autorità civile e politica. Comprendere questo aspetto della storia ci consente di apprezzare ancor più l'interconnessione tra la famosa espressione di Gesù ed il contesto in cui essa appare. Si noti che il "chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei" non proibisce che l'azione contemplata abbia luogo. Invero, non si tratta nemmeno di una risposta diretta alla domanda che la folla rivolge a Gesù; si tratta piuttosto di qualcosa come un bonario suggerimento ("chi di voi è senza peccato") qualificato da quella che nella circostanza data è una condizione psichica e morale ambigua: che cosa significa essere "senza peccato"? Non trovarsi nell'atto di peccare al presente? Non aver mai commesso un peccato? Essere incapace di peccare? E a quale delle molte varietà di peccato e di peccaminosità si riferisce Gesù?

Il carattere vago e mite della risposta di Gesù alla domanda della folla presenta, naturalmente, un impressionante contrasto con la malizia e il chiaro intento che sembra emanare dal gruppo riunito. Vi è, tuttavia, una parte di questa espressione che è di una chiarezza cristallina, e da essa emerge il significato antropologico dominante del detto. Per cogliere l'importanza etica del detto non è l'ambigua espressione "senza peccato" quella su cui dobbiamo soffermarci, ma la parte "scagli per primo la pietra contro di lei", e specialmente la locuzione "per primo". "Scagliare la pietra" è, naturalmente, un'azione non ambigua, le cui motivazioni e conseguenze in questo contesto appaiono ovvie. Si tende un braccio, si prende la mira e si fa volare la pietra, sperando che colpisca il peccatore, presumibilmente immobilizzato, diritto nella testa. Gesù senza dubbio cerca di suscitare nella mente di ciascun membro della folla una chiara immagine di ciò che sta per accadere, e in questo modo rinuncia all'eufemismo o a qualsiasi altro tipo di linguaggio figurativo. Similmente, "per primo" è non ambiguo, e sta ancor più vicino al nocciolo rivelativo dell'intera scena, poiché esso porta alla luce la segreta, fatale vulnerabilità che si annida nel cuore di ogni massa linciatrice.

L'antropologia generativa vede la configurazione tutti contro uno della folla sacrificale come la sinistra ripetizione di un momento dell'evento in cui ha avuto origine il linguaggio, il momento dello sparagmos, in cui gli impulsi violenti temporaneamente differiti dall'emergere della significazione linguistica trovano modo di scaricarsi, come in origine, sul corpo dell'oggetto centrale. Dal momento che l'orientamento centro/periferia della scena originaria del linguaggio fu prodotto da un accumulo di tensione e rivalità mimetica tra i membri del gruppo, l'aggressività infine scaricata sul corpo della vittima non fu originariamente alimentata da quella vittima per se. Allora il "peccato" della vittima della folla linciatrice, come ha già suggerito la mia analisi, è simile ad un pretesto, dal momento che almeno in parte il proposito reale della punizione è quello di allontanare una minaccia di dissolvimento del gruppo. Il reale obiettivo del linciaggio è fin dall'inizio quello di fondare e assicurare l'unanimità del gruppo dei sacrificatori: sicché qualsiasi cosa porti ad isolare un qualche membro del gruppo minaccia l'intera operazione. Naturalmente, quel mezzo che il gruppo di cui si tratta ha scelto per ottenere la punizione della donna sorpresa in adulterio è particolarmente atto a questo scopo, dato che al termine di una gragnola di pietre nessuno può dire chi sia stato il primo e chi l'ultimo (2). (O, ugualmente, chi abbia soltanto ferito la vittima e chi le abbia assestato il colpo fatale). L'unanimità dell'azione del gruppo conferisce infine anonimia a ciascun individuo, il quale, dopo che tutte le pietre sono state scagliate, si procura la sua propria incertezza intorno all'ordine preciso degli eventi, al fine di quietare gli eventuali rimorsi che potrebbero essere destati dall'aver avuto parte in ciò che potrebbe, in altre circostanze, essere catalogato come omicidio. L'uso che Gesù fa delle parole "per primo" è inteso precisamente a distruggere la protezione dell'unanimità anonima. Ed è proprio quello che si realizza poiché, dopo un'altra breve pausa, la storia riferisce come la folla, in origine massa indifferenziata guidata da "scribi e farisei", si trasformi in una giustapposizione di individui, che abbandonano la scena uno alla volta.

Così l'accorta risposta di Gesù alla domanda postagli sia dalle parole del gruppo sia dalla stessa situazione in cui viene a trovarsi ci appare sottesa da una raffinata comprensione di quelli che potremmo chiamare gli strati antropologici nascosti della pratica del linciaggio. Questa comprensione scaturisce non da una conoscenza puramente storica o scritturistica, ma da un'intuizione della connessione originaria tra scene come questa e la scena interna della rappresentazione - la coscienza - che risulta dall'origine della consapevolezza stessa. Se non ci fosse alcun bisogno di qualche tipo di prevenzione dei rimorsi che simili eventi sono in grado di suscitare, se non vi fosse alcuna ambiguità etica nell'azione prevista dalla folla, allora non vi sarebbe stato alcun bisogno di quelle elaborate misure che la folla adotta per assicurare l'anonimia dell'unanimità. Gesù sa che il bisogno che la folla avverte di porgli la questione testimonia la presenza di uno scrupolo morale latente. La consapevolezza umana si costituisce originariamente in una scena comunitaria (probabilmente, come questa, una scena di vittimizzazione): la scena lascia in ciascun individuo una traccia, un residuo, che è la fonte di ciò che viene comunemente indicato come coscienza. Vi è quindi un nesso originario tra vittimizzazione e coscienza. La percezione di questo nesso è precisamente ciò che la folla linciatrice deve cercare di dimenticare, ma che Gesù con la sua risposta attentamente costruita riporta alla luce.

Ma che dire dell'altro aspetto di questa scena, che il racconto ha cura di conservare, i momenti misteriosi in cui il giudice riluttante "chinatosi, si mise a scrivere col dito in terra"? Qual è il fine di questa azione, è che cosa potrà aver mai scritto Gesù sulla polvere? E' comprensibile che questi dettagli evocativi abbiano affascinato generazioni di interpreti, e che molti lungo i secoli abbiano esercitato il loro ingegno nel tentativo di risolvere questo provocante enigma testuale. Alcuni hanno sostenuto che il fatto che la narrazione manchi di specificare il contenuto della scritta di Gesù significa che egli non scrisse alcunché di identificabile - Gesù traccia ghirigori allo scopo di : a) guadagnare un po' di tempo per la vittima e poi per consentire alle sue parole di penetrare in profondità; b) mostrare il suo disprezzo per l'intero procedimento. Altri vedono nell'inconsueto termine usato per significare l'atto di scrivere - katagraphen, "segnare" o forse "annotare" - un'indicazione che Gesù scrisse qualcosa di specifico, come i peccati dei suoi interlocutori. Duncan Derrett si serve della propria formidabile conoscenza delle leggi e dei costumi della Giudea romana per sostenere l'ipotesi che Gesù abbia scritto due passi dell'Esodo che si riferiscono alle azioni dei linciatori. Il primo è Es. 23.1b, "Non tener di mano a chi sostiene una causa ingiusta, attestando il falso", e il secondo è Es. 23.7, "Guardati dal parlar menzognero, e non far morire l'innocente e il giusto, poiché Io non assolverò il malvagio".

Queste due scuole di pensiero naturalmente si escludono a vicenda: o Gesù scrisse un testo riconoscibile, il cui contenuto in qualche modo ha indotto la folla a vergognarsi al punto di disperdersi, o la sua scrittura era illeggibile ed ottenne un risultato analogo tramite mezzi meno ovvi e diretti. Delle due alternative, la seconda è preferibile per due ragioni. Anzitutto, il cronachista evidenzia una cura meticolosa nel preservare la delicata precisione delle espressioni di Gesù. Se davvero Gesù avesse scritto in terra un qualche testo che fosse in diretta connessione con l'evento, è molto probabile che il cronachista l'avrebbe conservato anch'esso con altrettanta accuratezza. In secondo luogo, una qualche forma di accusa scritta, riguardante la violazione di una legge da parte della folla, o i suoi peccati, non importa quanto sottile o esplicita, stonerebbe col tenore decisamente non accusatorio sia dell'espressione centrale di Gesù sia del suo conclusivo rifiuto di condannare la donna.

Ritenere che Gesù non abbia scritto nulla di riconoscibile, tuttavia, non implica necessariamente vedere l'azione di scrivere nella polvere al modo di Bultmann, come un dettaglio secondario, narrativo, incluso al fine di drammatizzare la crescente tensione della scena. L'importanza di questo elemento della storia sta più nell'atto di scrivere in se stesso che in ciò che è o non è scritto in terra. L'azione stessa dello scrivere, in altre parole, è essa stessa simbolica, e forma una parte essenziale della risposta eticamente orientata di Gesù alla situazione. Che il punto sia proprio questo può essere osservato richiamando esattamente quando Gesù effettua questa azione criptica. Il versetto 2 riferisce che dopo l'arrivo di Gesù al tempio di primo mattino, "tutto il popolo si accalcava intorno a lui, e, sedutosi, l'ammaestrava". Sebbene il testo non specifichi la precisa configurazione di questo gruppo, il fatto che Gesù si sedesse per insegnare ci porta a inferire ragionevolmente che la gente fosse disposta in forma pressappoco circolare, con Gesù seduto, come per un seminario, alla periferia del cerchio. Che la disposizione fosse questa è suggerito anche dal versetto 3, che riferisce come gli scribi e i farisei abbiano posto la donna "in mezzo". Scribi e farisei in questo modo trasformano il cerchio ugualitario in una potenziale scena di violenza col semplice dotare il cerchio di un centro. La risposta di Gesù consiste nel chinarsi a scrivere "col dito in terra", un'azione che, a suo modo, ripete quella degli scribi e dei farisei, solo con una differenza. Lo scrivere nella polvere echeggia la collocazione della donna nel mezzo della folla col distogliere l'attenzione di ciascuno di coloro che sono nella periferia da tutti gli altri, dirigendola verso il centro. L'azione di Gesù differisce da quella degli scribi e dei farisei, tuttavia, nella misura in cui è ambigua. Come il famoso detto centrale, lo scrivere nella polvere presenta una straordinaria congiunzione di chiarezza gestuale e ambiguità rappresentativa. Gesù tocca il suolo, e lascia nella polvere una traccia persistente di qualcosa - ma che cosa, esattamente, è la scritta? Si compone di lettere, di iniziali, di immagini, o soltanto di segni casuali?

L'affascinante combinazione di ambiguità e chiarezza serve qui in qualche modo allo stesso fine cui serve nell'avvincente espressione centrale. Nell'evento originario, la produzione del primo segno linguistico si ebbe quando i componenti di un gruppo di proto-umani disposti intorno ad un attraente oggetto centrale si protesero contemporaneamente alla sua conquista, solo per interrompere il loro gesto di appropriazione per il timore del conflitto che sarebbe esploso se tutti avessero tentato di afferrare l'oggetto. L'apparente capacità dell'oggetto di respingere i gesti di appropriazione degli individui costituenti la periferia gli garantì un'aura sacra, e la natura trascendente - dal momento che esso è in grado di essere sia se stesso (un oggetto appetitivamente attraente) sia qualcosa al di là di se stesso (la cosa che previene il conflitto) - del segno linguistico. Nella scena originaria, la certezza gestuale conduce all'ambiguità sacra, con l'emergere della capacità del linguaggio di servire come mezzo per differire conflitti mimetici intraspecifici. Scrivendo nella polvere, Gesù mostra come scene di sacrificio come quelle sollecitate da scribi e farisei possano produrre un esito decisamente meno inquietante e vittimario. L'azione simboleggia quello che l'antropologia generativa offre come definizione minimale della capacità umana di produrre linguaggio: il differimento della violenza mediante la rappresentazione.

III

I due aspetti della pericope de adultera su cui questo saggio si è fin qui concentrato - il famoso detto e lo scrivere di Gesù nella polvere - hanno qualcosa in comune: entrambi sembrano intenzionalmente ambigui e ironici, richiedendo dall'ascoltatore un grado di audacia interpretativa molto superiore rispetto anche alla più oscura delle parabole sinottiche. In effetti, l'ambiguità di questa pericope va oltre l'oscurità per entrare nella sfera dell'ironia, non nel senso ristretto del significare l'opposto di quel che uno dice, ma in un senso esistenziale affine a quello sviluppato da Sören Kierkegaard nella sua dissertazione Sul concetto di ironia. Kierkegaard inizia il suo esame delle insospettate profondità dell'ironia con un'osservazione a proposito delle domande che ci appare notevolmente pertinente all'interpretazione della storia della donna sorpresa in adulterio sviluppata in questo saggio.

È evidente che nel porre domande l'intenzione può essere duplice. Ovvero, si può domandare con l'intenzione di ricevere una risposta contenente la completezza desiderata, e ne deriva che più si chiede più profonda e significativa diviene la risposta; oppure si può domandare senza alcun interesse per la risposta tranne quello di toglier via l'apparente per mezzo della domanda, e tramite ciò lasciarsi dietro un vuoto. Il primo metodo presuppone che vi sia una pienezza; il secondo che vi sia un vuoto. Il primo è il metodo speculativo; il secondo quello ironico(36).

La prima espressione di Gesù è una risposta ad una domanda diretta posta dagli scribi e dai farisei, e la sua seconda espressione consta di due domande che egli rivolge a quella che doveva essere la vittima della folla, con cui infine egli viene lasciato solo: "Dove sono, o donna, quelli che ti accusavano? Nessuno ti ha condannata?" In senso stretto, queste sono domande retoriche, dato che la risposta ad esse è ovviamente fornita dal contesto nel quale sono poste. La folla per la vergogna è sciamata via, dopo aver abbandonato con imbarazzo il suo tristo proponimento. Mentre, come osserva Duncan Derrett, il testo omette di fornire esplicite indicazioni circa il tono di Gesù nel fare queste domande, se esso sia "sarcastico o umoristico" (25), sembra probabile che un accenno di sardonico sorriso d'ironia - l'espressione che dice "ah, lo sapevo" o "proprio così" - abbia attraversato il suo volto in quel momento. La donna ingenua risponde alle domande, le quali nel contesto di ciò che è appena avvenuto illustrano l'incompresa dimensione etica del concetto kierkegaardiano del modo ironico di porre domande. L'ambiguità delle parole e azioni di Gesù al cospetto della folla ironizza la scena minacciosa costituita da coloro che vorrebbero condannare la donna, al punto che la loro scena è smontata, lasciando dietro di sé un vuoto. O, per dirla in altri termini, la distanza ironica che Gesù ha cura di porre tra sé e gli accusatori della donna ha l'effetto supremo di porre in luce le contraddizioni inerenti alla pratica del linciaggio, che la minano dall'interno.

In aggiunta, l'ironia fornisce un nesso tematico e formale tra la storia interpolata della donna sorpresa in adulterio e il resto del Quarto Vangelo, il quale mentre nel suo famoso inizio ci presenta quella cristologia così ben determinata - "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio" - ci offre un ritratto di Gesù nei suoi tratti più umani: loquace, emotivo, talvolta amaro e sferzante, e quasi sempre provocantemente ambiguo quando parla. Dopo tutto, è solo nel vangelo di Giovanni che leggiamo quel problematico ammonimento a sua madre durante le nozze di Cana: informato da Maria che il vino è finito, Gesù replica "Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora" (2, 3-4). Inoltre, è solo in Giovanni che troviamo l'incontro con la donna samaritana al pozzo (4), episodio nel quale Gesù potrebbe dichiararsi il Messia, ma anche non dichiararsi tale. La donna dice a Gesù: "So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa". Nell'originale greco, la risposta di Gesù è ego eimi, ho lalon soi: si deve tradurre (come quasi tutte le versioni della Bibbia fanno) "Sono io (s'intende il Cristo), che ti parlo"? Oppure si deve intendere semplicemente "Io sono quello che sta parlando con te"? Come a dire "non parlarmi del Messia adesso: ascolta piuttosto quello che io ti sto dicendo".

Tuttavia, l'esempio di ironia di gran lunga più impressionante ed esteso che si trova in Giovanni si dà nel processo davanti a Pilato, qui assai più dettagliato che nei vangeli sinottici. Come nella storia della donna sorpresa in adulterio, ironia e ambiguità verbale sorgono nel contesto di un'accusa capitale. A differenza dalla folla di linciatori della pericope de adultera, però, il clero che accusa Gesù ammette - sebbene non davanti a Pilato, naturalmente - che la motivazione reale dell'accusa di sedizione mossa a Gesù non è quella di punire i suoi crimini, ma quella di assicurare l'unità dei Giudei a spese di un capro espiatorio. Nel capitolo 11,49-50 il famigerato Caifa rimprovera i suoi colleghi del sinedrio con le parole "Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera", un'affermazione che persuade gli anziani "da quel giorno in poi" a perseguire la morte di Gesù. L'ignoranza di questa cospirazione da parte del governatore romano inizialmente lo colloca in una posizione in qualche modo affine a quella che Gesù assume quando è chiamato a giudicare la donna sorpresa in adulterio. La sua intuizione antropologica, però, non è all'altezza di quella di Gesù, e che le cose stiano così è segnalato dal modo di porre le domande che è proprio di Pilato, che in termini kierkegaardiani risulta prevalentemente speculativo piuttosto che ironico:

Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: "Tu sei il re dei Giudei?". Gesù rispose: "Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul mio conto?". Pilato rispose: "Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?". Rispose Gesù: "Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù". Allora Pilato gli disse: "Dunque tu sei re?". Rispose Gesù: "Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce". Gli dice Pilato: "Che cos'è la verità?". (18,33 -38)

In questa sottile e complessa danza verbale è racchiusa una somma di significato psicologico e antropologico, il cui esame va al di là dello scopo di questo saggio. Per i nostri fini, è anzitutto necessario rilevare come ironia e ambiguità ancora una volta sorgano durante un dibattito forense - ovvero in un tempo e in un luogo in cui la chiarezza discorsiva assume un valore di vita o di morte. In secondo luogo, è degno di nota il fatto che la famosa domanda ironica di Pilato - "Che cos'è la verità?" - produca un vuoto simile a quello rivelato dalle domande di Gesù all'adultera: senza attendere una risposta, il governatore romano lascia il suo prigioniero e ritorna verso la folla per riferire "Io non trovo in lui nessuna colpa" (18,38). Ancora una volta, porre le domande in modo ironico rivela la vuotezza morale delle accuse mosse contro il capro espiatorio. Ma gli eventi delle ore immediatamente seguenti dimostreranno che v'è ancora un'altra piega inerente a quella che la pericope e l'interrogatorio di Pilato rivelano come la dimensione etica dell'ironia. Col distogliersi dal suo interlocutore dopo aver posta la sua domanda sardonica, Pilato mette a fuoco la distinzione tra il puro scherno e l'ironia rivelatrice che Gesù ha impiegato per disperdere la folla nella pericope. In questo contesto, lo scherno è la pallida e inefficace ombra dell'ironia, come è mostrato quando Gesù, schernito e flagellato come "Re dei Giudei", è veramente torturato e muore realmente sulla croce.

IV

Dalla precedente analisi della scena tra Pilato e Gesù si può osservare che il ruolo strutturante dell'ironia nel Quarto Vangelo è in ultima istanza paradossale, dal momento che ciò che nel primo caso serve ad allontanare una conclusione violenta appare produrne una nel secondo. Come può accadere ciò?

La soluzione dell'enigma richiede il riconoscimento di quello che i due episodi rivelano in giustapposizione. In entrambi si può osservare la funzione essenziale della scena originaria - la generazione del significato da una crisi. Con l'impiegare ironia verbale e ambiguità gestuale per stornare l'attenzione dei mancati linciatori della donna dall'oggetto della loro malvagia intenzione, Gesù dimostra la fragilità della relazione segno/significato che il linciaggio spera di fondare. La folla, provocata dagli scribi e dai farisei, vuole che il cadavere dell'adultera lapidata serva come garanzia dell'autenticità della Legge, che essa percepisce come delegittimata prima dai Romani e poi da Gesù. Il che significa che essi vogliono fare di quel cadavere un segno che dalla permanenza della morte della donna deriverà una stabilità permanente. La legge di Mosè, dicono gli scribi e i farisei, "comanda" questo. La risposta di Gesù è coerente con la sua affermazione in Matteo 5, 17 che egli non è venuto "per abolire la legge o i profeti". Strettamente parlando, rivelare le fonti cognitive e linguistiche della legge mediante il distacco ironico non è abolire la legge. È però mostrare come la legge, in quanto sistema di rappresentazioni, è vulnerabile - forse anche mortalmente - alla decostruzione. Nella pericope, Gesù destabilizza il segno sperato - e quindi salva la donna - non semplicemente mettendo in questione il diritto della folla alla sua esecuzione capitale o sostituendo di colpo la vecchia legge con una nuova. Piuttosto, egli si accosta alla questione della legge antropologicamente, chiedendo tacitamente alla folla: cos'è una legge? Qual è la relazione tra la legge e il linguaggio in cui la legge è espressa? Quali essenziali caratteristiche dell'interazione sociale sono esemplificate nella costruzione di sistemi di legge e nella punizione dei trasgressori?

Il fatto che egli faccia queste domande ironicamente e indirettamente indica la misura in cui l'antropologia di Gesù è generativa - ovvero essa prova a comprendere l'interazione umana dal punto di vista della caratteristica che definisce l'umanità, il linguaggio. Far questo, tuttavia, significa rischiare di scatenare contro di sé la tensione mimetica originariamente differita dal sorgere del linguaggio. Poiché, come scrive Gans,

L'ironia è l'espressione necessariamente indiretta e allusiva della decostruibilità della struttura formale del linguaggio che è il modello di tutte le strutture formali, le quali nel loro insieme non sono altro, in ultima analisi, che strutture della rappresentazione. Pensare una struttura formale è concepire entrambi i suoi piani sullo stesso livello, decostruirla - ironizzarla. Così il vero pensare (thinking), il pensiero antropologico originario in quanto opposto al pensiero (thought) positivo che rispetta incondizionatamente le differenze formali, è sempre ironico (Signs of Paradox, in ms.).

Pare che l'impresa di vagliare gli insegnamenti del "Gesù storico" separandoli da revisioni apostoliche e corruzioni potrebbe trarre grande vantaggio dal considerare se i testi presi in esame rispettino o mettano in questione le differenze formali. Poiché, nonostante tutto quello che si può dire circa la varietà di ritratti di Gesù offerti dal Nuovo Testamento - e specialmente circa le differenze tra i sinottici e il Quarto Vangelo - vi è una rimarchevole coerenza nella mancanza di rispetto da parte di Gesù per le differenze formali alle quali la sua epoca attribuiva una così grande importanza. Che cosa sono le parabole del buon Samaritano (Lc 10, 30-37), degli operai nella vigna (Mt 20, 1-16) e del figlio prodigo (Lc 15, 11-32) se non memento della sostanziale instabilità dei concetti umani di differenza significativa? Che cosa sono le Beatitudini (Mt 5, 3-12) se non un appello a ri-pensare la relazione tra segno linguistico ("Beato" o "Felice") e i contesti collettivi dai quali originariamente quei segni derivarono il loro senso?

Il fatto che Gesù sia infine caduto vittima dell'instabilità originaria nel rivelare la quale la sua caratteristica ironia è stata così efficace non invalida, naturalmente, né l'ironia né la verità che essa è stata in grado di portare alla luce. Come scrive Gans,

poiché l'umanità per il differimento del conflitto dipende dal mantenimento delle strutture formali, il pensare ironicamente è potenzialmente tragico. Una volta che si sia mostrato come la barriera formale assoluta tra segno e referente sia vulnerabile, si pone fine al differimento e la figura centrale diventa soggetta alla violenza sparagmatica. (Signs of Paradox).

Sia la pericope de adultera che la descrizione giovannea dell'interrogatorio di Gesù da parte di Pilato non soltanto illustrano la capacità dell'antropologia generativa, secondo quanto afferma Gans, " di trarre da testi religiosi delle tesi antropologiche chiaramente formulate e 'falsificabili' in linea di principio" (Science and Faith vii-viii), ma anche mostrano fino a che punto la teologia e la missione di Gesù - la sua teoria e pratica - riflettevano una comprensione del nesso originario tra la mimesi, la violenza e il supremo attributo umano che è il linguaggio.

 

Note

 

  1. Thomas F. Bertonneau ha indicato come la presentazione della conquista del linguaggio in The Origin of Humankind (New York: Basic Books, 1994) di Richard Leakey esemplifichi questo genere di gradualismo. Seguendo le argomentazioni di Richard Pinker in The Language Instinct, Leakey accetta l'idea che il linguaggio sia programmato geneticamente e quindi possa essere spiegato in termini di selezione naturale. Tuttavia, continua Leakey, "in che cosa consistette questa pressione della selezione naturale che favorì l'evoluzione del linguaggio? Si può presumere che l'abilità non si sia dispiegata immediatamente in modo completo, così che ci dobbiamo chiedere quali vantaggi potesse conferire ai nostri predecessori un linguaggio poco sviluppato. La risposta più ovvia è che esso doveva offrire un modo efficiente di comunicare. Quest'abilità, sicuramente, avrà conferito dei benefici ai nostri antenati quando essi adottarono primitive forme di caccia e raccolta, che rappresentano una modalità di sussistenza più impegnativa e rischiosa di quello delle scimmie antropomorfe. Mentre il loro tipo di vita diventava più complesso, cresceva anche il bisogno di coordinamento sociale ed economico. In quella situazione, una comunicazione efficace deve aver assunto un valore crescente. La selezione naturale perciò deve avere decisamente incrementato la capacità di linguaggio…. Il linguaggio come lo conosciamo ora deve essere sorto come prodotto delle esigenze della caccia e della raccolta". Vedi Bertonneau 1994, 2-3.
  2. Derrett nota che la folla sta seguendo soltanto la tradizione, e non la legge, quando dice a Gesù che "Mosè ha comandato di lapidare donne di questo genere". La lapidazione era una forma di esecuzione generica, "la forma di pena a cui si faceva ricorso ogniqualvolta la Legge dicesse 'egli sarà messo a morte' o qualcosa di simile senza prescrivere una pena specifica" (11).
  3. Qualche antico manoscritto aggiunge le parole "i peccati di ognuno di loro" al secondo punto in cui Gesù scrive nella polvere. Oggi tuttavia è opinione diffusa che quest'emendazione sia una corruzione testuale tardiva.
  4. "Law in the New Testament," pp. 16-23.

OPERE CITATE

Aristotle. Poetics. tr. Gerald F. Else. Ann Arbor: University of Michigan Press, 1986.

Brooke, A.E. "John," in Peake's Commentary on the Bible. London: Thomas Nelson and Sons, 1959.

Bultmann, Rudolf. History of the Synoptic Tradition. Tr. John Marsh. New York: Harper & Row, 1976.

Conrad, Carl W. "Jesus Seminar Premises and Rules of Evidence." http://www.artsci.wustl.edu/~cwconrad/, March 6, 1997.

Derrett, J. Duncan M. "Law in the New Testament: The Story of the Woman Taken in Adultery." New Testament Studies X,i (October 1963), 1-26.

Gans, Eric. "Differences," Modern Language Notes 96(4): 792-808.

----------. Originary Thinking. Stanford: Stanford University Press, 1993.

----------. Science and Faith: The Anthropology of Revelation. Savage, Maryland: Rowman & Littlefield, 1990.

----------. Signs of Paradox. In MSS.

Kierkegaard, Søren. The Concept of Irony. Princeton, New Jersey: Princeton University Press, 1989.

Kysar, John. John (Augsburg Commentaries). Minneapolis: Augsburg, 1986.

Lightfoot, J.B. Essays on the Work Entitled Supernatural Religion. London: MacMillan, 1893

 

 

 

GENERATIVA