La forma dell’amore

I  racconti di Luca Ricci in L’amore e altre forme d’odio

 

Elisabetta Liguori

elisabetta.liguori-lisi@poste.it

 

 

Uno scrittore cambia nel corso del suo percorso di scrittura e, se cambia, questo cambiamento può considerarsi un valore? In una recente intervista, Luca Ricci, nuovo talento letterario delle scuderie Einaudi, afferma che l’evoluzione, il progresso, la crescita di chi scrive, non sono elementi positivi, al contrario il valore della letteratura, intesa come percorso soggettivo, si nasconde nella ripetizione. Ed infatti i lavori letterari di questo trentenne s’inseguono coerentemente. I suoi racconti, fino ad oggi raccolti in due differenti pubblicazioni, conservano tra loro la dovuta omogeneità, un carattere univoco, coeso, un tratto distintivo forte.

La sua ultima pubblicazione, in particolare, è un libro di racconti tra loro connessi con metodo e logica sorprendenti. Racconti di coppia, racconti non d’amore, ma che dell’amore hanno il significante, il segno esteriore, anche se non la sostanza. In ciascuno di questi c’è un lui che racconta la sua vita con una lei, con o senza figli a carico: vite attraversate da segnali impercettibili di rovina imminente, d’inciampi apparentemente immotivati, di surreale infelicità o di mirabolante erotismo.

Per chi legge, la donna qui descritta sembra quasi essere sempre la stessa, mentre quello che cambia, se pure di poco, è lo sguardo maschile che sulla donna si posa, a volte complice, a volte incerto, a volte malato. Non c’è noia, c’è familiarità.

Il ritmo narrativo è quello domestico, quotidiano, quello dei nostri vicini di casa, quello che dimora in giorni tutti tendenzialmente uguali, dopo aver tolto alla misura l’eccesso, il superfluo, dopo aver ridotto le parole in sillabe e i gesti in tic, per pigrizia o risparmio. Questo ritmo ricorda una cantilena fischiettata in attesa della nota stridula. Tutti sanno bene che ogni esistenza, prima o poi, viene attraversata da una qualche nota stridula, tutti se lo aspettano, per poi fingersi stupiti. Poiché nessuno di questi personaggi sembra credere nella perfezione di un concerto armonico, ciascuno di loro è colto nella sospensione indotta dall’attesa della stecca. Concentrato sul dettaglio, ma rassegnato

I personaggi di Ricci sono, infatti, piccoli uomini all’erta, spaventati dalle ombre, dalle premonizioni, dai simboli, dagli avvertimenti, sempre pronti a rintracciare segnali d’imminenti catastrofi ovunque. Così murales, bastoni da passeggio, lezioni di geografia, carta da parati si trasformano in mostri presaghi. L’amore si adatta alla loro forma, mutando quella originaria, e diventando così un sorta di contenitore dalla forma variabile che sembra destinato a precipitare sempre più in basso, sfuggendo ad ogni controllo. Questo amore è posto in cima ad una pendenza vertiginosa e, a questo amore messo in pericolo, restano incatenati tutti i suoi inquilini, più o meno consapevoli. Si sa, quando qualcosa rotola verso il basso, viene voglia di seguirla, buttarsi con questa a peso morto. Sacrosanto.

Precipitano, eppure quelli di Ricci sono racconti brevi praticamente senza peso. Questa è la loro forza. L’atmosfera è rarefatta, a volte impercettibile, ma stordente; la descrizione sintattica dei luoghi è lieve, sintetica, abile a svuotarli, pur rendendoli ancora più carichi di contenuto.

 

Il mio preferito è La complicazione:

 

Fino a quando esisterà la biancheria sexy non ti tradirò.

 

Un nuovo feticcio nascosto in una mutanda di pizzo, spinge un uomo ad inventarsi una doppia esistenza intorno alla medesima donna, a volte moglie, a volte amante, nella ricerca vana di una complicazione che agiti le molecole della propria esistenza. Costretto ad immaginare, per resistere.

 

Ma i racconti di Ricci non si raccontano. Si vivono. I suoi uomini sono come bestie nella notte con le orecchie tese. L’approccio giusto è quello dell’intuizione, del respiro distratto e irrazionale, che trova la propria conferma in un meccanismo automatico inevitabile quanto naturale, preciso più di una bomba ad orologeria. La narrazione sembra entrare in una scena già avviata, con i suoi spazi e i suoi protagonisti già in attività: punta le luci qui e là, senza operare sprechi; non pronuncia mai una parola di troppo, solo quelle necessarie; individua il punto dolente, il segnale, il ticchettio sinistro; infine aspetta che giunga il piccolo cambiamento necessario all’esplosione finale.

E quest’ultima arriva sempre puntuale, necessaria, benedetta.

Ricci scrive d’amore scegliendo come ambientazione il contesto in cui l’amore s’esprime al meglio e in tutte le sue forme, in quelle alte come in quelle frutto osceno delle peggiori degenerazioni.

In questi termini, quindi, ritorna la “famiglia”, a farla da padrona nella letteratura contemporanea italiana. Ricci, come Pascale, come Veronesi.

Perché, come diceva Yates: quale altro argomento esiste per chi scrive, che non sia la famiglia? Questa stramba, forzata, fortuita, aggregazione d’esseri umani è fonte somma d’ispirazione ancora oggi.

 

C’era bisogno di un salto di qualità ermeneutica, di una proposizione chiara e inequivocabile: non c’era niente oltre l’amore, l’amore era la sorgente del fiume.

 

Questa dichiarazione di principio fa da controcanto ironico alla realtà descritta nel racconto dal titolo: La nuova filosofia. Qui siamo nel grottesco: il gruppo descritto è quello di tre nuovi mostri, il marito, la moglie e il figlio, pronti a qualunque cattiveria l’uno nei confronti dell’altro. Un giovane Gassman sarebbe stato un interprete cinematografico perfetto di questa filosofia famigliare crudele, e avrebbe trasformato le poche pungenti parole in immagini terribili.

La famiglia resta quindi un serbatoio di caratteri, di situazioni esplosive, attraverso le quali esprimere la dinamica del mondo, la sua modernità, i suoi cambiamenti. Perché un uomo, anche quando sceglie di non costruirla in prima persona, è comunque “famiglia” per origine, genetica, radici e futuro.

Leggendo questi scritti, mi è tornata alla mente una commedia di Eric–Emmanuel Schmitt di qualche tempo fa. In “ Piccoli crimini coniugali” lui e lei, rinchiusi in una stanza colma di libri e quadri, si scambiano i ruoli, mentre tra le loro mani esplode la madre di tutte le guerre, quella di coppia, all’interno della quale c’è sempre una vittima e un carnefice.

Guardando una coppia che nasce, scrive Schmitt, bisognerebbe chiedersi sempre quale tra i due individui coinvolti sia l’assassino. Dopo il primo piacere dell’incontro, i due in genere si alleano contro la società, reclamano diritti, vantaggi, privilegi, mentre il nucleo famigliare, crescendo, diventa alibi e millanteria. Fanno passare i loro abbracci, i loro teatrali baci, il loro godimento, per un servizio reso alla razza umana e finiscono per mettere al mondo nuovi assassini, contro i quali si danno da fare con schiaffi, soprusi, angherie, e follie di tutti i  tipi; infine, rimasti soli, senza figli, non resta loro altra via se non quella dello sfogare l’uno contro l’altro tutta la rabbia accumulata, parimenti armati. Come all’inizio, ma con colpi più subdoli, tutto ricomincia.

Ecco: il matrimonio descritto come una via lastricata di cadaveri.

In questa commedia, in un susseguirsi di colpi di scena, non è mai chiaro al lettore chi tra i due protagonisti abbia tentato di assassinare l’altro e il tutto avviene con un unico movente: la paura della solitudine, della vecchiaia, della morte.

Perché la famiglia è comunque una garanzia contro la nostra caducità. Lo sa bene chi di famiglia vive, chi di famiglia muore, chi di famiglia scrive.

La famiglia, nell’attuale contrarsi degli orizzonti, nella precarietà generale, resta il punto più lontano e il punto più vicino, la maggior consolazione e il peggior strazio.

Ricci, come anche Schmitt, è geniale, ma non è buono quando scrive. La sua visione è tutt’altro che buonista, anzi al contrario è cinica, spietata e solo a volte un po’ stupita da se stessa.

Ricci non ha bisogno di cambiare come scrittore, è l’oggetto principale della sua scrittura a mutare di continuo.

Unico appunto: il suo sguardo è esclusivamente maschile, e lo è in modo quasi orgoglioso. Mi piacerebbe potergli chiedergli perché latita tra questi deliziosi racconti l’analisi fornita dall’altra metà del cielo, perché ha scelto di non lasciarsi mai andare ad un tentativo mimetico. Neppure una sola volta.

Forse Ricci è sì cattivo, ma non così tanto come sanno esserlo le donne.

 

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