Anthropoetics I, no. 1 (June 1995)

L’unica fonte della religione e della morale

Eric Gans

French Department U. C. L. A.
Los Angeles CA 90095-1550
gans@humnet.ucla.edu

Traduzione dall’inglese di Fabio Brotto

www.bibliosofia.net

 

 

La religion est une réaction défensive de la nature contre la représentation, par l'intelligence, de l'inévitabilité de la mort. (Henri Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion [in Oeuvres, PUF 1970, p. 1086])
Qu'on s'imagine un nombre d'hommes dans les chaînes, et tous condamnés à la mort, dont les uns étant chaque jour égorgés à la vue des autres, ceux qui restent voient leur propre condition dans celle de leurs semblables, et, se regardant les uns et les autres avec douleur et sans espérance, attendent à leur tour. C'est l'image de la condition des hommes. (Pascal, Pensées, 199-434)

Perché non c’è nessun ateo nelle buche [quelle scavate dai soldati per proteggersi dal fuoco nemico nella I Guerra Mondiale – nota del tr.]? Perché hanno tutti fatto la scommessa di Pascal. In tempi di crisi, Dio è presente, non in un senso ineffabile, ma come l’interlocutore che è l’ultima risorsa. Dio è chiunque è denominato dal nome che proferiamo nel panico. La spiegazione razionale consueta secondo cui nella buca preghiamo per prudenza, "per mantenere tutte le nostre opzioni aperte", non riesce a spiegare perché proprio Dio sia un'opzione primaria. Questa opzione esiste soltanto perché l’umanità proviene da quella crisi per risolvere la quale sia Dio che il linguaggio -- linguaggio inteso come la denominazione-di-Dio --sono stati rivelati ed inventati. L’onnipotenza di Dio è l’inverso della nostra impotenza nell’evento dell'origine umana, l'unica crisi il cui risultato potrebbe direttamente essere influenzato dal linguaggio della preghiera.

La prima parola è il nome di Dio perché con l'enunciazione del suo nome, con la sostituzione del segno al gesto appropriativo, noi differiamo la minaccia di un conflitto violento intorno all’oggetto del nostro desiderio comune. La fonte di questa crisi originaria è la predisposizione dell’umanità alla mimesi, che anche in circostanze di abbondanza genera la penuria moltiplicando la desiderabilità. Quel che ora chiamiamo "umanità" non molto tempo fa era chiamato "uomo", comprendendovi, e tuttavia non ancora comprendendovi, la donna; la nostra ipotesi spiega lo scandalo di questa esclusione. Quando abbiamo parlato dell’ "uomo", abbiamo denominato la nostra specie dal suo genere più violento; se ora possiamo abbandonare questa designazione, è perché ora capiamo che l’origine dell’essere umano non è la sacralizzazione, ma il differimento di questa violenza, la sua différance attraverso il segno del linguaggio.

Noi non contestiamo più il primato della relazione verticale significante-significato nella sfera dei segni. La posizione dominante della verticalità di Saussure è accettata anche entro il mondo peirceano della semiotica "orizzontale". È tempo di compiere il passo più radicale, quello di supporre l’identità ultima della verticalità linguistica con il trascendente in generale. Sia il cielo delle idee di Platone che il paradiso a noi più familiare dell’aldilà giudeo-cristiano o musulmano sono ipostasi della relazione verticale del segno al suo referente. Ciò è abbastanza chiaro nel caso delle idee, che sono nient'altro che parole reificate, ma è ugualmente vero per la residenza eterna delle anime. Anche se noi inevitabilmente situiamo il trascendente prima della sfera etica o umana, la ragione ultima del nostro gesto è essa stessa etica. Possiamo denominare questo il "paradosso della trascendenza": è la necessità di mantenere l'ordine fra gli esseri umani che genera la verticalità eterna del segno sacro.

La postulazione della trascendenza è la prima ipotesi originaria; la comunità umana nascente scopre ed inventa la permanenza dell’essere centrale sacro che porta la pace differendo l’appropriazione di sé. Tutta la teologia è un'elaborazione di questo postulato originario. Dio garantisce l'etica fornendo una fonte trascendente per le norme etiche, che promulga come leggi divine. Le idee di Platone effettuano la stessa funzione, ma meno esplicitamente. L’idea del Bene non è in sé una legge etica, ma garantisce la possibilità di leggi etiche, anzi, suggerisce che la conoscenza esplicita delle idee -- accessibili soltanto al filosofo -- porti con sé la capacità e la responsabilità uniche di creare e governare la società buona.

Quando togliamo al mito della caverna il velo della sua ambientazione immaginaria, quel che rimane è la priorità trascendentale delle idee sugli schiavi che impersonano il genere umano. Sia Platone che la Bibbia richiedono un regno trascendente per garantire la loro tematizzazione dell'etico sotto forma di leggi. Sia la metafisica che il giudaismo sono prodotti di società che hanno operato una rottura con ciò che Eric Voegelin ha chiamato la "compattezza" degli imperi arcaici, Egitto e Babilonia, dove una garanzia sovrannaturale delle norme etiche è collegata indivisibilmente alla pratica rituale.

Il rifiuto mosaico della raffigurazione concreta della divinità non è un semplice trionfo dell’illuminismo sulla superstizione. Il profitto sociale che si ricava dal rituale prolunga l'effetto di differimento proprio della scena originaria; il culto garantisce successo mondano perché allontana il conflitto interno. Ma la rivelazione mosaica indica che la potenza del culto comune è indipendente dalla centralità estetica della figura. Un sistema etico più libero e interiorizzato è garantito da una relazione di trascendenza più nettamente verticale, in cui la rappresentazione della divinità è ridotta alla forma minima e originaria del segno linguistico. Sia la metafisica che la religione mosaica muovono nella direzione di un’etica governata da principii morali piuttosto che da regole rituali arbitrarie. Questa postulazione della trascendenza afferma l’importanza etica primordiale del rapporto verticale del segno al referente, in contrasto con la concretezza mistificata delle interazioni mondane "orizzontali" caratteristiche del rituale.

La netta separazione verticale della sfera trascendente dal mondo reale è una fase iniziale nel processo dialettico della "secolarizzazione", la riduzione del trascendente all’immanente, del verticale all’orizzontale(1). Specificare i principii etici minimi consonanti con l’ipotesi originaria vuol dire confrontarsi con il nodo supremo della secolarizzazione: quello della costruzione di un modello che spieghi l'emergenza originaria del verticale dall'orizzontale senza ricorso ad una sacralità anteriore.

Qualunque sia l'utilità di parlare di cose come il "codice genetico", la verticalità trascendente del segno non preesiste al linguaggio umano. Per arrivare al modello di Saussure della lingua come mondo parallelo disteso sopra la realtà non linguistica, il linguaggio deve passare attraverso una fase in cui la verticalità è costituita all'interno dei rapporti orizzontali dell’appetito mondano. Questa prima fase è quella del linguaggio ostensivo, contrastante con quello maturo o dichiarativo(2). Un’espressione ostensiva si riferisce a qualcosa che è già presente, come in "fuoco!" o "uomo in mare!" Questi sono ostensivi tipici in quanto sono usati in momenti di crisi; possiamo persino dire che il loro uso costituisce la crisi. (Non gridiamo "fuoco" ogni volta che accendiamo un fiammifero.) La forma più primitiva della lingua riflette il caos nel quale è venuta alla luce.

Derrida precisa in De la grammatologie che la linguistica di Saussure condivide i presupposti fondamentali della metafisica. Ma la metafisica in se stessa è infine una visione del linguaggio: una che vede la frase o la proposizione dichiarativa come la forma linguistica fondamentale, riducendo quella ostensiva e quella imperativa a varianti "difettose" della dichiarativa. C’è un chiaro parallelo fra la metafisica di Platone ed il nome "dichiarativo" di Dio (ehyeh asher ehyeh) in Esodo 6(3). Ma, contrariamente al rifiuto platonico dell’ostensività, la scena biblica aggiunge un nome "ostensivo" essoterico (YHVH) dopo quello dichiarativo esoterico. Malgrado la rivelazione del nome-frase di Dio, che afferma la sua esistenza oltre l'appello pre-tematico dell’ostensivo, l’ostensività rimane il livello comune della pratica religiosa. Se la metafisica capisce soltanto le frasi dichiarative – una preghiera metafisica è inconcepibile – la religione non dimentica mai l’originarietà della presenza ostensiva.

Nella buca, persino coloro che altrove non pregano mai fanno la scommessa di Pascal. La buca propria di Pascal è un carcere in cui la violenza dell’uomo sull’uomo non è mediata dai proiettili di mortaio. Questa ambientazione riflette un’intuizione antropologica profonda; la scena della nostra puntata al gioco è una scena di violenza puramente umana. Noi supplichiamo Dio, creatore e creazione dell’uomo, di manifestarsi al momento della crisi per fermare la mano dell’appropriazione potenzialmente violenta. La nostra preghiera dalla buca è un riconoscimento della sua presenza, non una proposizione ragionata. Il suo linguaggio non è dichiarativo, ma ostensivo. Preghiamo Dio nella crisi; ma Dio difetta del potere di risolvere la maggior parte delle crisi, o, per parlare come un credente, rinuncia all’uso di esso. La violenza umana tecnologicamente mediata della guerra, come la violenza mortale della natura, è invulnerabile al potere di Dio, che "lascia la sua pioggia cadere sul giusto come sull’ingiusto". L’unica preghiera efficace è quella dell’intera comunità umana, l'uso comune e spontaneo del segno come il nome di Dio per rappresentare l'oggetto comune di desiderio ed abbandonare il movimento appropriativo potenzialmente mortale verso di esso. Soltanto in questa configurazione originaria si potrebbe realmente dire che Dio "esiste", che nel mondo ha obiettivamente la funzione di prevenire la violenza umana.

Ma i momenti di crisi non si prestano alla speculazione sui limiti di Dio. In quale situazione di crisi può essere escluso del tutto il pericolo della violenza umana? Neppure il progresso d'una malattia è sottratto all’influenza dei desideri premurosi od ostili di coloro che stanno intorno al malato. La scommessa di Pascal va sempre bene in caso di necessità. Dato che la violenza la cui dilazione ci ha obbligati a inventare noi stessi nel linguaggio non è naturale ma umana, noi non possiamo comprendere la violenza come qualche cosa di altro dall’umano. In primo luogo umanizziamo la violenza naturale, poi facciamo appello a Dio perché la prevenga. Gli effetti positivi della preghiera nel sostegno del nostro coraggio e nel rinforzo della solidarietà di gruppo sono lontani riflessi della pace stabilita dal segno linguistico come nome-di-Dio nella crisi originaria.

Quando dico che "noi" siamo incapaci di comprendere la violenza altrimenti che come umana, mi riferisco non alla nostra comprensione "etica" o teorica, ma alla nostra intuizione "emica" della violenza dall’interno, al momento della crisi. La distinzione emico-etico, che si traduce in quella fra il linguaggio ostensivo e quello dichiarativo, permette che si spieghi come possiamo pregare Dio in tempo di guerra senza credere in lui in tempo di pace. L’ostensivo è il linguaggio della crisi; il dichiarativo quello della stabilità. Nella buca, noi crediamo "ostensivamente"; parliamo come se fossimo in presenza di Dio. Al contrario, quando affermiamo una proposizione teologica, la domanda se l'esistenza di Dio sia implicita nel nostro enunciato è, per quanto cruciale per la nostra argomentazione, non essenziale per il nostro significato. Ma qualunque sia la teologia delle nostre espressioni dichiarative, Dio sussiste nelle nostre ostensive, dove la presenza nel linguaggio non può essere distinta dalla presenza reale.

Il funzionamento ostensivo del segno è indipendente dalla nostra ricostruzione ipotetica della scena originaria e dalla nostra derivazione da essa dell'idea di Dio. È irrilevante per la nostra credenza ostensiva se l'ipotesi originaria sia o non sia più potente di quelle della metafisica o della teologia; usare la lingua è già di per sé esprimere questa credenza. Il credente differisce dall’ateo soltanto nell'affermare l'applicabilità della loro esperienza ostensiva comune al dominio del linguaggio dichiarativo. Non c'è nessuna dimostrazione ultima disponibile a sostegno dell’una o dell’altra posizione. La natura dell'esistenza dell’originario significato del segno ostensivo non può mai essere determinata separandolo dalla scena in cui esso si manifesta.

Il fatto stesso del mio appello a Dio implica la mia solidarietà con il resto della razza umana. Un Dio concepito come demone esclusivamente personale non avrebbe alcun potere sopra gli altri partecipanti alla scena del conflitto umano che è l’originario modello di crisi. È inconcepibile, per esempio, che il Dio che prego per una cura alla mia malattia sia privo del potere di curare quella di un altro. La nostra credenza ostensiva in Dio fornisce il nucleo della nostra intuizione etica: l’essere sacro è presente a me soltanto perché è presente a tutti, perché tutti hanno trasformato il loro gesto di appropriazione in un segno.

Ma la buca non è certo il luogo da cui si possa far uscire il contratto sociale. La nostra prima nozione etica esplicita può emergere soltanto quando, essendo la crisi passata, noi allentiamo la nostra fissazione sul centro e prendiamo coscienza degli altri membri della comunità. A questo punto diventiamo assoggettabili alla scandalizzata reazione di risentimento che rivela l’esigenza morale della reciprocità fra gli utenti del linguaggio umano.

Ciò che chiamiamo il nostro "senso di giustizia" in primo luogo è sperimentato attraverso lo scandalo dell’ingiustizia. Non abbiamo bisogno di riflessione per provare risentimento quando ci vediamo rifiutato un privilegio accordato ad un altro. Il modello che applichiamo a tali situazioni è quello dello scambio simmetrico di segni nella scena originaria del linguaggio. La crisi originaria è evitata dall’enunciazione del segno come nome-di-Dio da parte dell’intera comunità umana. In questo momento non c’è gerarchia, nessun individuo alfa; l’essere eccezionale che risolve la crisi è Dio, non un uomo. Il risentimento è la nostra scandalizzata reazione all'esistenza di situazioni in cui questa configurazione simmetrica non è mantenuta. Il trattamento disuguale di chiunque costituisce uno squilibrio che è scandaloso perché sembra minacciare la comunità di un ritorno al caos originario. Se vengo trattato male non sono soltanto sconvolto; sono nel terrore della potenziale disintegrazione dell’intero ordine sociale.

La nostra reazione risentita alla diseguaglianza rivela la nostra credenza nel modello morale -- una credenza ostensiva come la credenza in Dio che si dà nella buca. Il risentimento addita l’atto di ingiustizia, lo fa conoscere. Dio rimane l’ascoltatore implicito del nostro rancore come lo era della nostra richiesta di aiuto, ma ora noi ci aspettiamo che il resto della comunità umana condivida la nostra reazione. Laddove la buca rinnova il terrore della crisi originaria che impone l’uso del segno linguistico, la scena del risentimento riproduce il momento in cui il linguaggio ha già portato la pace col differire l'appropriazione dell'oggetto centrale. Nel primo caso, non c’è un modello preesistente di risoluzione; noi ci mettiamo nelle mani di Dio. Nel secondo, ci aspettiamo che la comunità serri i ranghi contro una minaccia ad una stabilità già stabilita.

Il modello morale egualitario è la base minima dell'etica, proprio come la credenza ostensiva in Dio è la base minima della religione. La pretesa tradizionale che questo modello, come l'idea di Dio, sia implicito nell'umanità stessa è rafforzata dalla sua identificazione come quello dell’originario scambio di segni. Ma il risentimento che rivela a noi questo modello non è una dimostrazione della sua verità più di quanto la credenza che si manifesta nella buca sia una dimostrazione dell’esistenza di Dio. La convinzione che accompagna il nostro senso interno della moralità è ostensiva piuttosto che dichiarativa. E proprio come chiediamo a Dio di risolvere problemi causati da fenomeni esterni al dominio antropologico, nel quale soltanto l'idea di un controllo divino trova giustificazione, così anche il nostro risentimento è destato anche quando la non-reciprocità che ci offende è difendibile su un piano etico più ampio.

Come l’originario differimento della violenza attraverso la rappresentazione conduce alla formulazione dei codici etici? La prescrizione di atti concreti, per quanto elaborata, ha come base il differimento differenziante, o différance, dell'appropriazione dell’oggetto centrale. Al nucleo degli atti di osservanza rituale prescritti nei codici antichi sta la ripresentazione dell’originaria interdizione del centro.

Il vantaggio dell’interdizione mediata dal linguaggio sulle inibizioni che caratterizzano il comportamento animale è la flessibilità superiore del software rispetto all’hardware. Poiché le inibizioni degli animali non possono essere tematizzate nel linguaggio, non possono neppure essere trasgredite. Il nucleo originario dell’interdizione è il differimento attraverso la rappresentazione -- non l’assoluta negazione, ma il rinvio. Il successo della scena originaria non è dal lato dell’inibizione, ma della liberazione.

Tutto il pensiero realizza il movimento liberatorio dell’autocomprensione attraverso il segno. L’antropologia più vera è quella che esemplifica meglio il potere della rappresentazione di ridurre la verticalità dell’interdizione sacra alle relazioni orizzontali, mondane, un processo a volte chiamato decostruzione. Il principio della massimizzazione del differimento definisce un’etica sia del pensiero che dell’azione. Ciò che deve essere rinviato attraverso la rappresentazione è il conflitto generato dalla de-differenziazione, la convergenza dei due lati del triangolo mimetico su un singolo oggetto. L’atto di valore etico positivo è quello che genera una nuova differenza significativa, quello che promuove l'apertura piuttosto che la chiusura.

Tuttavia la creazione della differenza non può essere dettata dalla legge etica. Le norme etiche devono ripartire l'accessibilità dei segni, non la penuria delle cose, il cui modello originario è l'oggetto centrale unico. Le interdizioni ed i precetti di corollario che compongono un codice etico sono tali che tutti sono presunti in grado di adempierli. L’unico modo di rivendicare l'incapacità di obbedire ad una legge etica è quello di chiamare in causa l’infermità mentale (4).

Ma nessuna legge può prescrivere le differenze significative che la "società aperta" cerca di moltiplicare. Il sistema del mercato che promuove la creazione e la circolazione di tali differenze funziona sulla base inerentemente fallibile del giudizio economico. Contrariamente ai ruoli differenziali tipici delle società rituali, i valori del mercato sono determinati a posteriori attraverso lo scambio. Le leggi regolano i margini dell’operazione di scambio; non toccano il suo nucleo centrale. In linea di principio, le transazioni del mercato sono non-coercitive: con alcune eccezioni ben definite, io posso offrire qualunque cosa al prezzo che scelgo.

Il sistema del mercato ci abitua alla divergenza fra l'imperativo sociale di un differimento vieppiù libero e l’etica nel senso stretto d'un insieme di regole da rispettare. Siamo tanto avvezzi a questa tensione moderna fondamentale, che non riusciamo ad essere colpiti dall’anomalia di una situazione in cui i nostri bisogni etici non possono essere risolti da un’etica. Il nostro unico codice etico applicabile è la moralità minima della giustizia criminale. La legge assimila le violazioni gravi della reciprocità (furto, violenza carnale) all'appropriazione proibita del centro; essa è indifferente alla qualità degli scambi interpersonali alla periferia.

Le leggi etiche non sono mai regole soltanto strumentali; persino dove non c’è alcuna pretesa di promulgazione divina, la loro forza imperativa è garantita trascendentalmente. Questa garanzia vale non soltanto per le leggi, ma ugualmente per le proposte etiche dei sistemi metafisici, persino per quelli che pretendono di essere "al di là del bene e del male". L'uso di concetti moralmente pregnanti come "bene" o "giustizia" rende impossibile evitare lo slittamento da "è" a "deve". Questo spostamento invisibile della questione etica dal piano antropologico a quello concettuale è stato efficace durante la storia pre-nietzscheana della metafisica; è ancora molto vivo, se pure un po’ più debole, oggi. Una volta che uno vada oltre la discussione genealogica, o quel che io chiamo l'analisi originaria, dei concetti come "il bene" per dare la sua propria definizione di essi, cioè una volta che uno accetti la loro validità come concetti -- come è più o meno obbligatorio nella filosofia morale anglo-sassone -- non può evitare di andare, oltre la descrizione, alla prescrizione. Una "teoria della giustizia" non è una teoria nel senso usuale del termine. Non possiamo creare un modello teorico di giustizia senza trasmettere l'implicazione imperativa che noi dovremmo comportarci nel modo teorizzato come giusto.

Le teorie della società giusta sono vecchie quanto il pensiero concettuale. La nascita della metafisica greca accompagna l'allentamento dei vincoli rituali in un'economia basata sullo scambio, il primo passo verso un sistema di mercato moderno. In un tale mondo, in cui il comportamento non può più essere regolato dalla prescrizione rituale, l’etica metafisica, l’etica del concetto, ritrova la verità dell'ordine sociale col proiettare nel contenuto concettuale dell'idea del Bene il modello morale implicito nell'uso del linguaggio. Il ragionamento che interviene nell'istituzione di un tale concetto è circolare. Per prima cosa si postula l'esistenza di un Bene universale dal quale la rivalità mimetica è esclusa in qualche modo – mentre la nozione del buono propria del senso comune, come è esposta da Callicle nel Gorgia, è relativa, il mio bene ed il vostro non essendo necessariamente identici o persino compatibili. Allora si sostiene che la "società buona" è quella i cui membri agiscono semplicemente, come tutta la gente illuminata deve, per il "Bene".

La costruzione di questa società buona richiede nondimeno la riflessione politica; la gente necessita di essere istruita riguardo al Bene che è il suo proprio maggior interesse. In opposizione, l’utopia evangelica del regno dei cieli obbedisce soltanto al principio morale fondamentale della reciprocità; il parallelo platonico a questo regno trascendente non è la Repubblica ma il cielo delle idee. Ma in entrambi i casi, il trascendente è un’ipostasi del mondo della rappresentazione; il comune referente sia del cielo delle idee che di quello della Parola è il segno.

Se il modello morale è basato sullo scambio reciproco delle parole, la nozione di giustizia originariamente interessa la distribuzione delle cose(5). La dike greca si riferisce alla distribuzione giusta o equitativa prima di acquistare il significato di "giustizia" nel senso stretto o giudiziario. La nozione di "giustizia sociale" ancora implica l'uguaglianza distributiva. John Rawls nella sua Teoria della Giustizia(6) si preoccupa non del crimine e della punizione ma della distribuzione dei beni. La finzione che l'autore chiama la "posizione originale" è una versione metafisica della scena originaria, dove l'uguaglianza è imposta da un "velo dell’ignoranza" artificialmente costruito piuttosto che essere una condizione necessaria dell'ipotetica emissione del segno nell'evento originario. Il passaggio dall'ignoranza alla conoscenza nello schema di Rawls può essere capito come un’allegoria dello sviluppo storico dall’egualitarismo primitivo alla moderna società di mercato.

Rawls postula che le cose dovrebbero di diritto essere equamente distribuite; qualunque altra distribuzione deve essere giustificata dal maggior bene dei membri meno favoriti della comunità. Questo tentativo di articolare l'uguaglianza morale con la differenziazione etica è un gradino oltre l’utilitarismo di Bentham, che tratta la società come un aggregato di atomi umani(7). Ma la "posizione originale" va oltre la familiare finzione del contratto sociale, ove i contraenti hanno conoscenza completa della loro situazione: la scena fittizia di Rawls è immaginabile soltanto come diretta dall’esterno. Una volta che la finzione è convertita in ipotesi, l’autoritarismo, che è l'unico contesto plausibile di questa scena, diventa implicito nella scena stessa. Giacché il genere di incertezza che una posizione originale, in contrasto con un'ipotesi originaria, richiede, dovrebbe essere imposto dall'equivalente di un guardiano platonico. Questa valutazione antropologica della base autoritaria del redistribuzionismo liberal/socialista non per coincidenza è simile a quella di conservatori moderni come Hayek(8).

La giustizia in senso stretto è il ripristino di uno squilibrio, la punizione di un crimine. L’Orestea racconta in termini mitici l'emergere del sistema giudiziario civico che rompe la catena continua della reciproca punizione delle parti offese e delle loro famiglie. La giustizia in questo senso non è interessata alla distribuzione originale dei beni; essa interviene soltanto per neutralizzare atti di ridistribuzione che minacciano di sovvertire il differimento del conflitto. La giustizia è un’integrazione al differimento originario dell'appropriazione; essa punisce la violazione di una norma che è stata imposta nella scena originaria dalla potenza sacra che si manifesta in presenza della comunità nel suo insieme.

Durante tutta la storia precedente, la diminuzione storica di questa potenza originaria è stata recuperata per mezzo di escatologie religiose o secolari che assegnano come fine della storia l’eternizzazione del differimento della violenza con cui essa ha avuto inizio. Il modello morale egalitario, che presiede all'origine dell’uomo come animale etico, si trasforma in obiettivo immanente dell'umanità. Ma il disporre la simmetria del differimento originario come obiettivo finale impone una chiusura alla struttura paradossale aperta della mimesi umana. La pretesa che la storia alla fine ritorni a quel modello che ha differito il conflitto al suo inizio – quindi giustificando in suo nome la violenza attuale ("il fine giustifica i mezzi") -- riduce la storia nel suo insieme all’eterno ritorno della scena originaria. Ma la dottrina che si occupa dell'ordine sociale totale come esso fosse perpetuamente nel travaglio della crisi originaria è precisamente ciò che chiamiamo "totalitarismo". Ciò che pretende di essere l’auto-chiusura della storia è in realtà imposizione di una tirannia gnostica.

Dal punto di vista dell'ipotesi originaria, l'uguaglianza materiale approssimativa che segue la divisione dell'oggetto centrale non è l’inizio ma la conclusione del processo originario di distribuzione. La vera attività economica dipende dal differimento della centralità rituale; solo dopo che questa attività è stata svolta fuori dal centro comune il suo prodotto è restituito al centro per la valutazione. Molto prima che si trasformi in una forza dominante, e per quanto fortemente un ordine sociale dato tenti di resistere alla sua influenza, c’è sempre un "mercato": un luogo dove il valore è determinato attraverso lo scambio. Al livello minimo, la competizione delle società rivali nella guerra fornisce un luogo per la determinazione del valore -- non soltanto quello delle armi, ma dell’evoluzione sociale in generale. La creazione del libero mercato "capitalista", che rende tutti i beni fungibili, tematizza e libera questo processo di scambio; non lo genera.

La società di mercato realizza l'intenzione cristiana di trasformare il modello morale in uno etico, ma in un modo minimale piuttosto che massimale. Fra il Regno ed il mercato si trova tutta la differenza sussistente fra l'amore reciproco degli amici intimi e il libero scambio di beni fra sconosciuti. Ma prima che i beni possano essere scambiati e distribuiti, devono essere prodotti. Una produzione sempre espandentesi e diversificantesi è l’imperativo primario del sistema di mercato, perché espande continuamente la capacità dei membri della società di acquisire le personalità differenziate che obbligano i loro simili a riconoscerli come singole persone. La deproletarizzazione della classe lavoratrice è andata di pari passo con l’espandersi delle capacità produttive del sistema industriale di mercato.

Il libero mercato, in contrasto con i sistemi di scambio controllati ritualmente, obbliga l'individuo a valutare il prodotto del suo lavoro prima di verificare quella stessa valutazione nel mercato. Questo affidarsi della società sia alla valutazione soggettiva che alla sua correzione successiva da parte dell'obiettività a posteriori del mercato genera un risentimento che fluttua senza ostacoli in virtualmente tutti i membri della società di mercato. Anche se in situazioni di crisi come la Grande Depressione questo risentimento può focalizzarsi sul sistema del mercato in sé, esso normalmente è associato a "ingiustizie" specifiche che possono esse stesse trasformarsi in oggetto di scambio. I corpi legislativi elettivi caratteristici del sistema di mercato maturo costituiscono mercati per idee etiche e per i risentimenti, reali o potenziali, che ne sono alla base. L'ordine politico democratico consente di negoziare questi risentimenti individuali sulla base di una versione espansa del modello morale: una persona, una "voce" o voto. L’efficacia del dominio "morale" della politica come correttivo al dominio "etico" dell'economia deriva dal fatto che, come il mercato economico, il mercato etico è più saggio di qualsiasi insieme a priori di norme.

La discussione precedente suggerisce che possiamo derivare dall'ipotesi originaria non un’etica normativa, ma due principii metaetici:

  1. Lo scambio reciproco di segni è il modello fondamentale ("morale") di interazione umana. Questo modello giustifica la nostra intuizione che "siamo creati uguali".
  2. La funzione fondamentale dell'ordine sociale è il differimento del conflitto attraverso la generazione di differenze significative (différance).

 

Il primo principio è la base di tutta l'etica. Ma è insufficiente per governare la società. Per contro, l'applicazione sempre più minimale del modello morale all’interazione umana, che accompagna il processo teorico della secolarizzazione, permette una portata sempre più grande alla funzione del secondo principio, che, come abbiamo visto, non è suscettibile di regolazione etica. Il mercato libero minimizza il vincolo sulla circolazione dei beni e dei servizi che regola la produzione sociale delle differenze nella società.

Ma sostenere che la saggezza del mercato è superiore a quella del teoreta è affermare, come principio derivato, la necessità che il mercato continui a funzionare, poiché la sua perdita non potrebbe essere reintegrata da alcuna teoria. Questo principio ci consiglia di rigettare i tentativi di sostituire la società di mercato con l’una o l’altra variante dell’utopia socialista, e di sostenere le forze politiche che espandono la circolazione sia dei beni economici che delle idee etiche. Allo stesso tempo, in conformità con il primo succitato principio, dobbiamo difendere la capacità dei membri dell'ordine sociale di impegnarsi nello scambio linguistico reciproco che è l'essenza del comportamento umano. Questa clausola è analoga al requisito del modello distributivo di Rawls, secondo cui la diseguaglianza sociale deve contribuire al benessere dei meno favoriti, ma il requisito minimo del benessere umano non può essere espresso in termini materiali. Quel che è essenziale è massimizzare la partecipazione al dialogo sociale.

Ma i prerequisiti di questa partecipazione in un dato momento storico non possono essere specificati in anticipo. Né la libertà d'una società può essere misurata all'interno di una singola generazione; le sofferenze dei genitori possono essere riscattate dal successo dei figli o dei nipoti. Poiché l’attività politica, come quella economica ha luogo in un mercato che è più saggio di qualsiasi teoria, nessuna posizione teorica generale può servire da guida infallibile per l’azione all'interno di esso. Quindi la teoria che pone la sua fede nel mercato spiega perché a questa fede non possa essere fatta per giustificare il fanatismo politico, compreso il fanatismo che senza riserve subordinerebbe lo scambio politico ai valori economici del mercato.

 

Note

 

1.L’antropologia generativa articola il nostro malcontento postmoderno nei confronti della versione illuministica della secolarizzazione, che rifiuta totalmente il trascendente o lo riduce alla versione più astratta del "primo motore" metafisico (deismo), senza mai spiegare la trascendentalità del linguaggio che usa nel processo. L’ateismo rivoluzionario è un fondamentalismo religioso invertito, che usa la verticalità per dirci che il verticale non esiste.

2. Il mio The Origin of Language (Berkeley: University of California Press, 1981) contiene una discussione più completa sul questa distinzione

3. Discuto lungamente il passo dell’Esodo in Science and Faith (Savage, Md.: Rowman & Littlefield, 1991); il parallelo con Platone è preso in esame in un prossimo lavoro intitolato Paradoxes of Mimesis.

4. S. Paolo proclama che il senso stesso della legge ebraica è quello di generare la colpa per la nostra incapacità di adempierla. Ma noi ci sentiamo colpevoli solo perché la fonte di questa inabilità si trova nel ribellismo della nostra volontà piuttosto che nella nostra incapacità di seguire i dettami della legge.

5. Nel cerchio originario dei partecipanti che circondano l'oggetto sacro non c’è "giustizia", perché non c’è alcuna distribuzione materiale. Nello sparagmos susseguente, in cui l'oggetto è fatto a pezzi ed è distribuito fra i partecipanti, la forza del risentimento originario contro il centro diminuisce la rivalità fra i partecipanti, con conseguente divisione approssimativamente uguale. La giustizia fra i partecipanti è una conseguenza della rivalsa della comunità contro il centro per essersi negato ai suoi membri.

6. Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press,1971.

7. Di conseguenza, il calcolo utilitario apparentemente benigno può essere fatto per giustificare qualsiasi grado di violenza sacrificale adducendo il fine di portare alla coesione il "più gran numero" di atomi. L'economia del modello del capro espiatorio di Girard, in cui un singolo individuo è sacrificato per il più grande bene del tutto, è sia il nec plus ultra che la reductio ad absurdum dell’utilitarismo

8. Il modello di Rawls difetta della nozione stessa di produzione, per non parlare di quella di innovazione imprenditoriale. La sua lista dei " beni primari", la distribuzione dei quali è nascosta dal "velo dell'ignoranza", include non soltanto gli elementi fondamentali per la sopravvivenza ma la "ricchezza", come se quest’ultima fosse trovata in natura e suddivisa da un'autorità centrale piuttosto che creata tramite l’attività economica con assunzione di rischio.

 A GENERATIVA

 

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