Narrazione e spiegazione

 

Spiegare Anna Karenina alla luce della sua epigrafe

 

Marina Ludwigs

 

University of California, Irvine

Department of English and Comparative Literature

 

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

 

brottof@libero.it  

 

www.bibliosofia.net

 

 

In questo intervento, esaminerò il nesso tra spiegazione e narrazione, guardando brevemente al lato teoretico di questa problematica, e più in dettaglio a specifici elementi esplicativi che emergono nel romanzo di Tolstoj Anna Karenina. Sebbene l’uso stesso del termine “spiegazione” non sia appariscente nel settore umanistico quanto lo è in quello scientifico, l’attività esplicativa, sotto altri nomi, è non meno rilevante. Poiché, invero, un impulso vivificante dietro l’interpretazione testuale è una spiegazione di come un testo possa essere fatto corrispondere ad un altro testo, mentre le contemporanee attività teorico-critiche che demistificano le assunzioni estetiche e culturali, contestualizzano la conoscenza storica,  o abbattono gli schematici presupposti ideologici, sono modi di spiegare i meccanismi del linguaggio. Il mio approccio alla spiegazione umanistica passa attraverso la spiegazione scientifica, che costituisce un discorso ormai ben stabilito, con un insieme di punti ben definiti e di argomentazioni standardizzate. Lo scopo di questo intervento non mi consente di presentare nel dettaglio la mia argomentazione della spiegazione umanistica. Mi limiterò a mettere in luce alcuni punti rilevanti per la narrativizzazione della spiegazione.

 

Nei dibattiti scientifici, la spiegazione è definita come una risposta alla domanda “perché?” ( in contrapposizione alla domanda “cosa?”, che sollecita una descrizione del fenomeno in questione). La risposta esplicativa è un’argomentazione che deduce logicamente l’ explanandum (la descrizione di un fenomeno che deve essere spiegato) dall’explanans (leggi generali e condizioni specifiche antecedenti che danno ragione del fenomeno). La questione intorno a ciò che costituisce l’explanans ha suscitato nella comunità scientifica  un vivace dibattito sul problema di come rappresentare le regolarità del mondo fisico, e se queste in un qualche senso siano “reali”. Una filosofa che ha sollevato la questione della “realtà” delle leggi generali è Nancy Cartwright. Nel suo libro The Dappled World ella afferma che vedere il mondo dei fenomeni fisici attraverso la lente delle leggi generali è un errore. Le leggi naturali come “associazioni regolari necessarie tra proprietà”(1) sono delle astrazioni utili che vengono erroneamente universalizzate. Esse sono utili in quanto creano modelli scientifici che funzionano, ma i modelli che esse permettono di formulare funzionano soltanto sulla base dell’ “ogni altra cosa essendo eguale” (ceteris paribus). Come dire che esse “tengono solo in condizioni circoscritte o fin tanto che non sopravvengono fattori rilevanti per il risultato oltre a quelli già specificati”(2), come può capitare dentro una batteria, un refrigeratore o un razzo – fin tanto che sono in atto speciali condizioni di schermatura. Nelle circostanze in cui la copertura protettiva viene distrutta o non può essere costruita, le leggi generali non sussistono più. L’esempio che fa la Cartwright è quello di una banconota spiegazzata gettata da una finestra. In questo caso, le leggi della meccanica di Newton e la loro applicazione alla caduta dei corpi non aiuterebbero quasi affatto a calcolare quanto tempo impiegherà il biglietto a raggiungere il suolo. Si dovrebbe prendere in considerazione l’azione del vento – un fenomeno così complesso da non poter essere fatto rientrare in alcun modello. Il termine proposto dalla Cartwright per le speciali circostanze in cui, ceteris paribus, si affermano delle regolarità simili ad una legge è macchina nomologica. Nella sua presentazione, una macchina nomologica è “una sistemazione (abbastanza) costante di componenti, o fattori, con capacità (abbastanza) stabili di dar luogo, nel tipo giusto di ambiente (abbastanza) stabile, con una operazione ripetuta, a quel tipo di comportamento regolare che noi rappresentiamo nelle nostre leggi scientifiche”(3). L’approccio della Cartwright consiste nell’assumere una visione circoscritta della spiegazione, enfatizzando l’aspetto pragmatico e procedurale della conoscenza scientifica che è stato storicamente prevalente e riflette le esigenze pratiche dell’esistenza umana – la conoscenza del modo di costruire macchine nomologiche funzionanti. Al fine di ottenere questo, la Cartwright suggerisce di concepire gli oggetti fisici come dotati di “capacità”, qualcosa di non dissimile dalle nature aristoteliche: ascrivere un comportamento alla natura di un oggetto significa affermare che quel comportamento è esportabile al di là degli stretti confini delle condizioni ceteris paribus, sebbene di solito soltanto come “tendenza” o “tentativo” (4). È importante notare come le capacità (per esempio l’attrazione fisica) non costituiscano proprietà che si “verificano” o che sono “misurabili” nel senso dell’empirismo, come la posizione, la velocità o la massa degli oggetti (dopo tutto, non è possibile misurare l’ “attrazione” per sé) – esse sono astrazioni. Ma sono delle astrazioni indispensabili, senza le quali sarebbe impossibile il funzionamento della macchina nomologica. Di conseguenza, secondo il suo modo di vedere la spiegazione, alla domanda “perché osserviamo un comportamento così e così?” si deve rispondere con un “perché questo comportamento è nella natura di questo oggetto”.

 

Al fine di muoverci nel mondo che ci circonda in modo esperto, noi vogliamo sistematizzare la conoscenza che ne abbiamo, ridurla a procedure specifiche e attuabili. Nel modello della Cartwright, la spiegazione di un fenomeno si fonde con la descrizione di come si costruisce una macchina nomologica. Il suo è un modello forte, che può dar ragione non soltanto dei fenomeni deterministici, ma anche di quelli stocastici descritti da regolarità statistiche. Rimane tuttavia un tipo di fenomeni che non è assimilabile a questo e ad altri modelli di regolarità – fenomeni singolari, emergenti, ovvero fenomeni che possono essere descritti principalmente come nuovi o inaspettati, perché il loro darsi non può essere predetto basandosi sull’informazione disponibile: essi non possono essere logicamente inferiti dallo stato immediatamente precedente del sistema, né congetturati partendo dalla considerazione delle sue parti costitutive. Questo tipo di fenomeni richiede quelle spiegazioni che si suole chiamare genetiche. Una spiegazione genetica “che consiste nel raccontare una storia che conduce fino all’evento che deve essere descritto” viene invocata, tra le altre discipline, nella teoria dell’evoluzione, nella geologia, nella cosmologia e nella storia. Sebbene le spiegazioni genetiche siano altamente problematiche dal punto di vista della filosofia della scienza, l’obiettivo che mi propongo nell’introdurle è quello di evidenziare la connessione tra spiegazione genetica e narrazione. Nel fornire una spiegazione genetica, si racconta di come qualcosa sia successo, come nella storia della selezione darwiniana. In una narrazione letteraria, il racconto di un evento singolare o eccezionale, quale la storia di una trasgressione, funziona in modo simile ad una spiegazione genetica in questo: quando la nostra conoscenza del mondo non può essere ridotta a regolarità e procedura, siamo obbligati a raccontare delle storie.

La discutibilità della spiegazione genetica, che ha a che fare con la sua imprecisione ed incapacità di fornire previsioni, sorge in parte a seguito di ciò che la filosofia della scienza lascia da parte, in particolare la stessa “questione del perché”. L’argomentazione genetica, mi sembra, ci dota di quel paradigma per la questione del perché che può fornirci un’importante capacità di penetrazione in ciò che costituisce l’ “esplicatività”  della spiegazione. Vorrei affermare che “perché” è la domanda dell’angoscia esistenziale, che si connette direttamente a quella che Martin Heidegger ritiene la prima domanda della metafisica: “perché vi è qualcosa e non invece il nulla?”. A questa aggiungerei anche (poiché credo che si tratti dello stesso tipo di domande): “perché vi sono molte cose e non invece una sola?”; “perché vi è qui questa cosa e non invece un’altra?” – domande che possono essere propriamente indirizzate raccontando una storia dell’origine, riallacciandoci alla sfera delle antiche narrazioni: miti, leggende, fiabe. Perfino le domande del perché che hanno una natura la più pragmatica, come quelle che si pongono nella scienza, sono derivative rispetto alla domanda “perché qualcosa esiste”, perché in esse anche risuona un senso di meraviglia di fronte alla varietà della vita, alla sua natura capricciosa, alla sua pura arbitrarietà e aberrazione. Se le cose non stessero così, non vi sarebbero dei perché, ma solo indicazioni pratiche per la descrizione. Quello che io sostengo, tuttavia, non è che le narrazioni mitologiche costituiscano delle appropriate risposte esplicative alle questioni del perché esistenziali, ma che le questioni del perché sono esse stesse antropologicamente coestensive con le narrazioni. Pertanto il “perché” supremo, così come le sue incarnazioni contingenti, non possono mai trovare risposta. La stessa domanda “perché” è incastonata nella struttura della narrazione; o, per dirla altrimenti: è “perché” abbiamo il linguaggio, “perché” abbiamo la narrazione, che noi chiediamo “perché”. Credo che le strutture della narrazione siano delle proiezioni della nostra alienazione fisica dal mondo e di un senso di impotenza che ne deriva. Cose entrano all’improvviso nel nostro campo visivo, e altrettanto rapidamente spariscono. Possiamo manipolarle, ma possiamo renderle estensioni dei nostri corpi solo in un senso alquanto limitato. La rappresentazione, questo marchio antropologico fondamentale della cultura umana, riflette questa angoscia della separazione. Ma sarebbe ugualmente corretto dire che la stessa angoscia della separazione è un epifenomeno della rappresentazione. Il punto qui non è quello di assegnare una priorità epistemologica, perché stiamo sondando un territorio che è “oltre” le nozioni di causalità o di successione: il punto invece è quello di attingere le connessioni genetiche tra esigenze esplicative e strutture rappresentative. Teorizzare la narrazione come paradigma della spiegazione potrà implicare il suo inserimento in una struttura di significanza che sarà più ampia di una teoria della concettualizzazione o di una teoria del contesto, ma implicherà una comprensione, antropologicamente fondata, della narrazione come desiderio degli umani di intendere se stessi come massimamente liberi, e intenzione di usare la rappresentazione per sanare il trauma dell’alienazione che quello stesso desiderio ha generato, creando storie circa se stessi come agenti dotati di competenze in grado di far fronte a quello che Hans Blumenberg nel suo Elaborazione del mito (5) chiama “assolutismo della realtà”.

 

Alla luce di queste note preliminari, propongo di sviluppare un approccio alla lettura di Anna Karenina (6) intendendo il romanzo come una impresa esplicativa guidata su due direttrici, individuando le loro convergenze e divergenze. Una di queste è la sua spiegazione come esegesi della sua epigrafe: “A me la vendetta, sono io che ricambierò”. L’altra concepisce il romanzo come una spiegazione della sua prima frase (la quale, secondo la tradizione critica, fu riscritta da Tolstoj un centinaio di volte), che dice: “Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”. Le domande che questa frase fa nascere sono “perché avviene che alcune famiglie siano felici ed altre invece infelici?”, e “perché le famiglie felici sono simili, mentre quelle infelici sono dissimili?”. Si potrebbero leggere questi “perché” in modo esistenziale, nel senso dell’ “Osserva tutti i diversi tipi di famiglie che esistono. Alcune sono felici, mentre altre non lo sono”.  Ma qualcuno potrebbe anche notare che questo è consonante in modo suggestivo con il concetto di macchina nomologica della Cartwright, in quanto codifica una conoscenza proceduralizzata orientata a generare risultati predicibili. Vale a dire che una famiglia felice può essere vista come una macchina nomologica, perché, proprio come macchine ben lubrificate e correttamente funzionanti, “tutte le famiglie felici” funzionano in modo simile, raggiungendo la condizione desiderabile di “assomigliarsi fra loro”. Una famiglia infelice, d’altra parte, non è stata sistemata in modo da raggiungere quel regime di funzionamento appropriato che potrebbe garantire un comportamento regolare, ed è questo il motivo per cui essa “è infelice a suo modo”.

Secondo diverse fonti, Tolstoj in diverse occasioni ebbe a rimarcare come mentre stava scrivendo Anna Karenina l’idea più vicina e cara al suo cuore fosse “l’idea di famiglia”. Si potrebbe argomentare che il suo romanzo presenti una spiegazione lunga 900 pagine di ciò che occorre per essere una famiglia felice. Ma nel romanzo vi sono delle famiglie felici? Il matrimonio della stessa eroina eponima con un funzionario governativo di alto rango, Aleksjéj Karenin, non deriva da una sua scelta, ma è combinato per lei dalla sua facoltosa zia, che esercita la tutela legale su di lei. Tolstoj ci racconta che Karenin sente che il suo è un buon matrimonio, ma noi dubitiamo che Anna ne abbia la stessa esperienza, data la sua preoccupazione ossessiva per suo figlio e la sua prima istintiva reazione di ripugnanza per suo marito, dopo una sua breve assenza, alla vista della sua “figura fredda e decorativa” e delle “cartilagini degli orecchi” (p.116). Quando Anna incontra l’elegante ufficiale Aleksjéj Vrònskij, si innamora di lui e abbandona suo marito, scandalizzando lui, se stessa, e perdendo i suoi diritti di madre sul suo amato figliolo. Come conseguenza della sua distruttiva vicenda d’amore, tre vite sono permanentemente sconvolte. Un’altra famiglia infelice è quella di Stepàn Oblònskij, il fratello di Anna, e di sua moglie Dolly. Dedito alla dissipazione e all’edonismo, Stepàn, o Stiva come viene chiamato, è un marito cronicamente e impenitentemente infedele a sua moglie e trascura i suoi doveri di genitore. Dolly, la sua paziente moglie e madre dei suoi sei figli, che vive con lui, è insieme compatita e disprezzata da sua sorella Kitty e dal cognato Lévin. Il matrimonio di Lévin e Kitty sembrerebbe il candidato migliore per la definizione di “famiglia felice”. In effetti, noi cogliamo la loro relazione proprio al suo inizio, la seguiamo attraverso il corteggiamento, lo sposalizio, i primi mesi insieme, e li lasciamo appena dopo la nascita del loro primo bambino, Mítja. Da più di un punto di vista, la loro è la “famiglia felice” del romanzo, che contrasta con l’insano matrimonio degli Oblònskij, quello fallito dei Karenin, e con la disgraziata unione illegittima di Anna e Vrònskij, il cui risultato è un figlio bastardo, l’infamia, il venir meno dell’affetto, e la tragedia finale del suicidio di Anna.

Tolstoj sviluppa il suo disegno sulla base dell’idea biblica di matrimonio come simbolico dell’originaria unità dell’umano come essere costituito dai princìpi maschile e femminile, miticamente significata dalla primitiva divisione o creazione di Eva da una costola di Adamo: “Allora l’uomo disse: Questa volta essa / è carne dalla mia carne /e osso dalle mie ossa. / La si chiamerà donna / perché dall’uomo è stata tolta. Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Genesi 2, 23-24). La tradizione mistica ebraica riflette e amplifica questa idea in quella della Shekhinah. È il sentimento della presenza di Dio, ma è anche il suo aspetto femminile, talvolta personificato come Israele – insieme sposa e figlia di Dio. Inoltre la Shekhinah è l’anima dell’uomo. Originariamente create da Dio, tutte le anime combinano in sé gli elementi maschile e femminile finché esse esistono nelle alte sfere. Ma quando esse scendono sulla Terra, le due parti si separano, e solo Dio sa dove risiedano le due parti dell’anima originaria. L’uomo può trovare la sua altra metà e completare se stesso solo camminando sulla via della verità.

Nel corso del romanzo vengono evocate queste metafore dell’unione originaria e della separazione dell’uomo. Così, profondamente commosso dalla liturgia della sua cerimonia nuziale tradizionale, Lévin contempla le parole della preghiera: “Che hai raccolti nell’unione quelli che erano distanti e hai stabilito un’alleanza d’amore’ – come sono profonde queste parole e come corrispondono a quel che si sente in questo momento!” (p. 499). Alla fine della cerimonia, il sacerdote dice ai due sposi di baciarsi: “ Lévin baciò con cautela le labbra sorridenti di lei, le tese il braccio e, provando la sensazione d’una nuova strana vicinanza, uscì dalla chiesa. Non credeva, non poteva credere che fosse vero. Soltanto quando i loro stupiti e timidi sguardi s’incontravano egli ci credeva, perché sentiva che essi erano già una cosa sola” (pp. 505-506). Nel terzo mese di matrimonio, quando essi hanno il loro primo litigio, Lévin “si offese al primo momento, ma nel medesimo istante sentì che non poteva essere offeso da lei, che lei era lui stesso” (p. 530). Di converso, quando riceve Dolly come ospite nella tenuta estiva alla moda in cui risiede con Vrònskij, Anna Karenina fa uso della metafora della disgiunzione allorché ella scoppia in pianto davanti a sua cognata, parlando della sua separazione forzata da suo figlio: “Tu devi capire che io amo, mi sembra, egualmente, ma tutt’e due più di me, due esseri: Serjòža e Aleksjéi. (…) Soltanto questi due esseri io amo, e uno esclude l’altro. Non posso unirli, e questa è l’unica cosa che mi è necessaria” (p. 698). Quel che lei intende, tuttavia, è che non può unificare se stessa: lei stessa è divisa tra i due. In altre parole, le implacabili e innaturali conseguenze dell’empia unione di Anna e Vrònskij riguardano il livello tragico della divisione metafisica della soggettività di Anna, mentre al contrario il matrimonio di Lévin e Kitty, santificato dalla Chiesa, viene raffigurato nel romanzo nei termini valorizzati di una sintesi integrale: da due esseri differenti essi sono diventati una completa unità.

Questa ricaduta dalla differenziazione nell’indifferenziazione è descritta da Hans Blumenberg come “… brama di ricadere nella fase della propria impotenza, per così dire nella rassegnazione arcaica. (…) …il desiderio di tornare “a casa” nell’irresponsabilità arcaica dell’abbandono incondizionato” (7). Questo desiderio di ricaduta è interpretato da lui come  una resa all’ “assolutismo della realtà” – la reazione da parte del preumano inadatto alla sfida della necessità di riuscire a soddisfare i suoi bisogni alimentari una volta abbandonato l’habitat nativo della foresta pluviale per inoltrarsi nell’aperta savana. Blumenberg lo descrive come “intenzionalità della coscienza senza un oggetto” intrisa di angoscia, che esprime “la situazione pura della prevenzione indeterminata” (8). Vorrei separare questo concetto da un momento storico specifico ed interpretarlo in termini filosofico-antropologici più generali, connettendolo alla mia precedente argomentazione intorno all’angoscia esistenziale implicata nella questione del “perché”. Secondo Blumenberg, le esigenze dell’assolutismo della realtà sono infine soddisfatte dalla teoria come “la forma più appropriata per padroneggiare gli episodici tremenda di fenomeni storici ricorrenti” (9). La teoria addomestica il mondo, riducendo la sua “episodicità” mediante la regolarizzazione della conoscenza. Essa ricerca modi per introdurre comportamenti regolari e per rappresentare regolarità servendosi di pratiche e procedure specifiche – ciò che la Cartwright chiamerebbe creazione di macchine nomologiche.

Nell’ambito del mondo fisico, le macchine nomologiche sono generalmente ben accolte (seppure non senza riserve) come una manifestazione del progresso tecnologico. Nelle discipline umanistiche e nelle scienze sociali esse, tuttavia, presentano un problema che fa sorgere un certo paradosso. Nella conoscenza procedurale in generale ciò che è apprezzabile è che essa opera per attenuare l’angoscia dell’essere circondati da un minaccioso mondo non-differenziato, dotando l’umano della capacità di anticipare “i ricorrenti tremenda” e di prepararsi ad essi. Un altro modo di porre la questione è dire che, col liberare l’umano dalla paralisi di terrori indeterminati, la conoscenza procedurale aumenta la libertà personale.  Comprendere il mondo come governato da leggi e princìpi libera l’uomo dalla condizione dell’essere reso inerme da angosce e incertezze, dotandolo di preveggenza e permettendogli di concentrare le sue energie nella pianificazione di linee d’azione specifiche. Questo pensiero può rivendicare una propria valida applicazione anche alla conoscenza antropologica. Da un lato, rappresentare l’uomo come oggetto della conoscenza e costruire una macchina nomologica che modelli il comportamento umano sarebbe qualcosa di auspicabile e ci fornirebbe gli stessi vantaggi di incremento della libertà già indicati. Quando noi, d’altra parte, spostiamo la rappresentazione dall’uomo come oggetto all’uomo come soggetto, quando in luogo dell’ “Altro” noi poniamo “Io”, noi non vogliamo più pensare noi stessi come macchine nomologiche, poiché la stessa comprensione teoretica che ci potenzia nel trattare i nostri consimili ci priva, paradossalmente, della nostra libertà di scelta, facendo sì che noi diventiamo non liberi. Come risultato, noi contemporaneamente ci sforziamo di costruire e sistematizzare la conoscenza procedurale, vedendola come un’attività liberante, e, nello stesso tempo, resistiamo ad essa come a qualcosa di fondamentalmente costrittivo. (Qui sta, io credo, una delle ragioni dell’ambiguo atteggiamento degli studi umanistici nei confronti del pensiero teorico).

Questa stessa situazione noi la troviamo riflessa nei modi differenti in cui l’Antico e il Nuovo Testamento trattano il desiderio mimetico, che René Girard identifica come il meccanismo sottostante alla cultura umana, e che io, nel contesto del modello della macchina nomologica, vorrei trattare come una capacità, dicendo: “ceteris paribus, è nella natura degli esseri umani desiderarsi l’un l’altro mimeticamente”. Nel caso di Anna Karenina, questo problema può essere delineato in modo produttivo leggendo il romanzo attraverso la sua epigrafe “A me la vendetta, sono io che ricambierò”. Questa formulazione si incontra in Romani 12, 19 – “Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore” – che è anch’essa una citazione, di un versetto dell’A.T., dove nel Cantico di Mosè (Deuteronomio, 32, 35), Dio dice “Mia sarà la vendetta e il castigo, / quando vacillerà il loro piede! / Sì, vicino è il giorno della loro rovina / e il loro destino si affretta a venire”. I significati contestuali differiscono chiaramente nei due passi. Nel secondo caso, la frase funziona come una inequivoca minaccia, un avvertimento agli Israeliti a resistere alla tentazione di ritornare alle loro usanze pagane. Dio preclude la possibilità dell’apostasia promettendo: “Accumulerò su di loro i malanni; / le mie frecce esaurirò contro di loro (Deuteronomio 32, 23). In prima istanza, tuttavia, la modalità retorica della frase è quella dell’esortazione. Paolo invita i suoi ascoltatori a non farsi giustizia con le proprie mani. Prima del versetto che abbiamo considerato, ve ne sono altri in cui Paolo insegna: “Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite”, e “Non rendete a nessuno male per male” (Romani 12, 14 e 12, 17). I due versetti, in altre parole, rappresentano due diversi modi per fermare il contagio mimetico: mediante una divieto esplicito e mediante l’esortazione “trasformatevi rinnovando la vostra mente” (Romani 12, 12), ovvero, mediante “la misericordia di Dio”, insomma – mediante la fede.

Entrambi questi princìpi sono evidenti nel romanzo di Tolstoj, che mette in rilievo il contagio mimetico in tutti i fili dell’intreccio narrativo. Vrònskij s’innamora di Anna perché, a causa della sua reputazione di donna di mondo virtuosa e brillante, la percepisce come inattingibile e desiderabile da parte di ogni altro uomo. A sua volta, ciò che rende Vrònskij particolarmente attraente agli occhi di Anna è il sapere che Kitty è innamorata di lui, e che la famiglia Šcerbàtskije si attende da lui un’imminente dichiarazione a Kitty. Quel che rende la situazione auto-riflessiva ed ironica è il fatto che, nel fare la propria mossa per Vrònskij, Anna sceglie Kitty come suo modello dopo che Kitty ha dichiarato che il suo modello è Anna, esprimendo la propria ammirazione per lei:

 

“ – Come potete annoiarvi a un ballo voi?”

– E perché io non posso annoiarmi a un ballo? – domandò Anna.

Kitty notò che Anna sapeva quale risposta sarebbe seguita.

       Perché voi siete sempre meglio di tutti. (p. 83)

 

Prevedibilmente, dopo che Anna ha ceduto alla sua seduzione, l’interesse di Vrònskij per lei inizia a vacillare, per rivitalizzarsi ancora una volta quando egli si rende conto che potrebbe perderla, come conseguenza di una seria malattia di lei, quando ella ritorna per un poco col marito. Allorché la rottura del suo matrimonio diviene definitiva, insieme alla sua disgrazia e al bando dalla società, ella torna a perdere interesse ai suoi occhi. Quanto più Vrònskij si fa indifferente, tanto più Anna gli si attacca, e tanto più disperata diviene. Infine, la sua situazione le appare insostenibile, ed ella si uccide. Questa situazione giunge a toccare perfino Aleksjéi Karenin in un modo inaspettato. Lo stigma del tradimento di Anna contamina il modo in cui Karenin è visto dalla società, rendendolo una figura ridicola agli occhi di tutti: “Sapeva che per questo, perché appunto il suo cuore era lacerato, essi sarebbero stati spietati verso di lui. Sentiva che gli uomini l’avrebbero annientato, come dei cani avrebbero soffocato un cane dilaniato, che guaisse dal dolore” (p. 557). Come conseguenza della sua perdita di status, la sua vertiginosa carriera nell’amministrazione è di colpo interrotta. Nel suo gettarsi a corpo morto nel suo lavoro, scrivendo “il suo primo memoriale sul nuovo tribunale”, egli non si rende conto ancora che questo sarebbe stato il “primo dell’innumerevole serie di memoriali inutili a tutti a proposito di tutti i rami dell’amministrazione che era destinato a scrivere” (p. 566). Anche la coppia “buona” è affetta dal contagio mimetico. Anche Kitty, per esempio, è soggiogata dal bell’aspetto di Vrònskij, dal suo denaro, dall’ alto rango sociale, dalle sue amicizie influenti – tutte quelle cose che gli conferiscono l’ambita posizione di esponente della gioventù dorata di San Pietroburgo. Queste qualità lo rendono ai suoi occhi più desiderabile di Lévin, dall’aspetto ordinario e privo di distinzione, che spicca solo per la sua competente amministrazione della tenuta di cui è comproprietario col fratello. Una volta respinto Lévin per Vrònskij, solo per essere a propria volta respinta da Vrònskij, Lévin le appare nuovamente desiderabile: “ …l’inguaribile dolore di Kitty consisteva appunto in questo, che Lévin aveva fatto la proposta di matrimonio e che ella gli aveva detto di no, e Vrònskij l’aveva ingannata, e che ella era pronta ad amare Lévin e a odiare Vrònskij” (p. 142). Per quanto concerne Lévin – il personaggio più integro e capace di pensiero indipendente del romanzo (comunemente ritenuto l’alter ego di Tolstoj) – si deve rilevare che perfino lui non è immune dal contagio mimetico, sebbene nel suo caso i suoi segni siano più sottili. Così, Lévin ha in sé dei sentimenti di inferiorità, percependosi in qualche modo come una sorta di disadattato sociale che non è completamente accettato e rispettato nella cerchia sociale in cui si muove o con la quale ha un contatto immediato. La sua autostima è sminuita dal fatto di non essere preso sul serio dal circolo intellettuale del suo fratellastro, il filosofo Serghjéj Kòznyšev. Al tempo stesso i suoi amici liberali, come Oblònskji e Svijàžskij, lo rimproverano per le sue opinioni politiche antiquate e per la mancanza di impegno nelle cause liberali, mentre suo fratello Nikolàj e i suoi amici radicali lo disprezzano in quanto proprietario terriero e oppressore dei contadini. Egli d’altronde non appartiene al bel mondo, nonostante sia ben fornito di denaro e provenga da una nobile schiatta. Mentre desta perplessità la sua dedizione alle attività agricole, egli anche causa spesso una generale costernazione con “la sua goffaggine” e “i suoi strani e aspri giudizi” (p. 52). Da un lato, la posizione di Lévin deriva da una sua scelta, dall’altro egli avverte una sorta di fallimento quando riflette sul modo in cui viene visto dagli altri: “… mentre i suoi compagni ora, quand’egli aveva trentadue anni, erano chi colonnello e aiutante di campo, chi professore d’università, chi direttore di banca e di strade ferrate o presidente di tribunale, come Oblònskij … lui invece (egli sapeva molto bene come doveva apparire agli altri) era un possidente, che si occupava dell’allevamento delle vacche, del tiro alla beccaccia e di costruzioni, cioè un giovane senza talento, che non era riuscito a nulla, e che faceva, secondo il modo di vedere della società, quello stesso che fanno gli uomini che non sono buoni a niente” (p. 29). In tutto il romanzo vi è un solo personaggio, quello di Mlle Vàregnka, che è presentato come del tutto esente dal desiderio mimetico di tipo contagioso e preoccupato soltanto dell’altrui benessere. Il cristianesimo sincero di Vàregnka e il suo generoso spirito di cooperazione stanno in netto contrasto con il cristianesimo ipocrita di Mme Stahl, la sua madre adottiva. È tuttavia significativo che Vàregnka, sebbene bella e ancora giovane, sia descritta da Tolstoj come un essere interamente asessuale. In diversi passi, il narratore la collega o la associa ai funghi, evocando un’immagine ermafroditica che va forse intesa come un modo per suggerire che solo lo stato originario di unità prelapsaria degli aspetti  maschile e femminile potrebbe essere impenetrabile dal contagio mimetico.

L’ “idea della famiglia” in Anna Karenina serve, vorrei affermare, non solo come un’idonea base tematica per investigare le ramificazioni dei desideri mimetici in competizione, ma come un paradigma dell’antropologia mimetica. Con la creazione di Adamo ed Eva, viene all’esistenza la problematica dell’Altro la quale, come direbbe Blumenberg, eccede la rappresentazione dell’un altro, diventando ancora un altro stadio nella conquista di un ambiente ostile e incomprensibile mediante “… una spiegazione del mondo che coinvolge l’uomo che impara a conoscere nella storia dell’altro che viene conosciuto” (10). L’uomo si imbatte in una problematica mimetica non appena egli prende conoscenza dell’Altro come un altro, e tale problematica è regolata dalla legge biblica. Il desiderio irrealizzabile di “ricadere …  nella rassegnazione arcaica” adempie, secondo me, una doppia funzione. Anzitutto, è l’implicito riconoscimento che non è più possibile per l’uomo il comando di aderire alla donna come a carne della sua carne. Se l’uomo potesse aderire alla donna come a carne della propria carne, se essi potessero cooperare a-problematicamente come reciproco aiuto per “coltivare e custodire” il Giardino dell’Eden, non si sarebbe verificata la storia della Caduta, nessuna storia del desiderio mimetico. In quanto tale, la trasgressione funziona come l’altro versante della codificazione “procedurale” della legge biblica, un riconoscimento implicito del fatto che una tale coscienza indivisa non è più possibile. Quello cui mira questo nostalgico atteggiamento del ricadere indietro (che, come accortamente suggerisce Blumenberg, dovrebbe essere riconosciuto come ritorno non agli inizi ma al “piuccheperfetto”, è la domanda esistenziale del “perché alcune famiglie sono felici mentre altre non lo sono”. La sua controparte "procedurale", tuttavia, è semplicemente la domanda pragmatica "che cosa è necessario perché una famiglia funzioni bene?". La seconda formulazione non presenterebbe alcun problema ad un ebreo. La risposta consisterebbe nell'adesione al codice di 613 leggi della Torah commentate dagli esegeti talmudici e midrashici. Queste norme agiscono come salvaguardia che aiuta gli abitatori di un mondo ormai alienato a non farsi travolgere da quella che René Girard chiama "valanga mimetica". E tuttavia, come egli nota, per quanto numerose siano le norme, gli oggetti di desiderio mimetico sono ancora più numerosi.

 

In Anna Karenina la progressione mimetica innesca la catena di eventi che conducono inesorabilmente alla tragedia finale. Sebbene Vrònskij persegua Anna quasi per ogni dove e le faccia una corte spietata, ella resiste per un po' di tempo alle sue profferte, ma alla fine gli cede. Il momento della consumazione del rapporto tra Anna e Vrònskij è figurato sintomaticamente nel testo da linee punteggiate di sospensione che rappresentano l'evento irreversibile che ha appena avuto luogo. Quel che in effetti è avvenuto è che Anna ha fatto la sua scelta trasgredendo la legge morale, e da quel punto in avanti nessuna scelta ulteriore è più possibile.  In questa scena Vrònskij  è descritto come un assassino “…quando vede il corpo privato della vita da lui. Questo corpo privato della vita da lui era il loro amore” (pp. 166-167). “Tutto è finito”, gli dice Anna, “Io non ho nessuno, all’infuori di te” (p. 167). La trasgressione di Anna evoca la vendetta del Dio geloso dell’Antico Testamento, che ha esercitato implacabilmente la vendetta su Sodoma e Gomorra “perché il loro peccato è molto grave” (Genesi 18, 20). La natura irreparabile di quello che è avvenuto dà inizio ad una sequenza narrativa di causa ed effetto che non può essere fermata, deviata o invertita. La sventura di Anna e il venir meno dell’affetto di Vrònskij ne sono il risultato inesorabile. Quando Anna Karenina si prospetta il suicidio, dice a se stessa: “Su, riceverò il divorzio, e sarò moglie di Vrònskij. Ebbene, Kitty cesserà di guardarmi come mi guardava quest’oggi? No. E Serjòža cesserà di domandare o di pensare dei miei due mariti? E fra me e Vrònskij che sentimento nuovo escogiterò mai? È possibile qualche, non più felicità, ma solo non tormento? No e no!” (pp. 827-828). Come per sottolineare l’incapacità di agire di Anna, le sue ultime ore di tormento sono descritte come una lunga sequenza metonimica di dieci pagine, che rappresentano il susseguirsi ininterrotto di pensieri in lei, mediante il quale oggetti e scene di strada che ella osserva guidano la sua riflessione lungo i binari della necessità. Non appena Anna lascia la casa di Dolly sentendosi umiliata da Dolly e Kitty, e inizia un lungo viaggio in carrozza e in treno, il lettore è introdotto nel suo ininterrotto monologo interiore, un flusso di coscienza di smisurata lunghezza e intensità che riceve continuo alimento dalle immagini che ella vede dal finestrino. Così, la vista di un signore in carrozza, che la guarda scambiandola per un’altra, le fa pensare all’espressione francese “conosco i miei appetiti”, che a sua volta la spinge a notare uno sporco venditore ambulante di gelati e a concludere che “Tutti noi desideriamo roba dolce, buona. Se non ci son confetti, allora gelato sporco” (p. 824) – un sentimento che si traduce nella percezione che il suo rapporto con Vrònskij è sporco, come mangiare un gelato sporco. Mentre sta pensando questi pensieri profondamente inquietanti, Anna è sopraffatta da una visione globale del mondo come pieno di malizia, mutuo risentimento e competizione spietata:

 

Come sarebbe stata contenta [Dolly] della mia sventura! … il sentimento principale sarebbe stato la gioia ch’io fossi punita per quei piaceri che lei m’invidiava. Kitty, quella sarebbe stata ancora più contenta. … è gelosa di me e mi odia. (…) Perché queste chiese, questo suono, questa menzogna? Soltanto per nascondere che ci odiamo tutti a vicenda … (p. 824).  … la lotta per l’esistenza e l’odio son l’unica cosa che leghi gli uomini (p. 826).

 

Questo è un momento chiave di epifania, in cui la protagonista femminile d’un tratto coglie la natura mimetica delle relazioni umane. Ma a questo punto a che cosa le può giovare questa conoscenza? Quando ella letteralmente e figuratamente viaggia fino al capolinea, prima arrivando alla stazione ferroviaria, poi prendendo il treno e arrivando a destinazione (dove il suo desiderio di incontrare Vrònskij resta inappagato), infine camminando fino all’estremo della banchina, dove non vede più alcuna delle persone che fino a quel momento avevano sostenuto i binari dei suoi pensieri, l’attenzione di Anna va ai binari veri e propri. Quasi nello stesso momento in cui raggiunge l’estremità della banchina, Anna arriva alla conclusione che non esiste più alcuna via d’azione aperta per lei.  La vista dei treni le richiama alla memoria l’uomo che era stato travolto proprio nel giorno in cui lei aveva incontrato Vrònskij: “E ad un tratto … ella capì quel che doveva fare. (…)  Là, - ella si diceva, guardando nell’ombra del carrozzone, la sabbia mista col carbone di cui eran cosparse le traverse, - là, proprio nel mezzo, e lo punirò, e mi libererò da tutti e da me stessa’ ” (p.832). La sua decisione di liberarsi è l’unico modo in cui può affermare la sua libertà: strappandosi dalla catena causale della necessità generata dall’escalation mimetica.

Lo sviluppo della storia di Anna Karenina fornisce un convincente resoconto di come le leggi etiche falliscano nel regolare il desiderio mimetico. Anna riguadagna la libertà rifiutando la rappresentazione di se stessa  come soggetto passivo della legge mimetica meccanicistica. Levin , a sua volta, afferma la sua libertà tentando di scansare il circolo mimetico scegliendo il sentiero scritturale dell’imitazione cristiana – il sentiero che blocca ogni imitazione, secondo Girard, con la scelta di imitare Gesù, che “ci invita a imitare… il suo stesso desiderio, lo spirito che lo dirige verso il fine su cui è concentrata tutta l’intenzione: assomigliare il più possibile a Dio Padre” (11). Allora vorrei suggerire che è in questa luce che va visto lo sforzo di Lévin di essere una sola cosa con sua moglie: non tanto come un riprecipitare nel passato mitico indifferenziato, di cui si è detto, ma come un gesto prolettico mirante alla ricreazione dell’unità primordiale. Una unione di marito e moglie in questo secondo senso accenna alla possibilità di estinguere il desiderio mimetico attraverso il suo simbolismo dell’Eucaristia cristiana. Qui ci troviamo davanti alla seconda lettura dell’intimazione “A me la vendetta, sono io che ricambierò” così problematica per Lutero. Per Lutero l’elusivo versetto di Paolo (Romani 1,17) – “È in esso che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto vivrà mediante la fede” –  costituiva un problema acuto. Lévin giunge a conclusioni simili nelle ultime pagine del libro. Nella conversazione con Fjòdor, uno dei suoi contadini, egli ode quest’ultimo lodare un altro contadino, Platòn, come uno che “vive per l’anima. Si ricorda di Dio” (p. 863). Queste espressioni lo colgono alla sprovvista e lo turbano profondamente, stimolando una conversione religiosa. Egli comprende che il senso della vita è “vivere per Dio, per l’anima”. In aggiunta, capisce che di fatto egli ha vissuto bene, “ma pensato male”: “Io cercavo una risposta alla mia domanda. E la risposta alla mia domanda non poteva darmela il pensiero, esso è incommensurabile con la domanda” (p. 867); “Sì, quello che so, non lo so con la ragione, ma mi è dato, mi è rivelato, e io lo so col cuore, credo in quella cosa principale che professa la Chiesa” (p. 868). In altre parole, la lettura che il Nuovo Testamento dà della “giustizia” incoraggia la soluzione del dilemma posto dall’oscillare tra due tipi di non-libertà: quella dell’essere costretti dalle esigenze meccanicistiche del desiderio mimetico e quella dell’essere sottoposti alla coercizione del dispotismo arbitrario del codice morale. Lo spostamento nel pensiero consente di riappropriarsi della libertà strappando il soggetto dal circolo vizioso del comportamento mimetico, in questo modo rendendo obsoleta la legge biblica: “Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio” (Romani 3, 21). Ma la libertà di interpretazione appena asserita, fondata in  invisibilia religiosi come la fede, è in se stessa problematica. Rifiutando le costrizioni limitative delle 613 norme, il pensiero cristiano si priva della possibilità di ricorrere all’autorità tradizionale di criteri formali. La risoluzione finale di Lévin riflette questa difficoltà. Il suo raggiungere la comprensione rinnovata di ciò che significa “vivere per Dio” non comporta alcun cambiamento nella sua coscienza dei privilegi ereditari. Come dice a se stesso, fino a quel punto ha già vissuto bene: egli può semplicemente persistere negli stessi princìpi, nel contempo evitando nelle azioni quotidiane gli estremi dello sfruttamento.

 

Altrettanto indubbiamente come bisogna pagare un debito, bisognava tenere la terra patrimoniale  in una situazione tale che il figlio, ricevutala in eredità, dicesse grazie al padre nello stesso modo come Lévin aveva detto grazie al nonno per tutto quello che aveva costruito e piantato. (…) Sapeva che si dovevano assumere i lavoratori al miglior prezzo possibile; ma prenderli in servitù, dando i denari anticipatamente, a miglior prezzo di quanto costassero, non bisognava… Vender la paglia ai mužikí durante la carestia si poteva, quantunque se ne avesse compassione… Per il taglio dei boschi bisognava punire il più severamente possibile, ma per il bestiame fatto pascolare abusivamente non si potevan prender multe… A Pjòtr, che pagava il dieci per cento al mese a un usuraio, bisognava fare un prestito per riscattarlo; ma non si poteva condonare né differire il canone ai mužikí insolventi. (…) Non si poteva perdonare un lavoratore che al tempo del lavoro se n’era andato a casa perché gli era morto il padre…ma non si poteva anche non dare la razione mensile alla vecchia servitù, che non serviva a nulla. Lévin sapeva anche che, tornando a casa, bisognava prima di tutto andar dalla moglie… mentre i mužikí che l’aspettavan già da tre ore potevano aspettare ancora,  e sapeva che, malgrado tutto il piacere da lui provato a metter dentro uno sciame, bisognava privarsi di questo piacere e, lasciato al vecchio di mettere dentro lo sciame senza di lui, andare a ragionare coi mužikí  che l’avevano trovato nell’arniaio.

Se agiva bene o male non lo sapeva… I ragionamenti lo portavano a dubbi e gli impedivano di vedere quel che si doveva e quel che non si doveva fare. Quando invece non pensava, ma viveva, sentiva incessantemente nell’animo suo la presenza d’un giudice infallibile che decideva quale di due azioni possibili fosse migliore e quale peggiore, e, non appena agiva non così come si doveva, lo sentiva immediatamente (pp.859-86).

 

Sebbene Lévin personifichi i suoi criteri di giudizio in “un giudice infallibile”, è difficile non porre in questione l’arbitrarietà dei suoi princìpi e non pensare che una persona differente o vivente in un’altra èra, caratterizzata da sensibilità differenti, avrebbe potuto scegliere in ogni caso particolare una differente linea d’azione. In effetti, il compito di interpretare la sua situazione contestualmente è irto di tali smisurate difficoltà che riflettervi, come riconosce Lévin, conduce in un abisso, ed è questo il motivo per cui egli deve ricorrere alla personificazione per giustificare il suo comportamento. La sua rassegnazione all’evidenza che “la risposta alla sua domanda non poteva dargliela il pensiero” perché “esso è incommensurabile con la domanda” è indicativa della condizione in cui ci si viene a trovare quando ci si lascia alle spalle un insieme di princìpi codificati e culturalmente sanciti. La situazione è affine alla paralisi determinata dal dover affrontare daccapo il mondo indifferenziato. Questo è ciò che il filosofo Russo V. Rozanov aveva in mente quando scrisse che “Come dovunque nei Vangeli, quell’inezia del ‘porgere l’altra guancia’ suona falso: è un alleviamento nullo. In realtà, Cristo ha enormemente sovraccaricato la vita umana, cospargendola di ‘spine e triboli’, qualcosa di vago e permeabile, qualcosa di impossibile. In effetti, la giustizia dell’ ‘occhio per occhio’ costituisce precisamente quella norma dell’esistenza umana terrena senza la quale la vita perderebbe il suo equilibrio. È esattamente quell’aspetto chiaro, semplice ed eterno che caratterizza la ‘completezza’ di Dio Padre e della sua fondazione sempiterna, quello che fa tornare rapidamente i conti; in luogo del quale oggi noi abbiamo lacrime, isteria e sentimentalismo” (12).

La situazione impossibile di colui che pone se stesso come soggetto della rappresentazione gli apre la terra sotto i piedi annullando ogni contenuto narrativo.  Questo è il motivo per cui la storia di Lévin non può essere realmente narrata. Dei due intrecci secondari, è quello di Anna che costituisce una narrazione in senso proprio, che può essere dotata di significato. La storia di Anna, come racconto di una trasgressione, diventa una risposta alla domanda “perché alcune famiglie sono infelici?”. Un possibile significato, come ho mostrato, può essere individuato mediante una lettura filtrata dalla lente del più antico significato della sua epigrafe. La storia di Lévin, d’altro canto, non è il rovescio simmetrico consistente nel “perché alcune famiglie sono felici?”. Anzitutto, perché una risposta a questa domanda non è una narrazione ma una descrizione procedurale di una macchina nomologica. In secondo luogo, perché noi lasciamo Kitty e Lévin giusto all’inizio della loro vita matrimoniale, e quel che ci viene mostrato fino a questo punto – non solo il loro amore e la loro reciproca tenerezza, ma anche i loro primi litigi, gelosie e fraintendimenti – non li colloca in un mondo a parte rispetto agli altri novelli sposi, né preclude la possibilità che le cose più avanti prendano una brutta piega (anche se si resiste alla tentazione di leggere questa storia autobiograficamente in riferimento al matrimonio di Tolstoj con Sofia Behrs, all’inizio felice poi disastroso). Conforme a ciò, anche il loro incontro è mostrato come accidentale e non predestinato in qualche senso trascendente come unione delle due metà perdute di un’anima sola. Kitty ripiega su Lévin come rimpiazzo di Vrònskij, mentre l’amore di Lévin per Kitty è un seguito metonimico del suo amore per le sorelle Šcerbàtskije più mature: prima Dolly, poi Natalia. In un certo senso, quella di Lévin è una “storia sul nulla”. Noi lo seguiamo attraverso il suo corteggiamento di Kitty, prima infruttuoso poi riuscito, il suo fallimento nel trovare un impegno civico significativo nell’amministrazione rurale locale, il suo tentativo di riorganizzare le pratiche agricole nella sua tenuta secondo modalità contemporaneamente più efficienti ed etiche – un sottointreccio affascinante di per sé, che improvvisamente è lasciato cadere – , la sua angoscia e il suo tormento nell’assistere alla morte del fratello – un’esperienza che lo immerge nella depressione – la nascita del suo primo figlio, e, attraverso tutto questo, la sua ininterrotta e appassionata ricerca del senso della vita. Quando finalmente questo senso gli si rende palese – “vivere per Dio” – esso non getta alcuna luce sulla narrazione precedente, non è né esplicativo né redentore. Alla fine né noi né Lévin  ne sappiamo di più sul perché alcune famiglie sono felici né sappiamo se la nostra propria famiglia sia destinata alla felicità. E non accade neppure che la sua epifania finale leghi insieme gli eventi scollegati di questo sottointreccio in un insieme intelligibile e cogente, accessibile mediante un atto di interpretazione. Al contrario, la sua storia resiste all’interpretazione mediante fili narrativi interrotti, elisioni, ed azioni basate su motivazioni narrativamente insondabili. Così, ci imbattiamo in un riferimento casuale alla tentazione suicida di Lévin, inserita quasi come un ripensamento, e sorprendente alla luce della sua iniziale felicità maritale: “E, padre di famiglia felice e uomo sano, Lévin fu parecchie volte così vicino al suicidio, che nascose un lacciolo, per non impiccarsi, e aveva paura ad andar col fucile, per non spararsi” (p. 858). E, cosa ancor più importante, la rivelazione di Lévin non porta ad alcuna decisione – dopo tutto si rendeva conto che “viveva in modo fermo e deciso”, e “in quegli ultimi tempi viveva con molta più fermezza e decisione di prima” – sebbene questo ci sia solo detto e non mostrato, e sebbene questa affermazione sia difficile da conciliare con il suo suicidio quasi sfiorato (p. 858). Egli dice a se stesso, pertanto, che continuerà a fare come ha sempre fatto: “M’arrabbierò egualmente contro il cocchiere Ivàn, egualmente discuterò, esprimerò a sproposito i miei pensieri, ci sarà il medesimo muro tra il santo dei santi dell’anima mia e gli altri, e perfino mia moglie, l’accuserò egualmente del mio spavento e ne sentirò rimorso(…)” (p. 887).

Ma quanto a Lèvin stesso, un gigantesco spostamento nel suo modo di essere ha luogo quando egli chiarifica per sé il senso del “vivere per Dio”. Come egli spiega a se stesso: “… ma la mia vita adesso, tutta la mia vita, indipendentemente da tutto quel che mi può accadere, ogni suo momento non solo non è senza senso, com’era prima, ma ha un indubitabile senso di bene, che ho il potere di immettere in essa” (p. 887). Questa spiegazione privata, che gli dà potenza, non è comunicabile né tramutabile in un explanandum interpretabile della prima proposizione del romanzo. Nella domanda “perché alcune famiglie sono felici mentre altre non lo sono?” si può discernere sia una tinta di angoscia e timore davanti alla diversità della vita, sia anche il suggerimento di una buona ricetta per un  matrimonio ben riuscito. Dietro vi è il desiderio di abitare e navigare liberamente un mondo, cioè di rappresentare se stessi come liberi. Nella sua qualità di know-how regolarizzato e procedurale, la risposta alla domanda “perché alcune famiglie sono felici?” può solo essere resa implicitamente nella narrazione del “perché alcune famiglie sono infelici” – la narrazione della trasgressione della legge che può essere detta, perché essa registra un evento singolare e irripetibile. La sua stessa narrabilità sottolinea l’affermazione che ogni famiglia infelice è unica. Ma come narrazione la risposta alla domanda “perché alcune famiglie sono felici?” non può essere detta, perché la risposta “è incommensurabile con la domanda”. Facendo a meno della norma che dà significato, arrogando a se stesso il potere di immettere significato nella sua vita, Lévin si colloca nel vuoto del piuccheperfetto. Affrontando il compito di dare fondamento al suo proprio sistema di significanza, egli si trova davanti al momento dell’esegesi del mondo, si trova nel punto in cui si prospetta la sua attitudine alla storia del proprio alter ego come “l’altro che viene conosciuto”.

 

 

[Testo dell’intervento di Marina Ludwigs al Convegno girardiano di Innsbruck (giugno 2003)]

 

 

 

 

NOTE

 

  1. Nancy Cartwright, The Dappled World: A Study of the Boundaries of Science. Cambridge University Press, 1999, p. 49
  2. Ivi, p. 28
  3. Ivi, p. 50
  4. Ivi, pp. 28-29.
  5. Hans Blumenberg, Arbeit am Mythos, 1979, trad. it. B. Argenton, Elaborazione del mito, il Mulino, Bologna 1991.
  6. L’edizione qui citata è quella Einaudi del 1993, con la traduzione di L.Ginzburg del 1945, che stranamente omette l’epigrafe.
  7. Blumenberg, op. cit., pp. 31-32.
  8. Ivi, p. 26.
  9. Ivi, p. 51.
  10. Op. cit., p. 46
  11. René Girard, I See Satan Fall Like Lightening,  Maryknoll, Orbis Books, New York, 2001, p.13.
  12.  Vasiliy Rozanov, “The Apocalypse of Our Days.” The Transient. Respublika Press, Moscow 1994, p. 451.