Dimenticare il sogno

 

Elisabetta Liguori

 

elisabetta.liguori-lisi@poste.it

 

Quando sentirsi migliori di coloro che ci vivono intorno è il sogno, il desiderio diventa abitudine e la sconfitta futuro certo.

Ancora una volta voglio parlare d’America, ma non solo d’America.

Chi non ha letto Yates, ha oggi una buona occasione per compiere un atto essenziale: liberarsi dagli orrori e dagli inganni del Sogno, perché questo scrittore dice il vero. O perlomeno chi c’ha famiglia, una moglie, un marito, magari dei figli e qualche gentile vicino di casa, è scontatamente indotto a credere dai fatti che lui abbia detto il vero. Leggere un libro come guardandosi allo specchio: è questa la distorsione tipica che patisce l’occhio di chi ha per le mani un classico della letteratura internazionale.

Quindi per me Yates non mente quando descrive un rivoluzionario sobborgo di tendine ricamate e luci morbide della provincia americana, carico di viottoli amorevolmente lastricati; non inventa affatto la sua grande Illusione; il non sapere, il non aver mai capito; il vuoto disperato dell’assenza e questa sua verità, lo dico, mi ha letteralmente sconvolta. Solo ora comprendo a pieno la rabbia impudica di Richard Ford il quale, nell’introduzione alla nuova edizione di questo primo libro di Yates, “Revolutionary road”, voluta dalla Minimumfax per la collana Minimum Classics, lancia un furente anatema su quanti non lo hanno ancora letto. In realtà non è troppo tardi: io ho letto questa storia a 37 anni suonati ed ho capito. Sono ancora viva: l’ho scampata bella.

Leggere Yates è necessario, anche dopo averlo ignorato colpevolmente per 50 anni, non solo per addomesticare tutta la letteratura americana postmoderna che ha poi generato la scrittura di Carver, Franzen, Fox, Cheever; non solo per comprendere le origini del c.d. dirty american realism e di tutto quanto sta nel mezzo tra Fitzgerald e Houellbeeq, ma anche per scoprire che bestia subdola è la Giovinezza, intesa non come dimensione anagrafica, ma come qualità esistenziale, come condizione mentale che obbliga a subire in eterno il fascino dell’errore, della brevità, del futuro possibile, del Sogno appunto.

Un capolavoro questo libro, aldilà di ogni ragionevole dubbio, scritto nel 1961, che parte dal sogno americano e arriva al sogno di tutti. A smascherarlo.

Quanti tra noi possono riconoscersi nei dialoghi sul Niente di April e Frank Wheeler, giovani sposi con prole e belle speranze, alle prese con un futuro indeterminato, i protagonisti cioè di questa ingombra Revolutionary Road? Praticamente tutti o quasi. Ci sono frotte di coppie simili, sedute sul ciglio del baratro del proprio Fallimento, vittime di un confuso progetto di benessere, privo di coordinate; coppie necessitate a credersi diverse, migliori, irrealizzate per colpe altrui; coppie, gruppi, microsocietà, complessi urbani che nel tempo hanno conservato lo stesso sguardo smarrito e fintamente sereno di April e Frank. Oggi come allora. Yates, quindi, profetizzò negli anni sessanta una crisi che ancora oggi perdura, attualissima; dette vita ad un nuovo genere letterario, al racconto realistico dell’annientamento di intere generazioni d’uomini e donne; sputò in terra il seme di quella che sarebbe diventata la commedia americana e di tutta la fiction a seguire. Creò quello che nel tempo anni è divenuto praticamente un cliché. Lo sa bene Woody Allen nei suoi film, lo sanno pure scrittori italiani come Antonio Pascale che ha sentito nel 2005 il bisogno di scrivere ancora della medesima crisi, di corpi che prendono coscienza delle proprie insulse illusioni a scapito della bellezza fisica e dei lavori più stupidi del mondo, da fare ogni giorno senza ragione, da ripetere per inerzia producendo carta, riciclando, spostando, trasformando, fagocitando carta.

Così fatale appare la sconfitta narrata, che solo la follia sembra poter garantire la lucidità necessaria a distinguere l’illusione dalla materia. E’ John l’unico capace secondo Yates. Un professore di matematica divenuto pazzo è il solo in grado di reagire al sogno, di tollerarlo; l’unico che può svelare ai due protagonisti del libro quello che sono diventati, quali sono i loro veri, bassi desideri, i miseri bisogni e i loro inevitabili limiti. L’unico che resiste nonostante le zavorre: 1) una madre per la quale tutto deve essere Perfetto, Carino, Piacevole, che passa le sue serate a scaldare l’acqua per il tè, a sfinirsi il corpo, per ristrutturare, abbellire, colorare il grigio; 2) un padre che si difende come può, spegnendo il suo apparecchio acustico, quando la plastica coniugale rischia di annegarlo.

Tutto questo insipiente desiderare porta alla tragedia finale, alla scoperta del non amore. Soltanto alla fine tutto diventa chiaro e concreto. Povere le nostre fantasie ridotte ad incubi! Ecco la verità: April aveva solo voluto credere, una sera, anni prima, che Frank fosse la persona più “ interessante” incontrata fino ad allora. Era stato facile. L’aveva voluto, fortemente, scientificamente, così che la loro storia d’amore ne guadagnasse in dignità; aveva voluto convincersi che quel quartiere fosse il più sfavillante, il più opportuno. Tra tutte le realtà possibili. Così aveva finito per scambiare per amore ciò che era solo la somma delle debolezze e degli egoismi di entrambi. April se ne era stata poi per mesi, per anni, a rimuginare: attrice principiante ma operosa, aveva interpretato la migliore se stessa, accoccolata deliziosamente su un bel divano, controllando l’umore, sorseggiando qualcosa, anzi più di qualcosa, ogni sera accanto ad un uomo immaginato come Vivace, Attraente, a concepire figli senza volerli, a costruire conversazioni Interessanti tra le quali intravedere piacevolmente e senza sforzo l’alba di un futuro splendido, quale che fosse, ma comunque assolutamente Carino. Questo anche nei mesi prima che tutto divenisse orrendamente chiaro. Il sogno per il sogno fino all’ultimo istante utile: fini astrattezze per dimenticare un passato di concreta infelicità. Un artificio tutto sommato facile, oltre che necessario. Ma quando essere si rivela per quello che è: un vago disegno che il tempo rende irrealizzabile, allora April dice basta e chiude la vicenda con una Nonscelta. La middleclass è finita in un vicolo cieco? April torna indietro. April, una donna come spesso accade, compie un unico gesto, autentico, fisico, che fa la differenza, senza neppure darne la colpa a Frank, l’uomo che resta a guardare inerte il rovinare degli eventi. Perché Frank è Frank, lui è così. Non lo si può neppure odiare. Le fantasie non sono una colpa. E’ tentata, sì per un attimo è tentata dall’idea di stracciare il velo con una lettera terribile che attribuisca ad ciascuno i confini della propria follia, ma poi Frank è Frank, che vale? ed April lo risparmia. Ma non per amore.

Difficile fermare questo ritmo, eppure April ci riesce e non lo fa per amore.

Yates descrive l’umano scivolare verso la tragedia, senza far piangere nessuno dei suoi lettori. Sconvolgerli sì, destarli dal sonno, spingerli all’azione, forse, ma mai farli piangere! I lettori.

C’è un mio amico, che ha divorato Yates in una settimana. Lo leggevamo insieme e, a fine giornata, ci si scambiava l’angoscia delle piccole rivelazioni ed il numero delle pagine lette, con strazianti e-mail. Lui ha finito il libro prima di me ed una sera mi ha scritto. Non preoccuparti: Yates mi ha impedito di piangere. Sacrosanto. Geniale. Imprescindibile.

Nelle ultime pagine del libro la violenta presa di coscienza dei Wheeler è ridotta a macchietta, svilita ad aneddoto, pettegolezzo. Quando per un solo istante la vita si concede di andare oltre l’ordinaria infelicità, oltre l’ottuso e quotidiano scorrere dell’esistenza; di svegliare mostri con lacrime vere e pesanti, allora va cassata. Rimossa. Un luogo come Revolutionary road non è nato per essere straordinariamente infelice; non è stato costruito per questo; il dolore non fa parte del progetto, può essere al più una visita breve, niente altro, perché, accada quel che accada, quella strada lucida resta una location “invincibilmente allegra”. Per piano urbanistico, per condanna. La verità dei Wheeler diventa come la storia del diavolo sotto le coperte, da raccontare con un certo gusto, purché di pura fantasia.

Di questo straordinario romanzo colpisce la forza narrante e logica dell’incipit quanto dell’excipit. Si ha infatti l’impressione che le prime righe del romanzo suonino già come un epilogo, un epitaffio, segnino l’inizio della crisi, il primo allarme, il tuffo al cuore del primo sospetto, la premonizione che infrange l’ottuso ottimismo. Le ultime righe invece sono la sutura indispensabile, il nuovo inizio finzionale. All’esito quello che resta è il ricordo di un gesto sconsiderato formato famiglia e il bisogno urgente di un medicamento che lenisca in parte il dolore generato dall’essere Giovani per forza. Sono questi i danni prodotti da un’insidiosa cultura giovanile permanente. Essere giovani a Revolutionary Road è pericoloso, ingannevole. Non è solo psicopatologia: è vivere.

Il medicamento? Forse la creazione di una realtà virtuale fatta di parole e immagini. Forse possiamo rintracciare la naturale evoluzione del dolore di Yates nella letteratura virtualmente psichedelica ed elettrica di Tommaso Pincio, che sostituisce un’illusione con un’altra, il pensiero lungo con quello corto, come lo chiamerebbe oggi Merlo. Del resto, Carver, i suoi gesti rapidi, apparentemente muti, le idee forti descritte in racconti che non danno al lettore assediato neppure il tempo di alzarsi dalla sedia, i suoi mille volti d’americano attonito, vengono da lì, da quell’inizio e da quella fine. Ed io non lo sapevo. Yates si è guardato vivere ed ha guardato anche gli altri farlo, come si trattasse di giganteschi insetti alla ricerca di una tana, senza giudizio alcuno, ma con un’assoluta, personale urgenza e, come ha giustamente intuito Giuseppe Genna, privata della sensazione agghiacciante che deriva da questa analisi entomologica sulla condizione umana contemporanea, non avrebbe corpo metà della letteratura odierna.

Ma, diciamolo, quale è veramente l’errore di una coppia così abilmente raccontata? L’aver partorito una fantasia di bellezza conforme? L’essere rimasta imprigionata nella propria più riuscita fantasia? La possente immaginazione? L’oscena debolezza? In questo libro sono state seminate, magistralmente, un’infinita di tagliole, destinate a scattare nei libri di altri. Trappole inevitabili. Rimproveri. Ancora e ancora. Siamo senza scampo e questa è una letteratura destinata a far paura.

Non so se è giusto scrivere libri così. Bellissimi e crudeli. Ci sono colpe, le mie, le loro, di tanti, che forse non andrebbero svelate.

Yates ha spento le luci dell’orrendo festino del Paese dei Balocchi. Che scrittore spietato! Speriamo almeno non doverci svegliare domani ancora una volta con enormi orecchie d’asino.

 

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