Il gioco e la nostalgia

 

Su “L’amorosa inchiesta” di Raffaele La CapriaMondadori

 

Elisabetta Liguori

elisabetta.liguori-lisi@poste.it

 

 

Anche i grandi scrivono lettere d’amore. Quelle di Raffaele La Capria, nel suo ultimo romanzo, riscontrano un sentimento oggi cristallizzato, colto nel momento esatto della sua trasformazione, ripescato con un amo di parole tuffate nell’acqua torbida.

Mi ritrovo ancora, dunque, a lambire da lettore questa sfaccettata urgenza umana: amare.

Già. Sono mesi che m’imbatto, per caso o per malizia, in libri di questo tipo. Strano fenomeno, dovuto forse all’approssimarsi dei quarant’anni. Ora, terminato il libro di La Capria, mi sento alla fine di un percorso. Non so bene perché. Non voglio saperlo: mi bastano i ripetuti stati empatici che certe letture mi consentono e l’accesso facile al mondo che suggeriscono.

Credo che l’intento dell’autore fosse proprio condividere l’afflato faticoso del tempo già trascorso, riacciuffare, tra i tanti, un momento particolarmente significativo della propria esistenza, appuntarci fisso lo sguardo e dirne l’ultima parola.

Amore e tempo: forse la soluzione all’amoroso enigma giunge solo alla fine, ad aver pazienza, se non fortuna.

 

La Capria scrive tre lettere, per tre forme diverse d’amore, tra loro intrecciate. L’ordine scelto è un inganno. La lettera al padre, l’ultima nel libro, segna invece il primo passo, l’origine di tutti i desideri, la prima immagine su cui modellare il personale senso del bello e del brutto, della normalità  e del mito. Senza gli errori, tardivamente svelati ad un padre ormai defunto, non ci sarebbe stato nessun altro amore o comunque un amore dalle sorti ben diverse.

 

Forse perché oscuramente sentivo di avere ereditato da te un’imperfezione che non riguardava solo il mio corpo, ma una parte esigente di me che non avevo ancora bene individuata.

 

L’amore per il padre mette in connessione ciò che uguale a ciò che non lo è; disgiunge, segna i passi di un destino invincibile, come a voler significare, in altri termini, che un figlio è come una palla lanciata lontana da un colpo di stecca: prende velocità, risentendo della forza, della direzione del lancio, della mano, delle incertezze, del progetto iniziale, eppure la sua traiettoria non può che essere una e una soltanto. È scienza anche quella che guarda al destino celato nelle mani di chi è figlio di qualcosa o qualcuno. Scienza esatta che reagisce a variabili note o ignote. Da studiare.

La prima lettera ricalca, foglio su foglio, l’anima del padre su quella del figlio, i confini del gioco binario, dell’azzardo, del rischio qui percepito come scarica vitale. Contestualmente descrive l’albeggiare, e poi il declino, della middle class napoletana, il perbenismo del dopoguerra, i raggiri e i finti pudori di quella società un po’ arruffona che non aveva ben chiara la distanza tra il legale e l’illegale, né sentiva l’urgenza di chiarirla, presa piuttosto dalla confusione ottimistica conseguente alla occupazione alleata. Così anima e storia si mescolano, in uno sfarfalleggiare leggero, mutando di colore di continuo, senza produrre alcuna appartenenza, alcun senso di responsabilità. È la napoletanità, potrebbe dire qualcuno. È l’uomo, direi io.

La Capria è letteralmente eccelso quando parla di questa sottile forma d’immaturità. Sia del malessere che del piacere infinito che segue alla rinascita che quella stessa immaturità consente. Ogni volta.

La lettera, quindi, racconta con leggerezza anni che non possono ritornare, restituendo loro l’ultima, miracolosa giovinezza. Il padre evocato dall’epistola resta, infatti, sempre più giovane di chi ne scrive, il ricordo lo celebra, lo perdona, lo abbellisce. Il fine, se di fine si può parlare quando a scrivere è un autore come La Capria, sembra essere quello di annullare la distanza che la vita ha posto tra uomo e uomo, quella specie di limbo morale in cui gli eventi sembrano accadere per impazienza prima e per inerzia dopo. Comunicare non è facile, tra bipedi, quando il tempo distrae e spinge, eppure resta sospeso il pensiero che, con il tempo forse, capire possa divenire anagraficamente più facile. La scrittura matura e profonda di La Capria induce all’attesa, quindi.

Con strumenti apparentemente poveri: le foto, gli articoli di giornale, i piccoli viaggi, le scappatelle, la pesca, il gioco al casinò, l’autore ricostruisce tutti i suoi perché, uno per uno. Anche quelli letterari, e lo fa con una semplicità disarmante e lapidaria

 

Posta la base del primo desiderio, della sua mimesi, si passa all’amore per una donna con un’altra lettera. La donna qui descritta non è donna, è mito e, per questo, intangibile. Direi di più: l’amore quando diventa corpo, l’offende, l’annulla. L’amore quindi qui descritto è pura vaghezza, pura rappresentazione, sforzo letterario sul tema della bellezza.

 

Ma per cominciare vorrei dirti che mi innamorai di te prima di conoscerti, perché era quella l’epoca in cui il primo amore poteva essere un nome che veniva prima della persona.

 

Forse il segreto del cuore è nascosto in una certa idea: l’amore, come una pietra ingoiata alla nascita, c’è prima di esserci. È un’ellissi incompiuta. È già in noi. Ogni incontro occasionale tra uomo e donna tende a quella pietra, senza raggiungerla mai. Il resto è solo casualità e avanzo di materia.

La donna della lettera non è semplicemente bella, è inarrivabile ed è questo a renderla amabile. Colpa della letteratura forse, dell’isolamento e illusione a cui costringe il tignoso appropriarsi del succo di tutti i libri possibili. Il mito letterario metropolitano adolescenziale consente la pulsione amorosa, ma non l’amore. Così, quando la ragazza si avvicina al protagonista in tutta la sua corporeità, l’amore svanisce. L’ombra delle mediocrità lo oscura.

Si può amare solo chi non ci ama, quindi? Solo chi ci resta lontano e ad una spanna più in alto, o magari più in basso, purché lontano? Soltanto l’irrealizzabilità del sogno lo rende immortale e salvifico? Lo confesso: fatico a crederci e solo la scrittura ispirata di La Capria riesce a rendermene in qualche modo accettabile l’idea. Che stia invecchiando anch’io, in fretta, vittima della spinta acceleratoria imposta dalla letteratura di tutti i tempi? La narrazione di La Capria, qui alle prese con il mito, si fa adolescenziale, sospirante, si fa avvolgere da una sorta di dubbio metafisico, pur restando solida e tagliente. E matura.

In ultimo si chiude con un colpo di frusta vibrato nell’aria.

Non è accaduto Niente. Lo dice Lei a lui. Niente: quell’amore è niente, nulla di concreto, cioè, di tattile o duraturo. Un niente frutto di una possibilità volatile, di un libro letto e riletto, del potere incantatorio dei nomi, delle apparenze, della fiera avversione verso se stessi. Niente. Eppure tutto.

Niente accade perché il protagonista stenta a guarire dalla sua giovinezza come da una malattia sconosciuta.

Tutta la lettera alla donna amata, pertanto, sembra attraversata da un morbo e dalla conseguente indagine, volta alla scoperta delle sue antiche cause. Un’inchiesta sullo smarrirsi dell’ amore, appunto, sul suo ammalarsi o meglio sulle sue patologie congenite.

 

Nella terza lettera, infine, è lo stesso figlio, lo stesso amante, a parlare, ma questa volta lo fa rivolgendosi alla sua primogenita. Senza cambiare argomento.

 

Era lì, in quello sguardo, che s’annullava di colpo la mia ambiguità, era lì che cessava la mia angoscia e lì che trovavo il mio riposo. Era lì il punto in cui tutte le mie parallele s’incontravano all’infinito.

 

Una lettera di scuse che finalmente distingue il desiderio dal bisogno.

Accade che il dolore espresso nella terza lettera appaia a chi legge più intenso, proprio perché connesso ai bisogni filiali, all’abbandono, all’assenza; tanto intenso da imporre a chi scrive il ricorso alla fiction, all’invenzione, come ad un parapioggia. Anche qui la letteratura torna, ma non come scuola, bensì come coperta di Linus, e in qualche modo assolve. Tutela il padre e la figlia. O forse più il padre, che curiosamente sembra averne maggiore necessità.

Ancora una volta quindi, solo le Belle Lettere tornano a spiegarci certe dolorose distanze: quella di un padre dalla propria figlia, l’inerme diversità tra due anime avviluppate tra loro, tra l’essere ed il voler essere, tra tutte le vite ugualmente immaginate e possibili, tra il progetto e l’impazienza.

Necessario spiegare e spiegarsi la dolorosa e pur diffusa incapacità di essere normali, là dove la normalità era ed è per l’autore la via per far tacere l’angoscia e tentare di cogliere la realtà nell’attimo unico ed esatto della sua concretezza tattile. Un sforzo immane per molti.

L’uomo che narra La Capria è colui che, concentrato sulla sua costruenda normalità, a giorni vivo, a volte persino felice, altre pigro, perso, solo occasionalmente partecipe di qualche singolo momento della sua vita e di quella di quanti gli sono accanto, rimane negli anni in una condizione di sospesa distrazione.

Mentre il tempo passa sui suoi stessi errori ritmici.

Accade tra padri e figli. E non è di certo un fatto di montagne che vanno da Maometto o di Maometto che se ne va alla montagna, ma di condivisione del rischio e del soffio tiepido del tempo. Capirlo non è facile. I bisogni primari fanno un gran baccano. L’energia fisica a volte, più che una risorsa, diventa ostacolo alla ricerca.

C’è imprudenza nell’essere padri, nell’essere amanti, nell’essere figli. La stessa imprudenza che il tempo scolora, deposita sul fondo e che la letteratura, come vizio, anche tardivo, ripesca quasi fosse una vecchia canzoncina, quella che il padre sussurra nelle orecchie della sua bambina – bell’occhio guardatore, sali anche stamattina, in cima al tuo bel fiore – per corteggiarla, per corteggiarla per sempre, dalla nascita fino alla morte. Per andare oltre il tempo e la paura.

All’ultimo momento, quando cioè la vecchiezza incombe e fa venir voglia dell’ultimo azzardo, spingendoci a rigiocare la partita con nuove e più numerose carte in mano, ecco che l’inchiesta si fa doverosa. La rilettura del percorso, il riposizionamento del senso dell’amore, lo sgombero degli eventi. Quando la vita va in discesa e restituisce fiction, la sera in poltrona, davanti alla finestra, ecco che diventa necessaria l’ultima interpretazione personale. Necessaria e persino più facile. Come?

In un solitario malinconico: si possono mettere i grani in fila, l’uno accanto all’altro, guardarli in faccia, contarli ancora, riposizionare gli assi. Ripartire dalla fine, tradendo il baro, se c’è stato. Usando un p.c.

 

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