IL DIO DELLE VITTIME
René Girard e la Scrittura
GIUDAICO - CRISTIANA
Alessandro Stella
Prefazione
Il presente lavoro, che potremmo definire una “introduzione a Girard”,
altro non ambisce che la libera divulgazione di una ipotesi sull’origine dell’uomo e del sacro,
ipotesi che suscita sempre più interesse nel mondo contemporaneo. Le strade che
apre, in effetti, sono impressionanti e si estendono a parecchie discipline,
compreso il campo teologico, strade tutt’ altro che ben esplorate.
Un sentito ringraziamento alla prof.ssa Giusi Strummiello (Università
degli Studi di Bari) per i preziosi consigli e la revisione del testo. Ringrazio
anche il prof. Fabio Brotto, (liceo classico “Antonio Canova” di
Treviso) autore e curatore del sito (www.bibliosofia.net/GENERATIVA.html)
che ospita questo lavoro.
Spero che il breve saggio che presentiamo alla Vostra attenzione e che
lasciamo a disposizione in rete abbia l’effetto voluto, vale a dire avvicinare il lettore alle
opere di René Girard ed alla sua scuola, per confermarla o criticarla. In entrambi i casi, il confronto
arricchirà noi tutti.
Valenzano/Bari, novembre
2004
Alessandro
Stella
Indice
Introduzione
CAP. I: Il
sistema girardiano
a) Ominizzazione e meccanismo mimetico: dalla
rivalità mimetica al transfert di
divinizzazione
b) Il mito:
nascita ed evoluzione
c) Divieti e
rito: nascita ed evoluzione
CAP. II: La particolarità della religione
giudaico-cristiana
CAP. III: Ermeneutica biblica. L’ Antico Testamento
a) Pentateuco e libri storici
b) Libri sapienziali e poetici
c) Libri
profetici
CAP. IV: Ermeneutica biblica. Il Nuovo Testamento
a) Il messaggio di Gesù di Nazaret
b)
Skándalon
( σκάνδαλον )
c)
Satàn ( שָׂטָן
)
d) La
Passione
e)
Apocalisse
Note
Bibliografia
Introduzione
L’uomo si
differenzia dagli altri animali in quanto è il più adatto all’imitazione
[1].
Attorno a questa straordinaria intuizione dello Stagirita, tratta dal quarto capitolo della Poetica, sembra costruirsi il messaggio principale dello studioso francese René Girard. Definito pure come il “mistico della violenza”, “ l' Hegel del cristianesimo”, osteggiato da alcuni, seguito da altri, Girard mostra comunque di essere uno dei protagonisti del dibattito filosofico degli ultimi anni. Superati gli ottant’anni, Girard continua a pubblicare libri, rilasciare interviste, ed a partecipare al dibattito internazionale scatenatosi intorno alle sue idee, meglio, la sua idea. Girard infatti ha sempre lavorato attorno a due nodi teorici, quasi ossessivamente: mimetismo e capro espiatorio, riassumibili in un'unica grande idea, quella del meccanismo mimetico. Sul meccanismo mimetico Girard ha elaborato uno degli ultimi grandi sistemi di questo secolo, una di quelle teorie onnicomprensive che ormai, dato il particolarismo delle ricerche attuali sembrano essere irrealizzabili, impossibili, assurde.
Karl Raimund Popper ha sempre detto che fare scienza significa “ridurre”, trovare un filo conduttore nell’apparente caos ed imprevedibilità dei fenomeni naturali ed umani, spiegarli ed unificarli tramite un nodo teorico che possa in qualche modo concepirli ad un livello di estensione maggiore. Tutte le più grandi teorie degli ultimi secoli sono riduzioniste: Einstein ha unificato sotto un unico principio due variabili apparentemente indipendenti, lo spazio ed il tempo. Altrettanto ha fatto Darwin quando ha spiegato il pullulare così straordinario di forme di vita del nostro pianeta tramite la straordinaria teoria della “successione con modificazione”, l’evoluzione delle specie biologiche.
Girard ha però superato quanto a pretese gli illustri predecessori: insomma ha fornito un’ ipotesi unica, un unico principio fondatore per spiegare l’ominizzazione, la nascita delle diverse religioni, dei divieti, dei tabù, delle istituzioni. Certo una teoria molto ambiziosa, ma nata senza premeditazione, casualmente, come tutte le grandi idee.
Sempre Popper direbbe che una teoria simile, esattamente come la psicanalisi ed il materialismo storico, non è falsificabile. Non gli si può fornire cioè un apparato empirico di verifica. In parole povere, Girard non avrebbe uno straccio di prova da presentare all’attuale estabilishment culturale, all’attuale “paradigma di ricerca”. Ma Girard è principalmente un umanista, che quindi ha poco a che fare con le esigenze strutturali di discipline quali le scienze naturali, e con i loro rigidi parametri epistemologici. Se Girard sconfina nelle scienze naturali (es. nell’etologia), è principalmente per rafforzare lo “zoccolo duro” della sua teoria, il mimetismo, che nasce invece originariamente dall’analisi comparata di alcuni testi delle letterature mondiali, primi fra tutti quelli di Shakespeare, ma anche Cervantes, Stendhal, Proust, e Dostoevskij. Più che naturale quindi che le sue teorie abbiano avuto critiche da parte della comunità scientifica.
Analizziamo brevemente la reazione del mondo accademico dell’antropologia. Girard è stato letteralmente ignorato dal suo eterno rivale Levi-Strauss. Per noi c’è una ragione di questo comportamento: è praticamente impossibile rispondere e controbattere alla possente mole di indizi portati da Girard a conferma della sua tesi (Girard al contrario non si è di certo risparmiato dal criticare nei suoi lavori lo strutturalismo del collega francese). Inoltre, la posizione girardiana appare agli studiosi di antropologia contemporanei un insulto al paradigma vigente, come un revival dell’antica pretesa della vecchia scuola antropologica positivista e razionalista, quella che pretendeva di osservare nelle varie religioni un fondamento comune e soprattutto, uno sviluppo storico necessario ovunque e per qualunque cultura.
La vis polemica di Girard, implicita ed esplicita nei suoi lavori, è rivolta dunque soprattutto alla deriva post-moderna e politically correct dell’attuale ricerca antropologica ormai ostinatamente richiusa in una pratica descrittiva differenziale e in un relativismo ideologico (si pensi alle posizioni di E. E. Evans-Pritchard, Clifford Geertz o James Clifford) vittime di un’eccessiva dose di “ermeneutica”, figlia a sua volta di un “pensiero debole” che troppo presto, per Girard, ha rinunciato al tentativo di una spiegazione di problemi molto spesso delegati alla filosofia (anche la ricerca filosofica è accusata, in ultima istanza, di non porsi più dei progetti ambiziosi).
La comparazione è invece al centro del suo sistema di comprensione e di lettura della religione e del mito, secondo un modello che riporta ai grandi antropologi britannici di inizio secolo – Frazer, Malinowski, Radcliffe-Brown, Hocart – sui quali Girard, per sua esplicita dichiarazione [2] ha intrapreso studi appassionati ed approfonditi fra il 1965 ed il 1968, gli anni in cui elabora il concetto di omicidio fondatore cercando conferme della teoria mimetica non più nella letteratura, ma nelle monografie etnologiche e nei testi antropologici.
Sospesa, dunque, tra filosofia, letteratura, antropologia, psicologia e sociologia, la ricerca di Girard non può che affascinare e regalare spunti di riflessione dai quali muoversi in direzioni diverse, addirittura opposte al fondatore della “scuola mimetica”. Le sue riflessioni insomma diventano un fertile humus per indirizzi fra i più disparati: Eric Gans negli Stati Uniti, ad esempio, fonda l’antropologia generativa, Calasso in Italia si muove in parallelo e contro il francese, assieme ad altri studiosi come Vattimo, Tomelleri, Fornari, Antonello, Signorini, Barberi e Cacciari che, seppure in maniere diverse, si sono interessati alle sue idee. Le pubblicazioni, le critiche, le recensioni, gli incontri internazionali, che affrontano il suo pensiero ed i risvolti ancora da esplorare si moltiplicano. Tutto quando ormai sono passati trentadue anni dall’uscita, nel 1972, de La violence et le sacré, sviluppo antropologico del suo primo lavoro importante, intitolato Menzogne romantique et vérité romanesque (1961), nel quale affrontava per la prima volta il mimetismo del desiderio umano e ne abbozzava una teoria sistemica. Si creano contemporaneamente gruppi di studiosi che si dichiarano discepoli e debitori del pensiero di Girard.
Per quanto riguarda il metodo, poi, Girard ricorre, lo abbiamo accennato, alla comparazione di testi letterari, etnologici e mitici:
Bisogna dissipare una volta per tutte il pregiudizio dei letterati secondo cui mettere in rapporto un’opera letteraria e una disciplina scientifica, qualunque essa sia, corrisponde necessariamente ad una “riduzione” facile, ad un occultamento di quel che costituisce l’interesse proprio dell’opera [3].
Questo passaggio di Girard è una vera e propria dichiarazione di guerra ai teorici che molto spesso lo hanno accusato di “violentare” i testi per leggervi le proprie teorie, secondo il famoso principio che "chi sa usare il martello, vede tutto in forma di chiodo". Secondo Girard, lo “sguardo interno” non è l’unico in grado di spiegare la produzione letteraria di una cultura, o almeno, è necessario ma non è sufficiente. Per capire un testo, così come tutto il meccanismo mimetico (che illustreremo più avanti) che è alla base dell’elaborazione di quello, è necessario uscire da una visione selettiva del prodotto culturale, che considera il testo come unicum. A questo proposito, paragonando la sua teoria mimetica al darwinismo, Girard spiega che:
Nessun fatto anatomico studiato isolatamente può portare al concetto di evoluzione. Nessuna osservazione diretta è possibile, nessuna verifica empirica concepibile, giacché il meccanismo dell’evoluzione opera su periodi di tempo senza comune misura con l’esistenza individuale. Dal pari, considerato isolatamente, non c’è testo mitico, rituale, o anche tragico che possa svelarci il meccanismo dell’unanimità violenta [cioè il meccanismo mimetico]. Anche in questo caso è indispensabile il metodo comparativo [4].
Le somiglianze morfologiche, semantiche e fattuali, individuate nei testi
presi in esame da Girard, sono evidentissime; ecco quanto scrive in Des choses cachées depuis la fondation du
monde:
Girard: In realtà si trova nel religioso una
mescolanza di tratti ricorrenti e di
tratti non ricorrenti, ma sempre apparentati gli uni gli altri, che
suggerisce allo spirito scientifico la possibilità di
riduzione.
Lefort: Alcuni deplorano proprio questo carattere
riduttivo della sua tesi.
Girard: A costoro non ho nulla da rispondere. Su questo punto condivido interamente l’opinione di Lévi-Strauss: La ricerca scientifica è riduttrice oppure non è niente. Quella gente a quanto pare considera la diversità delle forme sacrificali preziosa quanto le trecento varietà di formaggi francesi. […] Anche nella critica letteraria, peraltro, nulla mi sembra più insulso e, in ultima analisi, più mistificatore dell’insistenza ossessiva sulla diversità infinita delle opere, sul loro carattere inafferrabile e inesauribile […]. Vedo in ciò un vasto sindacalismo della sconfitta [5].
Assieme al metodo, discussa è anche la sua posizione riguardo al fenomeno religioso, alla sua origine ed alla sua funzione. La conclusione sconvolgente cui Girard perviene e che sarà spiegata nel corso di questo lavoro è la seguente: il sacro sarebbe violenza. Considerando la sola branca dell’antropologia delle religioni su cui Girard si è basato per sviluppare la sua teoria del sacro, scopriamo nella formazione dello studioso francese il contributo fondamentale di Sigmund Freud: secondo Freud infatti, la religione è il ricordo ancestrale di un antico assassinio di gruppo. Totem e Tabù (1913), l’opera più etnologica di Freud, postula cha i primi uomini vivessero in gruppi, ciascuno dominato da un uomo tirannico. Più tardi, essi si sarebbero riuniti per uccidere e mangiare l’odiato padre. Questo schema o tracce di esso, sarebbe anche contenuto nei rituali, proibizioni-tabù e miti dell’umanità intera. Vedremo in seguito quanto questa analisi, specie riguardo l’assassinio collettivo quale fondamento del sacro, abbia delle somiglianze con quella di René Girard [6].
Girard contesta inoltre l’impostazione teoretica illuminista e positivista, che vede la religione come una pura superstizione, un non senso, una futile o una utilitaristica invenzione premeditata. Respinge anche qualsiasi ipotesi di “contratto sociale”. A questo proposito afferma:
Nel contesto razionalista, che è ancora
quello dell’etnologia classica, le religioni non hanno alcun ruolo, non servono
assolutamente a nulla. Esse non possono che essere superflue, superficiali,
avventizie; in una parola, non sono che superstiziose. Ma come spiegare allora
la presenza universale dell’elemento religioso, di cui si è dichiarata la
perfetta inutilità, nel cuore di tutte le istituzioni culturali? Quando ci si
pone tale domanda in un contesto razionalista, non vi è che una sola risposta
logica e coerente, ed è quella di Voltaire: le religioni si sono evidentemente
installate come parassiti all’interno di istituzioni di per sé utili. Sono i
preti “furbi e avidi” [oppure il trickster di Taylor ] ad averle inventate, al fine di sfruttare a
loro vantaggio la credulità della brava gente. […] Le scienze sociali moderne sono
fondamentalmente antireligiose. Ma se il religioso non è una specie di erbaccia
infestante, di gramigna fastidiosa quanto insignificante, quale collocazione
assegnarvi? [7]
L’analisi della risposta girardiana a questa domanda fondamentale verrà considerata nello svolgimento di questo lavoro. All’interno dell’interpretazione girardiana del religioso si tenterà, poi, di considerare il ruolo che, per Girard, vi svolge l’esperienza religiosa giudaico-cristiana. Quest’ultima, infatti, sembra essere il banco di prova per l’ipotesi mimetica girardinana. Ciò però si delinea in modo sempre più chiaro a partire dalla terza opera di Girard, Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. Girard infatti rivela nei suoi studi una crescente propensione nel privilegiare il fenomeno giudaico-cristiano (propensione solo ultimamente attenuata con un lavoro del 2002, Il sacrificio [8], nel quale analizza parte dei Veda), vedendo in esso una netta superiorità su altri miti e religioni nello svelare, nel demistificare il meccanismo mimetico. Il tutto avviene con un procedimento puramente razionale e comparativo; Girard descrive questa predilezione come una scoperta graduale:
Non ho parlato del testo cristiano ne La
violence et le sacré, perché bastava
evocarlo per convincere la maggior parte dei lettori che mi dedicavo a un’opera
di apologetica particolarmente ipocrita. É quello che peraltro non si mancherà
di dire, qualunque cosa accada. É sottinteso, ai giorni nostri, che qualsiasi
pensiero è subordinato a fini ideologici o religiosi più o meno inconfessabili.
E la cosa più inconfessabile di tutte è, naturalmente, di interessarsi al testo
evangelico, di constatare l’influenza formidabile che esercita sul nostro
universo. In realtà, ne La
violence et le sacré non ho fatto altro
che riprodurre, con tutte le sue esitazioni, il mio stesso procedimento
intellettuale, che ha finito per condurmi alla Scrittura giudeo-cristiana, ma
molto tempo dopo che mi fu apparsa l’importanza del meccanismo vittimario.
Questo procedimento è rimasto a lungo tanto ostile al testo giudeo-cristiano
quanto lo esige l’ortodossia moderna. Credevo che il mezzo migliore per
convincere i lettori fosse di non barare con la mia stessa esperienza e di
riprodurne i momenti successivi in due opere separate, una che trattasse
dell’universo della violenza sacra, l’altra del giudeo-cristiano [9].
La progressiva sottolineatura della particolarità del cristianesimo parte da quella che potremmo definire un’ “apologia al contrario”, che diverse reticenze ha trovato anche nel mondo dei credenti. Il vecchio metodo comparativo utilizzato dagli antropologi per equiparare il cristianesimo a qualsiasi altro rituale, mito, a qualsiasi altra credenza, è infatti riutilizzato paradossalmente da Girard per indicare la netta superiorità del cristianesimo sugli altri fenomeni religiosi. Girard quindi batte i detrattori del cristianesimo nel loro stesso terreno: individua lo stesso principio strutturante nei miti e nelle religioni, la loro comune genesi, per mostrare in realtà le sconcertanti differenze (differenze che verranno esposte nel corso di questo lavoro) mai notate prima o volutamente ignorate. Così facendo, confuta pure la pretesa di un cristianesimo assolutamente irriducibile a schemi comuni con il sacro universale:
Tengo a precisare che io non parto dai
Vangeli per favorire arbitrariamente il cristianesimo e rigettare il paganesimo.
La scoperta del ciclo mimetico nei miti, anziché confermare la vecchia credenza
dei cristiani nella singolarità assoluta della loro religione, la rende in
apparenza più improbabile, più indifendibile che mai. Se i Vangeli e i miti
raccontano lo stesso tipo di crisi mimetica […] come potrebbe mai esistere fra la mitologia
e il cristianesimo la differenza capace di conferire alla nostra religione la
singolarità, la singolarità che essa da sempre rivendica? […] Da qualche secolo, molti cristiani stanno
gradatamente perdendo il senso profondo di una singolarità irriducibile della
loro religione, e il comparativismo antropologico, con la sua visione mitica del
cristianesimo, ha dato un notevole contributo a un simile risultato. Non è
questo il motivo per cui certi cristiani devoti diffidano del mio lavoro? Essi
sono persuasi che nulla di buono possa venire per il cristianesimo dal
comparativismo etnologico [10].
Questa netta propensione nel privilegiare la scrittura giudaico-cristiana diventa sempre più evidente e porta Girard a redigere un’opera quasi totalmente dedicata a questo fenomeno, Je vois Satan tomber comme l’eclair, nella quale afferma:
Questo libro, in ultima analisi, è un
esempio di ciò che fino a poco tempo fa si chiamava un’apologia del
cristianesimo un aspetto che non voglio dissimulare, ma rivendicare senza mezzi
termini. Una simile difesa “antropologica” di sicuro non ha nulla a che fare né
con le vecchie “prove dell’esistenza di Dio” né con “ l’argomento ontologico” né
con i brividi “esistenziali” che hanno dato un’effimera scossa all’inerzia
spirituale del XX secolo. Tutte questa cose sono eccellenti nel posto che loro
compete ma, da un punto di vista cristiano, presentano l’inconveniente di non
avere alcun rapporto con la Croce: si tratta di manifestazioni deiste, più che
specificatamente cristiane. […] la
croce demistifica l’intera mitologia più efficacemente delle automobili e
dell’elettricità di Bultmann [11].
Questo lavoro vuole essere principalmente un modo per ripercorrere il cammino che ha condotto René Girard alla convinzione della portata demistificatrice del testo biblico: questo, come già sottolineava Simon Weil, prima ancora di essere una teoria su Dio, una teologia, è una teoria sull’uomo, un’antropologia [12]. Il percorso partirà dall’illustrazione del meccanismo mimetico per poi, come accennato, concentrarsi sull’analisi dei testi biblici che, secondo Girard, per la prima volta rivelano e demistificano quel meccanismo, portando così allo scoperto l’unico responsabile della violenza: l’uomo.
I
Il sistema
girardiano
a) Ominizzazione e meccanismo mimetico [13]
: dalla rivalità mimetica al transfert di divinizzazione
Pólemos è padre di
tutte le cose, di tutte re [14].
L’imitazione costituisce il concetto di base di una recente disciplina antropologica, la zooantropologia: per questa scuola, l’imitazione umana degli animali (zoomimesi) sarebbe il modello propulsivo dell’ominizzazione. L’uomo diventa il più grandioso progetto partecipativo che, per quanto ne sappiamo, la natura ha saputo mettere in atto [15], una sorta di “camaleonte culturale”. La neotenia umana, la sua prolungata immaturità infantile, sarebbe dunque fondamentale ad acquisire comportamenti, stili di vita e tecniche semplicemente imitandole dagli altri animali, superando così i confini della propria specie.
Quanto sia fondamentale il concetto generale di imitazione però non è solo provato dall’antropologia: studiosi di diverse discipline (vedi economia, sociologia, pedagogia, psicologia, linguistica, letteratura etc.) si sono interessati ai processi imitativi: basti pensare a quanto sia importante per lo sviluppo infantile, per il marketing, per la moda, per tutte le trasmissioni culturali propriamente umane come per quelle di tutto il regno degli animali superiori (esempio: le strategie di caccia, le gerarchie sociali, tutto materiale che certo non è genetico e che viene trasmesso di generazione in generazione).
Girard analizza in maniera sistematica e compiuta questo fenomeno, ma lo fa attraverso una analisi intraspecifica, soffermandosi soprattutto sulle dinamiche del desiderio umano. Per Girard, il mimetismo è la chiave di lettura dell’Homo sapiens, così come delle specie animali più vicine all’uomo, nelle quali l’apparato istintivo si riduce notevolmente a vantaggio della trasmissione culturale:
Non c’è nulla o quasi, nei comportamenti umani, che non sia appreso, e ogni apprendimento si riduce all’imitazione. Se gli uomini, a un tratto, cessassero di imitare, tutte le forme culturali svanirebbero. I neurologi ci ricordano di frequente che il cervello umano è un’enorme macchina per imitare [16].
Il mimetismo del desiderio infantile per Girard è riconosciuto da tutti. Il desiderio adulto non è diverso in nulla, se non per il fatto che l’adulto, specie nel nostro contesto culturale, si vergogna, il più delle volte, di modellarsi sugli altri; ha paura di rivelare la sua mancanza d’essere.
Ma cosa ha a che fare tutto ciò con il desiderio? Girard spiega che l’uomo, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, tende ad imitare, fra le altre cose, anche il desiderio di un singolo modello o di una maggioranza. A questo punto è però opportuno distinguere appetito da desiderio:
Per meglio comprendere tutti gli stadi del
meccanismo mimetico dobbiamo partire dalla distinzione fondamentale tra
desiderio e appetito. Appetiti quali quello per il cibo o il sesso hanno
carattere fisiologico e non sono necessariamente legati al desiderio. Però non
appena appare un modello da imitare, qualsiasi appetito può venire contaminato
dal desiderio mimetico. La presenza del modello è l’elemento chiave della mia
teoria [17].
Lasciate che chiarisca una distinzione fondamentale: un appetito non implica imitazione. Uno che cammina per chilometri nel deserto alla ricerca di acqua non sta imitando nessuno, ha solo sete [18].
Dunque non tutto è propriamente culturale. Con il termine appetito, Girard sottolinea l’aspetto istintivo del comportamento. Ma l’uomo, come già faceva notare Lacan, è prigioniero dell’apparato simbolico che costruisce, e il concetto di “desiderio” tende ad occupare ed a soppiantare quello di “appetito”, contraddicendo così tutte le correnti individualiste e romantiche che parlano di unicità del sé e del desiderio.
Il desiderio mimetico è dunque un elemento fondamentale della cultura umana. Per Girard è la chiave dell’ominizzazione e della libertà umana; l’ambivalenza di esso, la sua estrema utilità che viaggia di pari passo alla sua pericolosità, traspare in questo passaggio:
Il desiderio mimetico è quello che ci
permette di sfuggire all’animalità. Esso è responsabile di ciò che vi è di
meglio in noi e di peggio, di quanto ci abbassa e di quanto ci alza al disopra
degli animali. Le nostre discordie
incessanti sono il prezzo che paghiamo per essere liberi [19].
Esso apre alla libertà perché il desiderio mimetico per Girard è il solo che può essere libero (considerata la possibilità umana di scegliere un modello anziché un’altro). Il desiderio mimetico non è puro istinto:
L’uomo è la creatura che ha perduto una parte del suo istinto animale per accedere a quello che si chiama desiderio [20].
Ma Girard, lo abbiamo visto, spiega che il desiderio mimetico crea conflitti: dunque cosa comporta in negativo? La risposta alla domanda formulata è esposta sistematicamente in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo: il desiderio mimetico, se il modello imitato è spazialmente vicino al/ai soggetto/i, finisce per creare rivalità verso l’oggetto desiderato da entrambi: si ha così la mimesi d’appropriazione:
Se il comportamento di certi mammiferi superiori, in particolare delle scimmie, sembra preannunciare quello dell’uomo, lo si deve quasi esclusivamente, forse, al ruolo già importante , ma non ancora così importante come nell’uomo, svolto dal mimetismo di appropriazione [21].
Il mimetismo d’appropriazione è essenzialmente la stessa cosa di una rivalità verso un oggetto conteso. Girard specifica che:
La rivalità non è il frutto di una
convergenza accidentale dei due desideri sullo stesso oggetto. Il soggetto
desidera l’oggetto perché lo desidera il rivale stesso. […] Due desideri che convergono sullo stesso
oggetto si fanno scambievolmente ostacolo.
Qualsiasi mimesis che verta sul desiderio va
automaticamente a sfociare nel conflitto [22].
Il modello per Girard diventa progressivamente un ostacolo, entrambi i concorrenti diventano doppi l’uno dell’altro:
All’inizio, come si è detto, i rivali
mimetici si contendono un oggetto, e il valore di questo oggetto aumenta in
ragione delle bramosie rivali che ispira. Più il conflitto si esaspera, e più la
posta in gioco diventa importante agli occhi dei due rivali. Agli occhi degli
spettatori, invece, non c’è assolutamente più una posta in gioco. Il valore
conferito inizialmente dalla rivalità dall’oggetto non solo continua ad
aumentare, ma si separa dall’oggetto per fissarsi sull’ostacolo che ciascuno dei
due rappresenta per l’altro. […] Se
si chiede agli avversari perché si battono, invocheranno nozioni quali il
prestigio. Per ciascuno infatti si tratta di acquisire il prestigio che rischia
di toccare all’altro, di diventare la potenza magica, l’analogo del mana polinesiano o del kydos greco che si aggira sotto forma di violenza
tra i combattenti [23].
Il desiderio dunque tende a separarsi dall’oggetto conteso, diventa un desiderio senza oggetto:
Oltrepassata una certa soglia di
frustrazione, gli antagonisti non si accontentano più di ciò che costituiva
l’oggetto della loro contesa. Reciprocamente esasperati dallo scandalo,
dall’ostacolo vivente che ciascuno rappresenta agli occhi dell’altro, i doppi
mimetici dimenticano l’oggetto del loro litigio e si scagliano con rabbia l’uno
contro l’altro. […] Anziché annullare
la reciprocità dei rapporti umani, questo tipo di rivalità la rende più perfetta
che mai, beninteso nel senso delle rappresaglie, non degli scambi pacifici. Più
gli antagonisti desiderano differenziarsi e più diventano identici. É nell’odio
dell’identico che l’identità
raggiunge il suo compimento. Nella mitologia, i gemelli o
i fratelli nemici, come
Romolo e Remo, incarnano questo momento
parossistico, da me definito come conflitto tra doppi [24].
Questa citazione individua l’introduzione di un elemento fondamentale nella teoria girardiana: l’indifferenziazione. La rivalità mimetica è da intendersi come una crisi delle differenze, cioè dell’ordine culturale nel suo insieme. Questo ordine culturale, infatti, non è nient’altro che un sistema organizzato di differenze; sono gli scarti differenziali a dare agli individui la loro identità, che permette loro di situarsi gli uni rispetto agli altri [25].
I doppi si creano nel momento in cui
l’oggetto scompare nella foga della rivalità: i due rivali, sempre più
preoccupati di sconfiggersi l’un l’altro, non badano più a ottenere l’oggetto
della contesa, che a quel punto diventa irrilevante, un puro pretesto al montare
della disputa. In questo modo i due rivali diventano sempre più indifferenziati
e sempre più identici: doppi, appunto. La crisi mimetica è sempre una crisi di
indifferenziazione, che si crea quando i ruoli del soggetto e del modello si
riducono a quelli di rivali. E tale indifferenziazione è resa possibile dalla
scomparsa dell’oggetto della disputa [26].
Progressivamente, la crisi mimetica si diffonde, alla stessa maniera di una malattia contagiosa, fra tutti gli individui della comunità; proprio perché uguali l’uno all’altro, i contendenti, ormai dimentichi dell’oggetto per cui all’inizio si battevano, tendono a cambiare arbitrariamente il proprio antagonista ed a sostituirlo con qualsiasi altro all’interno del gruppo. La violenza patologica e parossistica dilaga, minacciando la sopravvivenza della stessa comunità, delle stesse famiglie, diventando talmente grande da fagocitare tutte le rivalità mimetiche. Tutti gli individui ne sono coinvolti:
Mentre all’inizio gli antagonisti occupano
posizioni fisse all’interno di conflitti resi stabili dall’accanimento delle due
parti, successivamente avviene che, a mano a mano che lo scontro si esaspera, il
gioco degli scandali [i modelli-ostacolo] trasforma in misura crescente questi
antagonisti in una folla di esseri intercambiabili. All’interno di questa massa omogenea gli
impulsi mimetici non incontrano più alcun ostacolo e si espandono a grandissima
velocità, evoluzione che favorisce i voltafaccia più strani, le configurazioni
più imprevedibili [27].
A differenza di quello che avviene negli altri animali, nell’uomo non ci sono meccanismi di difesa istintivi contro la violenza; gli animali possono duellare e combattere senza arrivar alla morte proprio perché sono forniti di inibizioni istintive che assicurano il controllo delle armi naturali, cioè gli artigli ed i denti. Ma per Girard è altamente improbabile che questo controllo si sia esteso automaticamente alle pietre e alle altre armi nel momento in cui gli ominidi cominciarono ad usarle. Al contrario degli uomini, è la stabilizzazione dei dominance patterns ad impedire i dissensi in seno ad un gruppo animale:
Gli etologi hanno ragione nell’ affermare
che i dominance patterns svolgono un
ruolo analogo a quello di certe differenziazioni e suddivisioni talvolta
gerarchiche, anche se non sempre, nelle società umane […]. Presso certi mammiferi, l’individuo unico o
i pochi individui che dominano il resto del branco occupano di frequente una
posizione centrale. Sono costantemente osservati e
imitati dagli altri maschi che si
tengono alla periferia. É come dire che l’imitazione
verte su tutti gli atteggiamenti e i comportamenti degli animali dominanti
esclusi i comportamenti di appropriazione [28].
Ma le società umane non poggiano su dei dominance patterns, e ciò si può constatare facilmente osservando che le rivalità fra gli uomini sfociano facilmente nell’assassinio di un membro della stessa specie, cosa del tutto rara nel mondo animale; la stessa sessualità, causa così frequente di violenza nel mondo animale, per l’uomo è permanente e non periodica, come avviene negli altri mammiferi.
Una domanda essenziale del nostro discorso può dunque sorgere: come un ominide, un animale armato, addestrato alla caccia e alla guerra, ipersessualizzato, ha potuto sopravvivere all’estinzione, alla sua stessa violenza, alla sua peculiare imitazione, alle crisi mimetiche? Girard risponde mediante il concetto di meccanismo vittimario, o del capro espiatorio.
La mimesi di appropriazione, una volta distaccatasi dalla scintilla originaria dell’oggetto e propagatasi a macchia d’olio, diventa una mimesi di antagonismo. La folla in preda al parossismo mimetico può distogliere da sé la violenza rivolgendola in maniera arbitraria su un individuo del gruppo. Nella crescente indifferenziazione è possibile polarizzare tutta la comunità contro un unico avversario che appare subito il responsabile della catastrofe che incombe su di essa [29].
Il concetto di capro espiatorio non è nuovo nella ricerca dell’antropologia delle religioni: già Frazer aveva notato quanto parecchie forme rituali e religiose, cristianesimo compreso, potessero essere ricondotte ad una immolazione finale, sempre generata da un gruppo verso un singolo individuo o un animale, sintetizzate cioè nello schema del capro espiatorio:
L’espressione capro espiatorio risale al
caper emissarius della Vulgata, libera interpretazione del greco
apopompaios: “colui che allontana i
flagelli”. Quest’ultimo termine costituisce anch’esso, nella traduzione greca
della Bibbia (detta dei “Settanta”) una libera interpretazione del testo ebraico
la cui traduzione esatta sarebbe: “destinato ad Azazel”. Generalmente si
interpreta Azazel come il nome di un
antico demonio che si presumeva abitasse nel deserto [30].
Qual è l’effetto che ha questa uccisione collettiva?
La comunità si ritrova improvvisamente priva
di nemici e la tranquillità si ristabilisce. Universalmente odiata in principio,
la vittima, in ragione della sua forza riconciliatrice, assumerà presto le
sembianze di un salvatore. Il miracolo del sacrificio è la formidabile
“economia” della violenza che realizza. Esso polarizza contro una vittima tutta
la violenza che, un istante prima, minacciava l’intera comunità. Questa
liberazione sembra tanto più miracolosa quanto più interviene in extremis,
nell’istante in cui tutto sembrava perduto [31].
Altrove, Girard suddivide il processo in due tipi di transfert: il primo, detto transfert negativo (o di aggressività), consiste nell’uccisione o espulsione della vittima, da cui deriva la ricomposizione della crisi e la conseguente momentanea pace. Il secondo, detto transfert di divinizzazione, pone fine al processo e consiste nella venerazione della vittima immolata da parte della comunità riappacificata, venerazione giustificata dal potere conciliatorio del capro espiatorio:
Le divinizzazioni mitiche si spiegano
perfettamente per opera del ciclo mimetico, e si basano sulla capacità che hanno
le vittime di polarizzare la violenza […]. Se il transfert che demonizza la vittima è
potentissimo, la riconciliazione che ne consegue è così improvvisa e perfetta da
apparire miracolosa e da suscitare un secondo transfert che si sovrappone al
primo, il transfert di divinizzazione della vittima [32].
b) Il mito: nascita
ed evoluzione
La grande maggioranza dei miti, per Girard rappresenta la trasfigurazione del meccanismo, appena descritto, di accusa ed espulsione della vittima, con il relativo transfert di divinizzazione.
I popoli non inventano i loro dèi, essi
divinizzano le loro vittime. Ciò che impedisce agli studiosi di scoprire questa
verità è il loro rifiuto di conoscere la violenza reale dietro i testi che la
rappresentano [33].
Lo storico delle religioni Mircea Eliade conferma indirettamente la tesi che un folto numero di miti, specie riguardo le origini, si riduce ad una uccisione collettiva di una vittima:
Abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a un mito estremamente diffuso, ma che si è manifestato in un numero considerevole di forme e varianti. Eccone l’essenziale: la creazione può avvenire in principio soltanto da un essere vivo che s’immola: un gigante primordiale androgino, o una divinità maschile cosmica, o una madre, o una fanciulla mitica. Precisiamo che tale “creazione” si riferisce a tutti i livelli dell’esistenza: può trattarsi della creazione del cosmo, o dell’umanità, o soltanto di una determinata razza umana, di certe specie vegetali. Lo schema tipico resta lo stesso: nulla si può creare senza un’immolazione, un sacrificio. Secondo certi miti la creazione del mondo ha principio dal corpo stesso di un gigante primordiale: Ymir, P’an-ku, Parusa. Altri miti ci dicono che le razze umane o le diverse classi sociali sono nate sempre da un gigante primordiale o da un antenato sacrificato smembrato. Infine, come abbiamo visto, le piante alimentari hanno un’origine similare: spuntano dal corpo di un essere divino immolato [34].
Nelle sue opere, Girard ha esaminato molti di questi miti. Oltre a quelli biblici, illuminanti, ha trattato quelli di Tikopia e Ojibwa, il mito amerindo di Teotihuaćan, il mito scandinavo di Badr, mitologia romana e greca, mitologia degli Indiani del Nord America, mitologia vedica, mitologia polinesiana ed australiana. Troppe le somiglianze per essere casuali; troppe per non essere il frutto di una comune genesi mimetica, di un comune meccanismo, del sistema che stiamo ricostruendo ora. Troppo distanti inoltre i luoghi fisici per parlare di una semplice teoria “diffusionista” del mito.
Oltre a tracce della descrizione della crisi mimetica, del linciaggio/espulsione della vittima, oltre a tracce della divinizzazione, i miti per Girard contengono anche alcuni capi d’accusa persecutori contro la vittima. Quelli riportati sono molto comuni e stereotipati nelle varie culture e rispondono all’esigenza di colpevolizzare la vittima, offrire un alibi, un pretesto alla follia della violenza mimetica; senza di queste accuse, la vittima risulterebbe innocente e l’intero meccanismo vittimario non avrebbe esito positivo. Prima di essere trascritte nel mito, per Girard queste accuse rappresentano uno stereotipo universale di aggressione verso minoranze, individui non integrati, stranieri, apolidi, uomini/donne con difetti e anomalie fisiche. Nei seguenti capi d’accusa possiamo vedere gli Ebrei del medioevo cristiano, ma anche il mitico Edipo (“con la colpa tragica” di regicidio, incesto, portatore della peste a Tebe), così come Maria Antonietta (vittima della folla anch’essa, appartenente com’era alla minoranza aristocratica), accusata di incesto con il figlio:
A prima vista i capi d’accusa sono molto
diversi, ma non è difficile individuare la loro unità. Vi sono innanzitutto i
crimini di violenza che hanno per oggetto gli esseri verso i quali la violenza è
più criminale - sia in senso assoluto sia relativamente all’individuo che
commette quei crimini: il re, il
padre, il simbolo dell’autorità suprema, e a volte, nelle società bibliche e
moderne, anche gli esseri deboli e disarmati, in particolare i bambini. Vi sono
poi crimini sessuali, lo stupro, l’incesto, la bestialità. I crimini più
frequentemente invocati sono sempre quelli che trasgrediscono i tabù più
rigorosi, relativamente alla cultura considerata. Vi sono poi alcuni crimini
religiosi (come la profanazione delle ostie). Anche in questo caso sono i tabù
più severi che devono essere trasgrediti. Tutti questi crimini sembrano
fondamentali. Si rivolgono contro i fondamenti stessi dell’ordine culturale, le
differenze familiari e gerarchiche senza le quali non vi sarebbe ordine sociale
[35].
Per riassumere quanto detto finora sul mito, prendiamo in considerazione quello degli Indiani Dogrib, del Canada nord-occidentale:
La donna ebbe rapporti sessuali con un cane
e diede alla luce sei cuccioli. Fu cacciata dalla sua tribù e dovette procurarsi
il cibo da sola. Un giorno, di ritorno dai suoi cuccioli, scoprì che erano
bambini veri, che si toglievano la pelle di animale ogni volta che lei se ne
andava. Allora la madre finse di partire e non appena i cuccioli si furon tolti
le pelli lei le nascose, costringendo così i piccoli a mantenere la propria
identità umana. I sei bambini divennero gli antenati dei Dogrib e di tutta
l'umanità [36].
La protagonista di questo testo contiene diverse caratteristiche di persecuzione vittimarie: è una donna, commette bestialità e viene ritenuta responsabile di una crisi (poiché genera dei mostri, metà uomini e metà animali). Il mito ci rivela che la comunità stessa è in preda ad una crisi mimetica indifferenziatrice, poiché viene rappresentata sia come umana sia come animale, e riesce a ripristinare il proprio ordine sociale e la propria identità solo attraverso l'espulsione del "colpevole". Sintetizzando, Girard in ogni mito incontra:
1. Crisi di indifferenziazione
2. Segni vittimari che isolino il “colpevole”
3. Espulsione o uccisione del “colpevole”
4. Divinizzazione: il “colpevole” è rappresentato anche come eroe positivo nel suo ruolo di salvatore della comunità, cioè come generatore del mondo, delle istituzioni, dell'ordine del clan ecc.
Approfondiamo brevemente due punti di questa sintesi, il secondo ed il quarto. Oltre alle accuse analizzate poco sopra, i segni vittimari notissimi nella mitologia mondiale sono le deformità o anomalie fisiche (orbi, ciechi, zoppi, anzianità, goffaggine, teriomorfismi, ma anche la gemellanza omozigotica), tutti sintomi che rimandano all’indifferenziazione, alla mostruosità, alla violenza dei doppi che si scatena durante la crisi mimetica. La presenza costante, nei miti, di mostri, è significante: il tema del doppio e del mostro sono una sola cosa e incarnano l’ambivalenza della vittima, ovvero la sua “colpevolezza” morale ed il transfert di riconciliazione che essa comporta. Nella mitologia, mostruosità fisica e morale vanno di pari passo. Succede pure che in alcuni testi avvenga la scissione di queste caratteristiche avvertite così antitetiche da incarnarsi in due differenti personaggi; la vittima così si scinde in un eroe perfettamente buono ed in un mostro perfettamente cattivo che devasta la comunità: Edipo e la Sfinge, san Giorgio e il drago, il serpente d’acqua ed il suo uccisore:
Il mostro eredita tutto ciò che nella vicenda è spregevole: la crisi, i crimini, i criteri di selezione vittimaria, gli stereotipi persecutori [37].
Sempre Mircea Eliade, per quanto riguarda la mitologia greca, ci è d’aiuto:
Gli eroi mitologici si distinguono per la
loro forza e bellezza ma anche per certi aspetti mostruosi (corporatura
gigantesca – Eracle, Achille, Oreste, Pelope – ma anche molto inferiore alla
media), sono teriomorfi (ad esempio Licaone, il “lupo”) oppure sono suscettibili
di metamorfosizzarsi in animali. Sono androgini (Creope), o cambiano sesso
(Tiresia), oppure si travestono da donne (Eracle). Inoltre, gli eroi sono
caratterizzati da numerose anomalie (acefalia o policefalia; Eracle è provvisto
di tre file di denti); sono soprattutto zoppi, orbi, ciechi. Molte volte gli
eroi cadono in preda alla follia (Oreste, Bellerofonte e anche l’eccezionale
Eracle quando massacra i figli che Megara gli aveva dato). Quanto al loro
comportamento sessuale, esso è eccessivo o aberrante: Eracle feconda in una
notte le cinquanta figlie di Tespio; Teseo è famoso per i numerosi stupri
(Elena, Arianna, ecc.). Achille rapisce Stratonice. Gli eroi commettono incesto con le loro
figlie o le loro madri e massacrano per invidia, per ira o, molto spesso, senza
alcuna ragione; ammazzano anche il padre, la madre o i parenti [38].
Rimane da approfondire il quarto punto: la divinizzazione. É difficile trovare un testo mitico che riesca a mostrare tutto il meccanismo vittimario dall’inizio alla fine, come quello che Girard propone nel IV cap. di Vedo Satana cadere come le folgore. Si tratta di un testo che, paragonato ad un fossile della teoria darwiniana, Girard chiama “l’anello mancante” dell’intero meccanismo mimetico. Esso non è proprio un mito, ma lo è quasi: rappresenta lo stato iniziale di esso. Il testo descrive il “miracolo” di Apollonio di Tiana, un celebre personaggio del II secolo. Attraverso tale miracolo Apollonio salva la città di Efeso da una epidemia di peste:
- Fatevi coraggio, perché oggi stesso metterò
fine a questo flagello [la pestilenza] - . E con tali parole [Apollonio]
condusse l’intera popolazione al teatro, dove si trovava l’immagine del
dio protettore. Lì egli vide quello che sembrava un vecchio mendicante, il quale
astutamente ammiccava gli occhi come se fosse cieco, e portava una borsa che conteneva una
crosta di pane; era vestito di stracci e il suo viso era imbrattato di
sudiciume. Apollonio dispose gli Efesi attorno a sé, e disse: -Raccogliete
più pietre possibili e scagliatele contro questo nemico degli
déi- . Gli Efesi si domandarono che cosa
volesse dire, ed erano sbigottiti dall’idea di uccidere uno straniero
così palesemente miserabile, che li
pregava e supplicava di avere pietà di lui. Ma Apollonio insistette e incitò gli
Efesi a scagliarsi contro di lui e a non lasciarlo andare. Non appena alcuni di
loro cominciarono a colpirlo con le pietre, il mendicante che prima sembrava
cieco gettò loro uno sguardo improvviso, mostrando che i suoi occhi erano pieni
di fuoco. Gli Efesi riconobbero allora che si trattava
di un demone e lo lapidarono sino a
formare sopra di lui un grande cumulo di pietre. Dopo qualche momento
Apollonio ordinò loro di rimuovere
le pietre e di rendersi conto di quale animale selvaggio avevano ucciso. Quando dunque ebbero riportato alla luce colui
che pensavano di aver lapidato, trovarono che era scomparso, e che al suo posto
c’era un cane simile nell’aspetto a
un molosso, ma delle dimensioni di un enorme leone. Esso stava lì sotto i loro occhi, spappolato dalle
loro pietre, e vomitando schiuma come fanno i cani rabbiosi. A causa di questo
la statua del dio protettore, Eracle, venne posta proprio nel punto dove il
demone era stato ammazzato [39].
Girard, considerando l’epilogo di questo testo, afferma che:
Il mendicante di Efeso non diviene mai
oggetto di adorazione. La lapidazione miracolosa non genera che un piccolo,
mediocre demone. Io vedo nel racconto
di Filostrato un prezioso “anello mancante” tra le trasfigurazioni mitologiche
assolute, indecifrabili in modo diretto, e le trasfigurazioni facili da
decifrare come la caccia alle streghe nel medioevo [40].
Ciò spiega quindi l’ambivalenza delle divinità di tutto il mondo, portatrici di male e bene; i famosi crimini e bestialità degli déi dell’Olimpo rientrano in questa origine, un tema comune alle mitologie di tutto il mondo; è così Dionisio di Euripide, personalità benefica e malefica allo stesso tempo. È così per Apollo, supplicato dai Tebani per allontanare la peste, ritenuto perciò responsabile di essa. Apollo non è solo una divinità benevola ed estetica, così come il dio del sole degli Aztechi è anche il dio della peste. In questi casi, la trascendenza della vittima non si è ancora frammentata in una potenza buona e divina da un lato, cattiva e demoniaca dall’altro. Stessa ambivalenza negli ebrei del medioevo: accusati di bestialità ma ricercati nelle corti di tutta Europa come medici e guaritori. Allo stesso tempo è la medesima ambivalenza che riscontriamo nella vittima, nell’eroe/mostro di ogni mito. Se vogliamo, è l’ambivalenza della folla in preda al mimetismo, in preda ai suoi cambi repentini, dal disordine all’ordine, grazie all’uccisone/espulsione della vittima.
Di qui, lo storicismo mitologico girardiano: agli déi primitivi, la cui colpevolezza è totale, subentrano déi la cui colpevolezza è limitata o persino inesistente. In altre parole, molto spesso i miti che arrivano fino a noi non sono le versioni primarie, come lo è il testo di Apollonio di Tiana. La violenza reale, trasfigurata nel mito, tende ad essere progressivamente occultata, misconosciuta, nelle versioni successive dello stesso mito. Un primo modo per privare il mito dalla violenza fondatrice è quello della “colpa tragica”: Edipo, il cieco mendicante sofocleo (il cui nome significa “piede gonfio”, dunque un evidente segno vittimario), ha effettivamente ucciso suo padre ed ha copulato con sua madre, ma credeva di fare tutta un’altra cosa: è stato vittima del destino. Un altro modo è quello di presentare il dio malvagio come un burlone: un dio essenzialmente benigno che però si diverte a fare scherzi di cattivo gusto. Di regola, sono le speculazioni teologiche e filosofiche posteriori a privare il mito sia della violenza dei linciatori, sia della trasfigurazione mitologica della “violenza” della vittima. Queste speculazioni, pur depurando pedagogicamente il mito dalla violenza, hanno il demerito di ignorare l’origine di questa, misconoscendo il meccanismo che è alla base di essa. A conferma della sua ipotesi di evoluzione dei miti, Girard ricorda l’esistenza della versione “esoterica”, trasmessa in testi secondari, del linciaggio di Mosé ad opera del suo popolo, e la sopravvivenza di alcune varianti del mito della fondazione di Roma, varianti “non ufficiali” in cui Romolo veniva fatto a pezzi dagli altri fondatori. Questa volontà di cancellazione è molto spettacolare perché si giustappone di regola ad un conservatorismo religioso preoccupato di presentare l’integrità, o quasi, di rappresentazioni anteriori, il cui oggetto non può essere altro che l’assassinio collettivo stesso. Girard spiega che:
La volontà di cancellare le rappresentazioni della violenza governa l’evoluzione della mitologia. [In una] prima tappa è in gioco soltanto la violenza collettiva; ogni volta che scompare, lo abbiamo visto, le viene sostituita una violenza individuale. C’è poi una seconda tappa, in particolare nell’universo greco romano, che consiste nel sopprimere persino la violenza individuale; ogni forma di violenza appare ormai insopportabile nella mitologia. [Lo scopo è] l’eliminazione delle ultime tracce dell’assassinio collettivo [41].
Conscia o inconscia, l’eliminazione della violenza nel mito è essenziale alla ripetizione dell’intero meccanismo vittimario, nonché al suo esito pacificatore per la comunità: i linciatori però devono apparire essenzialmente innocenti e il meccanismo fondatore rimane però sconosciuto.
La produzione del sacro è di necessità
inversamente proporzionale alla comprensione dei meccanismi che lo producono
[42].
Questa “legge” girardiana crea problemi anche dal punto di vista metodologico:
Qualsiasi avanzamento verso la soluzione
vera modifica i dati del problema. La cosa è particolarmente seria nel caso del
meccanismo sacralizzante che funziona sempre peggio via via che si riesce a
scoprire nel fenomeno del capro espiatorio non un rito privo di senso ma una
fondamentale propensione negli uomini a liberarsi della loro violenza a spese di
qualche vittima [43].
Quest’ultima citazione ci permette di affrontare un nodo fondamentale della teoria girardiana, per cui valgono gli stessi elementi notati per il mito, legato ad esso nell’evoluzione e nella nascita: il rito.
c) Divieti e rito:
nascita ed evoluzione
Il rituale ed il mito, per Girard, rappresentano le due facce della stessa medaglia. La totalità dei riti esistenti, per Girard, rappresenta l’evoluzione e l’enfatizzazione di un unico principio fondatore.
Come abbiamo visto, il ritorno all’ordine ed alla pace è attribuito, dopo il periodo di crisi mimetica, alla medesima causa dei disordini precedenti, alla vittima stessa. Per questo si dice che la vittima è sacra. Per questo motivo l’episodio persecutorio diventa un vero e proprio punto di partenza religioso e culturale. Da una parte, come abbiamo visto, servirà come modello per la mitologia, che lo trasfigura come un momento di origine dell’ordine e della civiltà, dall’altra parte, servirà come modello per il rituale, che si sforzerà di riprodurlo in virtù del principio che bisogna sempre rifare ciò che la vittima, in quanto creatura benefica, ha fatto o subito. Alla stessa maniera, la vittima, come vedremo meglio più avanti, funge da contromodello per i divieti [44], in virtù del fatto che non bisogna rifare ciò che ha fatto questa stessa vittima, in quanto creatura malefica:
Sotto il segno di tale essere [la
vittima], come se si trattasse di
istruzioni lasciate da lei, la comunità disporrà tutte le sue azioni future.
Sulla recente esperienza della crisi e della sua risoluzione la comunità,
insomma, si orienta, credendosi sempre guidata dalla vittima stessa, per
consolidare la fragile tregua di cui gode. Si vede facilmente che devono sorgere
due imperativi principali:
1.
Non rifare i
gesti della crisi, astenersi da ogni mimetismo, da ogni contatto con gli
antagonisti di poco prima, da ogni gesto di appropriazione nei riguardi degli
oggetti che sono serviti da causa o da pretesto alla rivalità [nascita dei
divieti e dei tabù].
2.
Rifare invece
l’evento miracoloso che ha posto fine alla crisi, immolare nuove vittime
sostitutive alla vittima originaria in circostanze il più possibile simili a
quelle dell’esperienza originaria. È l’imperativo del rituale [45].
Ma perché i nostri predecessori creano questa ripetizione rituale? Oltre che per aver sperimentato i benefici della messa a morte della vittima in un periodo di crisi violenta indifferenziatrice, Girard, nelle ultime opere risponde a questa domanda parlando di un principio, la paura, il timore cioè di ricadere in una crisi simile (una teoria che per certi versi lo avvicina alla paura hobbesiana).
Che rito e mito siano molto legati l’aveva notato, fra gli altri studiosi, anche Frazer: qualsiasi cosa venga dimostrata nel rito ha un corrispondente diretto nel mito, e viceversa. Ma cosa è nato prima, l’uno o l’altro? Girard non risponde compiutamente alla domanda, ma afferma che:
In genere il rito è più spettacolare del
mito e inoltre per poter comprendere un mito è necessario usare il rito come
guida. Questa interpretazione reciproca è di grande aiuto nella risoluzione di
parecchi problemi di tipo ermeneutico. Il rito c’insegna che le vittime vengono
veramente uccise; il mito ci insegna che quelle vittime sono state uccise per
ragioni mimetiche ingiuste [46].
Prima di approfondire la questione del rito, bisogna chiarire subito un interrogativo importante. Abbiamo visto durante la trattazione del meccanismo mimetico, che la persecuzione, l’espulsione/uccisione collettiva di una vittima è un processo spontaneo, non assolutamente vincolato da schemi rituali di ripetizione. La domanda è evidente: come conciliare allora questa spontaneità della vittimizzazione a questa ritualità ossessiva e ripetitiva? Girard risponde in maniera molto illuminante. In una prima fase avviene che:
Lo schema della “antica via” [il
meccanismo vittimario] ha un carattere
ambiguo. Non è apertura pura e semplice alla spontaneità, ma al tempo stesso
dipende troppo dal comportamento imprevedibile della folla per essere
schiettamente rituale. Sta nel mezzo: ancora troppo simile ad una sommossa
perché lo si possa definire in termini di rito, e insieme troppo ritualizzato
perché vi si possa riconoscere il meccanismo espiatorio allo stato puro.
[…] I fenomeni di folla hanno
conservato o ritrovato una virulenza che li avvicina al meccanismo vittimario
originale [47].
E ancora:
È facile capire che, a furia di ripetersi
[dapprincipio solo in periodi di crisi, successivamente in date fisse e
cicliche] il meccanismo perderà di
spontaneità, ovvero cesserà di essere tale, per trasformarsi in un susseguirsi
di gesti e parole deliberati, di prescrizioni rituali. Questa metamorfosi è
tanto più probabile quanto più la ripetizione, sempre meglio scandita e
regolata, tende a eliminare la oscillazioni imprevedibili e brutali che
scatenano il sorgere spontaneo del fenomeno. Più il rito placa la comunità, più
perde la sua virulenza primitiva e acquisisce quelle connotazioni che il termine
“rituale” in genere ha per noi. Verrà il momento in cui niente sarà affidato al
caso [48].
Il rito cioè, esattamente come il mito,
Non comprende da dove viene e si allontana
sempre più dalla sua origine [49].
L’assassino fondatore è così un modello che esercita sicuramente certi vincoli, corrispondenti alle costanti osservabili nei rituali, ma dà l’avvio anche a variazioni pressoché infinite per il fatto stesso di non essere mai osservato correttamente, di essere misconosciuto.
In alcuni suoi lavori, ma soprattutto ne La violenza ed il sacro, Girard affronta uno studio comparato di alcuni riti in varie parti del mondo. Paragonando fra loro saturnali e baccanali, i lithobolia, il rito del pharmakos, del katharma, i bouphonia, lo sparagmos dionisiaco, la lapidazione e altre messe a morte rituali collettive, assieme a rituali del Borneo, africani (monarchie sacre), americani (in particolare la tribù dei Tupinamba ed i riti sacrificali delle popolazioni precolombiane) ed ai riti dell’Oceania, Girard arriva a riconoscere uno schema del tutto simile a quello riconosciuto nel mito: il rito ripete e rappresenta in maniera ossessiva la crisi mimetica sacrificale ed il suo epilogo. In esso, similmente al mito, ma in maniera reale, possiamo trovare [50]:
1. Rappresentazione della crisi mimetica indifferenziatrice.
2. Preparazione sacrificale, creazione ad hoc di una vittima (umana, animale, vegetale)
3. Immolazione cruenta (nei riti più evoluti, simbolica) della vittima.
Analizziamo il primo punto. Secondo la teoria Girardiana, la rappresentazione della crisi indifferenziatrice violenta è effettuata principalmente da tutti quei riti sparsi nel mondo che si richiamano alla festa. In quasi tutte le società vi sono feste che conservano a lungo un carattere rituale, in cui è possibile ravvisare una trasgressione dei divieti. La promiscuità sessuale è tollerata, altre volte, richiesta, fino ad arrivare all’incesto. Durante una festa rituale, le differenze sono abolite, la gerarchia annullata, in alcune tribù sono incoraggiate le unioni contro natura ed i contatti “impuri” con animali considerati tabù. Qual è lo scopo di tutto ciò?
La funzione della festa non è diversa da
quella degli altri riti sacrificali. Si tratta, e Durkheim l’ha capito bene, di
vivificare e rinnovare l’ordine culturale ripetendo l’esperienza fondatrice,
riproducendo un’origine che è percepita come la fonte di ogni vitalità e
fecondità: è in quel momento, infatti, che più ristretta è l’unità della
comunità, più intensa la paura di ripiombare nella violenza interminabile [ 51].
Ma il pensiero religioso, in quanto semplicemente imitativo e ripetitivo, talvolta si sofferma non tanto sulla crisi, quanto sul suo opposto, sull’epilogo dell’espulsione vittimaria dalla quale si consolida l’ordine, la pace, le leggi, la gerarchia, i tabù. Parliamo qui di manifestazioni rituali già notate da Frazer e definite da Girard come delle antifeste [52], che offrono ristrettezza dei costumi anziché rilassatezza. Tutte queste misure restrittive sono per Girard chiaramente destinate a prevenire una minaccia di conflitto violento indifferenziatore.
Anche in questo caso, il rito della festa nel tempo si evolve: si ha un elemento dominante che tende a prevalere sugli altri e poi a cancellarli completamente man mano che ci si allontana dal ricordo della violenza fondatrice:
La festa è l’allegra commemorazione di una
crisi sacrificale parzialmente trasfigurata. Col tempo […] viene eliminato anche il sacrificio che la
conclude, poi è la volta dei riti di esorcismo [53] che accompagnavano il sacrificio o che l’hanno
costituito, e, con loro, l’ultima traccia della violenza fondatrice sparisce.
Solo allora ci si trova in presenza della festa in senso moderno [54].
Analizziamo ora il secondo punto del rituale: la preparazione sacrificale, la creazione ad hoc di una vittima sacrificale. Certamente tutte le comunità umane, per Girard, hanno sviluppato in antichità sistemi sacrificali differenti gli uni dagli altri - che non tratteremo nella loro pluralità – poiché concepiti secondo modelli mai identici, ma essenzialmente analoghi. Abbiamo visto che il rituale festivo terminava con l’immolazione di una vittima. Ma con quali criteri viene scelta questa vittima rituale? La vittima rituale, per Girard, deve esser resa il più possibile simile alla vittima originaria, e deve esser resa colpevole delle colpe mitiche, le colpe attribuite alla vittima originaria, le colpe che secondo la mentalità primitiva creavano violenza, il disordine, l’indifferenziazione. Inoltre:
Bisogna che la vittima non sia né troppo né troppo poco estranea a questa stessa comunità [55].
Se fosse troppo estranea, non avrebbe alcun legame con la comunità e quindi non ci sarebbe alcun beneficio dalla sua uccisione. Se appartenesse in tutto e per tutto ad essa, non interromperebbe la violenza, ma la alimenterebbe tramite lo scatenarsi delle faide:
Ora si comprende perché le vittime rituali
siano quasi sempre prese da categorie non direttamente esterne, bensì marginali,
schiavi, bambini, bestiame, ecc. [56]
Girard ammette, come per il mito, una progressiva evoluzione del rituale: dai sacrifici umani, il rito tende progressivamente a passare ai sacrifici animali, la così detta “sostituzione sacrificale”. Girard però spiega che per la mentalità primitiva, un sacrificio umano è essenzialmente identico ad uno animale. In qualunque caso però avviene che l’estraneità della vittima alla comunità è incarnata nella parte “mostruosa” di quella, l’interno nella parte positiva. Torna qui la stessa ambivalenza incontrata nel mostro/eroe mitico.
A titolo di esempio, analizziamo un caso di preparazione sacrificale, attraverso la descrizione del cannibalismo rituale dei Tupinamba, un popolo situato sulla costa nord-ovest del Brasile:
Il cannibalismo propriamente rituale è rivolto solo ai nemici riportati vivi al villaggio. Questi prigionieri passeranno lunghi mesi, talvolta degli anni, nell’intimità di coloro che finiranno per divorarli. Parteciperanno alle loro attività, si inseriscono nella loro vita quotidiana, sposano una delle loro donne; intessono, insomma, con i loro sacrificatori […] legami quasi identici a quelli che uniscono questi ultimi fra loro. Il prigioniero è fatto segno di un trattamento duplice, contraddittorio; talvolta è oggetto di rispetto e perfino di venerazione. I suoi favori sessuali sono ricercati. In altri momenti lo si insulta, lo si copre di disprezzo, subisce violenze. Un po’ prima della data fissata per la sua morte, si incoraggia ritualmente l’evasione del prigioniero. Lo sventurato è ben presto riacciuffato e, per la prima volta, gli si mette una pesante fune alle caviglie. Il suo padrone smette di nutrirlo. Di conseguenza, doveva rubare cibo […] aveva licenza di abbattere, di colpire, di rubare polli, oche e altre cose, e fare tutto quel che di peggio poteva vendicare la propria morte senza che nessuno glielo impedisse. Vengono, insomma, incoraggiate le azioni illegali della futura vittima; la si consacra alla trasgressione. La maggior parte degli osservatori è d’accordo nel riconoscere, a questa stadio, che lo scopo dell’impresa è la metamorfosi del prigioniero in capro espiatorio [57].
La vittima, come s’è visto, è preparata ad essere il più possibile simile all’eroe mitologico originario, alla prima vittima trasfigurata nel mito, incarnandone la sua potenza malefica (i crimini, le accuse mitiche, perciò la sua mostruosità morale) e la sua valenza benefica, divina, regale. La vittima Tupinamba infatti vanta per un periodo onori regali. Per Girard, infatti, la
monarchia è un’istituzione di origine sacrificale [58]. Il re non è nient’altro che la vittima che deve essere immolata, come si vede nel caso dell’Edipo mitico: re di Tebe, egli diventa capro espiatorio “colpevole” della città stessa.
Secondo Girard, funzioni analoghe al capro espiatorio, in ogni parte del mondo, avrebbero le vittime sacrificali delle culture più disparate; tracce di esso sussisterebbero anche nelle istituzioni dell’antica Grecia come ad es. il pharmakon, che si conservava anche nell’Atene di Pericle. Esso era un individuo emarginato che si offriva per la guarigione di tutti, guadagnandosi così un anno di vita a spese della comunità. Trascorso quell’anno, lo si faceva camminare attorno alla città con solenni esecrazioni affinché tutte le colpe della comunità ricadessero su di lui. In momenti cruciali (malattie, guerre etc.) poteva essere immolato. Il temine pharmakon esprime tutta l’ambivalenza della vittima: significa “rimedio” ma significa anche “veleno”.
Tutti i riti, per Girard, hanno un’origine sacrificale. Molti osservatori hanno constatato come nelle società esclusivamente rituali le sequenze del rito e del sacrificio esercitino, fino ad un certo punto, il ruolo che più tardi spetterà a tutte le istituzioni che siamo abituati a definire secondo la loro funzione, concepita in termini razionali. Un esempio può essere sufficiente, ed è quello dei sistemi educativi. Nel mondo arcaico essi non esistevano, ma erano chiaramente prefigurati dai riti cosiddetti di passaggio o di iniziazione. I giovani non entravano di soppiatto nelle culture cui appartenevano, al contrario questo avveniva per mezzo di procedure “dolorose”. In una prima fase, quella che riproduceva la crisi, i giovani iniziandi in qualche modo morivano alla loro infanzia, e resuscitavano in una seconda fase, da cui uscivano ormai capaci di occupare il posto che loro spettava nel mondo degli adulti. Si vede chiaramente in questa morte una provvisoria conferma dell’aspetto sacrificale del processo iniziatico. Per Girard è evidente che le istituzioni moderne abbiano sostituito i riti dopo una lunga coesistenza. Tutto lascia pensare cioè che i riti sacrificali vengano per primi in ogni ambito della cultura e lungo l’intera storia dell’umanità. Vi sono riti di esecuzione capitale, riti di morte e nascita, riti matrimoniali, riti di caccia e di pesca nelle società dedite a tali attività, riti agricoli nelle società che praticano l’agricoltura, e così via. Quelle che chiamiamo “istituzioni culturali”, per Girard risalgono in origine a comportamenti rituali che si sono così levigate da perdere ogni connotazione religiosa, e che un tempo corrispondevano al tipo di crisi che erano destinati a risolvere. A forza di venir ripetuti i rituali si modificano, trasformandosi in usanze apparentemente determinate dalla sola religione. I riti giungono sempre a proposito ovunque capiti una crisi, e per ottime ragioni. I sacrifici non sono altro, all’inizio, che la risoluzione spontanea, per mezzo della violenza unanime, di tutte le crisi che si presentano all’improvviso nell’esistenza della collettività. In tali crisi rientravano non solo le discordie mimetiche, ma la morte e la nascita, i cambi di stagione, le carestie, i disastri d’ogni tipo e mille altre cose ancora che, a torto o a ragione, allarmavano i popoli primitivi, ed era sempre tramite i sacrifici che le comunità cercavano di mettere a tacere le loro ansie.
Riamane ora solo da approfondire l’origine dei divieti. Abbiamo già accennato al fatto che l’uccisione primordiale funge da contromodello: non bisogna ripetere ciò che ha fatto questo eroe/mostro/vittima primordiale. Per Girard, lo scopo del divieto è essenzialmente quello di evitare la crisi mimetica, l’indifferenziazione violenta che ivi si scatena.
Nelle società primitive diventa impuro, vietato, tutto ciò che rimanda: alla morte, al cadavere, al sangue, al sesso, all’incesto, alla malattia. Perché avviene questo? Secondo Girard, tutti questi elementi rimandano allo scatenarsi della violenza ed hanno delle affinità con essa. La violenza si diffonde mimeticamente come un’epidemia, una malattia (non a caso la crisi mimetica tebana è indicata come un’epidemia di peste) ma è legata anche al sesso, il quale provoca innumerevoli rivalità all’interno del gruppo. Se non ci fosse il tabù universale dell’incesto, la violenza minaccerebbe lo stesso nucleo familiare (è questa una teoria che Girard prende in prestito da Malinowski). Il sangue non è altro che la conseguenza di una violenza (anche il sangue mestruale, tabù diffusissimo nelle popolazioni antiche, è legato alla violenza), il cadavere simil modo è la conseguenza immediata di un’uccisione. La morte è per Girard la peggiore violenza che possa subire un essere vivente; è quindi estremamente malefica; isolando il morto, bandendolo, rendendolo tabù, si celebrano riti funebri che mirano alla purificazione, all’espulsione della violenza malefica, miti analoghi a quelli che abbiamo già individuato. Allo stesso modo si possono spiegare le impurità rituali. Durante le iniziazioni infatti, gli iniziandi sono banditi dalla comunità, schivati, reclusi, quasi che il loro contatto fosse malevolo. Essi infatti incarnano le vittima originaria, malevola e mostruosa.
In sintesi, tutti i divieti sono ricondotti al capro espiatorio e risalgono alla medesima funzione:
I divieti hanno una funzione primordiale; riservano al centro delle comunità umane una zona protetta, un minimo di non-violenza assolutamente indispensabile alle funzioni essenziali [59].
Senza questo tremendo “pedagogo” innocente, il capro espiatorio, l’uomo non avrebbe di certo rinunciato alla violenza ed alle sue disgreganti conseguenze, come non avrebbe mai rinunciato alle femmine più vicine e disponibili: senza di esso, l’uomo non sarebbe mai potuto sopravvivere a se stesso.
II
La particolarità della
religione giudaico-cristiana
Girard è essenzialmente uno scrittore cristiano, e potremmo dire che elabora, specie negli ultimi lavori, una “nuova tomistica”, nell’indicare una “via” estremamente razionale per comprendere il Dio ebraico-cristiano e la verità antropologica che Egli rivela all’uomo:
La nozione evangelica di rivelazione non è
una illusione o una frode, ma corrisponde a una formidabile realtà antropologica
[60].
L’implicazione teologica di questa riscrittura del rapporto Dio-uomo è enorme: diversi teologi se ne sono già accorti e lo stesso Girard collabora con alcuni di essi [61]. Questa implicazione è intimamente legata al ruolo fondamentale della religione giudaico-cristiana [62] nella teoria girardiana. Per lo studioso francese, la differenza lampante fra i testi sacri di questa religione ed il mito è che i primi descrivono l’innocenza della vittima ed il processo ingiusto che porta alla sua immolazione, il secondo tende continuamente ad indicarne la colpevolezza, a giustificarne il linciaggio, occultando la violenza mimetica umana. Sia i testi biblici, sia la mitologia mondiale, si fondano su uno stesso principio strutturante: quello del capro espiatorio. Entrambi sono espressioni dell’evento che abbiamo illustrato nel primo capitolo, il meccanismo mimetico ed il suo epilogo, l’uccisione della vittima. Però si può raccontare lo stesso evento in due maniere differenti: sia come lo trasfigurano gli assassini, sia come lo descrivono le vittime innocenti. La Bibbia, per Girard, è il primo testo a dare spazio alla verità della vittima, a darle finalmente voce per scoprire come sono andate effettivamente le cose. Vedremo che nonostante l’Antico Testamento contenga ricadute nella lettura persecutoria, lettura che tende costantemente a nascondere, misconoscere e motivare l’ingiusto linciaggio verso la vittima, esso possieda comunque una intrinseca evoluzione orientata allo svelamento di questa antica menzogna, verso la rivelazione della natura umana mimetica e perciò violenta. I Vangeli, straordinario epilogo della tradizione ebraica, in particolare, svelano e raccontano con lucidità il meccanismo vittimario per quello che realmente è: una ingiustizia commessa contro una vittima totalmente innocente, Gesù di Nazaret. La stessa violenza persecutoria è rappresentata anche nei testi dell’Antico Testamento: le somiglianze tra le due parti della Bibbia cristiana non provengono da altro, quindi, che dalla rappresentazione del medesimo meccanismo. Il mondo moderno e contemporaneo, per Girard, deve la sua “attenzione” verso la vittima non al razionalismo, bensì all’epifania religiosa giudaico-cristiana. Essa per Girard è essenzialmente e senza mezzi termini una “rivelazione” anche nel senso metafisico della parola: infatti, per renderci conto della violenza dell’uomo e dell’innocenza della vittima, per svelare e quindi annullare, interrompere questo “meccanismo” che è all’origine del sacro come della cultura umana, per Girard era indispensabile un intervento esterno alla comunità umana. Girard è anche più specifico nel dare un significato al termine “rivelazione”:
Sotto il profilo antropologico io definisco
rivelazione la rappresentazione veritiera di ciò che non era mai stato
rappresentato sino in fondo, o che era stato rappresentato falsamente: il tutti
contro uno mimetico, il meccanismo vittimario, preceduto dalle sue cause
iniziali, gli scandali interindividuali [63].
Nel monoteismo giudaico-cristiano in particolare avviene che
Il Dio unico è quello che rimprovera agli
uomini la loro violenza provando pietà per le loro vittime, è quello che
sostituisce al sacrificio del primogenito l’immolazione di un animale e che, in
una fase successiva, critica anche i sacrifici animali [64].
Allo stesso tempo, Girard definisce una sorta di storia universale della religione, nella quale Cristo rappresenta l’apice di questa “pedagogia divina”:
Mi piacerebbe scrivere un libro che fosse
l’interpretazione totalmente cristiana della storia della religione. Quello
sarebbe davvero la storia del sacrificio. Dimostrerebbe che le religioni
arcaiche sono state le prime vere educatrici dell’umanità, che l’hanno condotta
lontano dalla violenza arcaica. Dopo di che Dio si fa vittima per liberare
l’uomo dall’illusione del Dio violento, che deve essere sostituito in favore
della conoscenza che Cristo ha di suo Padre. Si possono leggere le religioni
arcaiche come uno dei primi passi della rivelazione progressiva che culmina con
la venuta di Cristo [65].
A questo punto, prima di passare all’analisi del testo biblico, una domanda è legittima: solo la religione giudaico-cristiana destruttura la violenza, il meccanismo vittimario, il sacrificio? Girard si sofferma in diverse opere su questo problema, affermando che vi è una “verità” anche nella ragione, analizzando brevemente alcuni esempi antivittimari classici come Antigone e Socrate, dei casi comunque sporadici e senza un seguito. Ne L’antica via degli empi si sofferma anche su le Eumenidi di Eschilo, dove avviene la trasformazione delle Erinni in divinità della pace. La violenza per Girard storicamente tende a trasformarsi, a perpetuarsi in forme
meno selvagge, più adatte alle circostanze
storiche in un universo rinnovato da forme giudiziarie più efficaci che
garantiscono maggior equilibrio all’interno della comunità [66].
Tuttavia anche in quest’operazione rimane la totale indifferenza verso la vittima; l’attenzione è costante verso l’ordine pubblico e la ragion di stato:
La perspicacia riguardo alla violenza fondatrice è la stessa [tra Antico Testamento e Grecia], ma nei Greci è sempre la comunità, mai la singola vittima, ad avere la meglio […]. Solo la Bibbia menziona la vittima in quanto tale. Quasi non si parla d’altro.
Ne Il sacrificio, Girard rileva, inoltre, che le Upanishad e Budda rappresentano un’evoluzione antisacrificale dei precedenti Brāhmana, ma non sviluppa ulteriormente questa determinante questione ed i possibili esiti, che potrebbero fargli rivalutare la centralità, nella sua teoria, del fenomeno giudaico-cristiano.
Ma procediamo per ordine. Nel prossimo capitolo cominceremo a mostrare le impressionanti somiglianze strutturali fra mito e Bibbia. Illustreremo come il principio strutturante del capro espiatorio oltre a fondare il sacro universale abbia fondato i testi biblici, con la differenza che i secondi acquisiscono progressivamente una consapevolezza di tale fenomeno, fino ad arrivare alla rappresentazione fedele di esso, perciò alla sua denuncia. Nel terzo capitolo analizzeremo l’Antico Testamento, nel quarto capitolo, il Nuovo. Mostreremo quindi le differenze ed i diversi scopi dei testi biblici, che non occultano l’innocenza della vittima e riescono a scorgere la vera motivazione che ha spinto il gruppo alla violenza. Leggeremo fra le righe il grido di denuncia che parte da questi testi, che danno finalmente voce alla vittima:
Vi sono dei miti, certo, che mettono la
sordina alla colpevolezza delle vittime, ma non ve n’è alcuno, in compenso, che
incrimini le comunità persecutrici [67].
Gli unici testi che fanno eccezione a questa ferrea regola, per Girard, sono appunto quelli della tradizione giudaico-cristiana.
III
Ermeneutica biblica. L’
Antico Testamento
[68]
Poiché voglio l’amore e non il sacrifico, la conoscenza
di Dio più che gli olocausti (Osea
6,6)
In questa analisi ci soffermeremo brevemente su alcuni dei principali testi biblici presi in esame da René Girard nel corso dei suoi vari lavori. L’Antico Testamento contiene, secondo lo studioso francese, la trasfigurazione mitologica di tutti i momenti precedentemente analizzati: crisi mimetica, vittimizzazione ed uccisione ( l’uccisione è spesso rappresentata nei testi come una espulsione collettiva). Dai momenti del meccanismo vittimario contenuti nell’Antico Testamento è però esclusa la divinizzazione della vittima. Anche se l’idolatria fu un “peccato” in cui Israele cadde spesso, l’ortodossia ebraica è sempre stata rigidamente monoteista, impedendo il transfert di divinizzazione. La vittimizzazione invece è ben presente ed è individuata tramite la presenza di residui di accuse mitiche, nonché dall’ aspetto fisico di determinate figure profetiche. All’uccisione, segue anche lo stabilirsi di un codice comportamentale, appunto la nascita dei divieti, che nell’Antico Testamento corrisponde ai libri: Esodo (parte di esso), Levitico, Numeri e Deuteronomio. Il tutto è in piena corrispondenza con la teoria di Girard che vede nei divieti una guida per evitare la crisi mimetica che ha generato l’omicidio e nei rituali sacrificali un tentativo di riproporre la stessa uccisione che ha provocato la momentanea salvezza. Assieme a ciò, noteremo la particolare riflessione ebraica su tali rappresentazioni, il meccanismo vittimario in cui Israele stesso fu coinvolto, sia nel ruolo di vittima sia in quello di carnefice. Jhwh guida l’evoluzione ebraica progressivamente contro ogni sacrificio. Fin dal principio, il Dio dell’Antico Testamento incarna la violenza collettiva della folla mimetica ma tende continuamente a svincolarsi da essa, rifacendosi ad una ortodossia ebraica che vede in Dio il custode della vita contro ogni sacrificio ed ogni vittimizzazione. Illustreremo la tensione continua del tentativo tutto ebraico di dissociare la violenza collettiva dalla rappresentazione teologica, svelando la causa della violenza collettiva progressivamente intuita: il mimetismo. Il tema del desiderio e della gelosia infatti traspare in tutti i testi biblici. Esso rappresenta un’importante intuizione ebraica del meccanismo mimetico e mostra il tentativo di rendere sempre meno evidente l’ambivalenza di Jhwh. La storia di Giuseppe del Pentateuco è il punto più alto di questa tendenza. Il periodo profetico di Israele invece rappresenta il tentativo di svincolarsi da ogni altro residuo sacrificale, sia nel popolo che in Dio, indicando, grazie ai Salmi ed al libro di Giobbe, l’innocenza della vittima uccisa.
a) Pentateuco e libri storici
La parte più antica del canone biblico (sia ebraico che cristiano), il Pentateuco, mostra, secondo Girard, quanto i redattori abbiano adattato e rimaneggiato una mitologia preesistente allo spirito loro proprio: ciò che emerge è una particolare sensibilità che mostra senza mistificazioni i rapporti umani dominati dalla violenza e dall’uccisione della vittima innocente; inoltre, il Pentateuco illustra il meccanismo vittimario, o tracce di esso, relativo alla storia del popolo ebraico, una storia perciò parzialmente analoga a quella di altri popoli dell’antichità. Tale meccanismo sarebbe alla base della trasfigurazione mitologica dei testi presi in esame:
In tutte le grandi scene della Genesi e dell’Esodo, esiste un tema o un semi-tema dell’espulsione o dell’assassinio fondatore [69].
Il mito di Adamo ed Eva (Gn 1-3,24) è emblematico per la rappresentazione violenta di Jhwh. In esso è posto il rapporto uomo-Dio in termini di espulsione vittimaria. Dio in principio espelle l’umanità dall’Eden, assumendosi la violenza: quest’atto violento genera la cultura umana (vedremo come questa espulsione sia completamente invertita nel Prologo del Vangelo di Giovanni, in cui è l’uomo che espelle Dio). Fra gli altri temi, in questo ricchissimo libro compare quello dell’invidia e del desiderio, fondamentale nella teoria mimetica girardiana, personificati dal serpente e rappresentati dal comportamento di Eva. Girard vi indica la sua concezione di “peccato originale”:
Il peccato originale è il cattivo uso della
mimesi [la mediazione interna] , e il
meccanismo mimetico è la conseguenza del peccato originale a livello collettivo
[70].
L’episodio di Caino e Abele (Gn 4,1-25) è significativo per motivi simili. Vi si ritrova il tema mitologico della lotta tra fratelli [71], l’invidia, l’uccisione di uno dei due (il minore, il più debole. Abel proviene da un termine semitico che significa soffio, alito), la fondazione della civiltà in seguito all’omicidio; insomma, tutto il meccanismo mimetico. In questo testo, assieme ad altri miti greci, è contenuta l’intuizione del processo “sostitutivo” della vittima [72]. Caino cioè sacrifica il fratello poiché ha offerto a Dio frutti della terra anziché un animale, cosa che invece ha fatto Abele. Caino perciò sfoga la sua violenza sul fratello poiché non ha ancora sparso del sangue. Le particolarità di questo racconto rispetto ad un altro mito di fondazione, come quello di Romolo e Remo, sono evidentissime:
L’episodio di Noè e del diluvio universale (Gen 6 – 9,28) rappresenta invece una trasfigurazione vittimaria meno evoluta. Noè rappresenta il “tutti contro uno” della comunità in preda alla crisi mimetica. Egli appare l’espulso ma anche il nuovo fondatore del genere umano. Anche nel racconto biblico di Noè si legge una riscrittura della colpa mitica attribuita al fondatore, l’incesto, mediante il vino inebriante offertogli dai figli una volta sbarcato dall’arca. Tutto ciò appare come un tentativo evidente del redattore di eliminare l’accusa vittimaria, o quanto meno, mitigarla, attribuendogli l’involontarietà del gesto.
L’episodio di Sodoma e Gomorra (Gen 18,16-19,38) è un altro evidente mito d’espulsione, in cui si conservano tracce della crisi mimetica che l’ha scatenata; la crisi è trasfigurata in elementi sessuali. Vi si legge l’esplicita condanna delle due città da parte di Dio (nonostante la sua altrettanto chiara volontà di salvarle, nel caso vi avesse trovato almeno dieci giusti). Lot, con le sue due figlie e la moglie, è espulso dalla città (è opportuno notare che secondo la Genesi Lot è uno straniero, proveniente da Ur, ed insediatosi a Sodoma). In questo caso, è Dio a salvare la vittima ed a punire i linciatori. Tracce dell’accusa mitica sono contenute verso la fine del mito: le figlie ubriacano loro padre e copulano con lui. Come nel caso di Noè, vi è l’intento di giustificare il fondatore.
Con la trasfigurazione mitologica di Mosè (Es, 1-18,27) appare uno schema simile al mito delle due città: vi è un evidente ritorno dei momenti misconosciuti, e non rivelati per la loro tremenda realtà, del meccanismo vittimario. Vi figurano diverse caratteristiche del ciclo mimetico già precedentemente analizzate. Innanzitutto la figura di Mosè: è un egiziano, quindi uno straniero, un non ebreo, ed è balbuziente (entrambi sono comuni segni vittimari). Nel racconto è parzialmente responsabile delle piaghe d’Egitto (infatti è uno strumento della volontà di Jhwh), segni inequivocabili di una crisi mimetica. Freud inoltre ci ricorda una “leggenda” secondo la quale Mosè sarebbe stato linciato dagli Ebrei. Lo stesso testo biblico, infatti, contiene alcuni indizi relativi a tale evento (cfr. Nm 14,2-10). Nel testo dell’Esodo però avviene anche un’altra espulsione, meno occultata della prima: quella dello stesso popolo ebraico. Esso funge da vittima [73], da capro espiatorio per lo stesso popolo egiziano (la morte dei primogeniti egiziani è fatta dipendere dal Dio degli Ebrei). Mosè inoltre, come ogni fondatore mitico, diventa il legislatore del proprio popolo.
Superiore quanto a descrizione e denuncia del meccanismo mimetico è la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli (Gen 37 – 50,26), che rappresenta uno sviluppo molto interessante della tradizione ebraica: è uno straordinario racconto biblico affrontato a più riprese da Girard. Il testo, oltre a differenziarsi radicalmente dagli altri miti, batte quanto a profondità di analisi sull’uomo anche gli altri racconti del Pentateuco. L’antico redattore condanna senza mezzi termini il linciaggio e rappresenta impeccabilmente l’innocenza della vittima. Il racconto addirittura rovescia i ruoli: Giuseppe diventa l’unico innocente all’interno della comunità colpevole (non a caso per l’esegesi allegorica d’ogni tempo, Giuseppe è sempre stato considerato come figura Christi). Tutte le accuse mitiche che giustificano comunemente i linciatori svaniscono. Al contrario, il racconto indaga la ragione del comportamento violento dei fratelli, e cioè l’invidia provata da essi per lui, l’invidia verso le simpatie che attrae. Svelare l’invidia come motore della violenza e della rivalità equivale, secondo Girard, ad aver scoperto il meccanismo vittimario [74]. Inoltre: Giuseppe non è visto come il responsabile dei sette anni di carestia dell’Egitto, come ad esempio accade per la “peste” tebana, di cui Edipo diviene il capro espiatorio. L’epilogo della storia biblica è oltremodo sconcertante rispetto alla mentalità mitica cui si oppone: Giuda, uno dei fratelli, si pente per quello che ha fatto fino ad offrirsi per la salvezza del fratello minore, Beniamino. Il racconto indica ciò che debba essere il vero “sacrificio”, quello gradito a Dio, e cioè la volontà di salvare un fratello anche a costo della propria vita. La vicenda rappresenta nient’altro che il rifiuto sistematico delle espulsioni sulle quali si basa la mitologia e la mentalità pagana, ed apre la strada ad una nuova epoca, incarnata dalla rivelazione di Cristo.
I libri di Levitico, Numeri e Deuteronomio, contengono divieti, norme, leggi, rituali e prescrizioni sull’impurità. L’origine e lo scopo di essi non sono dissimili dallo schema analizzato nella trattazione generale del primo capitolo di questo lavoro. Le particolarità però emergono anche qui. Girard si sofferma sui dieci comandamenti. Il primo vieta di venerare altri dei all’infuori di Jhwh. Il monoteismo ebraico, per sua natura, impedisce altre divinizzazioni mitiche: Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri déi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a quelle cose e non le servirai [75]. Dal sesto al nono, i comandamenti proibiscono le violenze più gravi: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo [76]. Il decimo è diverso dai precedenti: Non desiderare la casa del tuo prossimo, né la sua schiava, né il suo schiavo, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo [77]. Girard fa notare che:
[Il decimo comandamento] contrasta con quelli che lo precedono, sia
per la lunghezza sia per l’argomento. Anziché proibire un’azione, esso proibisce
un desiderio [78].
Girard spiega che il termine ebraico usato per “desiderare” è lo stesso
che compare nei riguardi di Eva ed il frutto proibito. Questa sarebbe un’ intuizione fenomenale sul pericolo che il desiderio mimetico
rappresenta per il gruppo umano [79].
Oltre le leggi, i divieti e le prescrizioni, rituali e non (fra cui la lapidazione e lo stesso rito del capro espiatorio), il Levitico contiene una straordinaria esortazione molto superiore alle altre, che sarà ripresa da Cristo: Amerai il prossimo tuo come te stesso [80]. Essa è infinitamente più efficace anche degli stessi divieti del desiderio mimetico.
b) Libri sapienziali e
poetici
Girard si sofferma in maniera compiuta sull’episodio di Giobbe, a cui dedica un intero studio [81]. È un racconto biblico molto particolare, in cui Giobbe appare il capo espiatorio del suo popolo. Le accuse sono personificate da quattro suoi “amici”, che lo fanno apparire il responsabile dei guai accadutigli, sciagure infertegli da Jhwh per i suoi peccati e le sue mancanze. Fino alla fine, il re Giobbe, caduto in disgrazia (esattamente come Edipo), professa davanti agli uomini la sua innocenza, fino ad invocare il suo difensore, il suo vero Dio, che non è il dio violento e vendicativo dei suoi “amici”: Non c’è violenza nelle mie mani e pura è stata la mia preghiera. O terra, non coprire il mio sangue e non abbia sosta il mio grido! Ma ecco, fin d’ora il mio testimone è nei cieli, il mio mallevatore è lassù: miei avvocati presso Dio sono i miei lamenti, mentre davanti a lui sparge lacrime il mio occhio, perché difenda l’uomo davanti a Dio, come un mortale fa con un suo amico [82]. Traspare qui tutta una concezione ripresa e portata a compimento da Cristo. Il termine mallevatore, difensore, traduce il termine ebraico goel [83], che nel Vangelo giovanneo diventa parakletos, lo Spirito Santo, che si oppone a satan, termine ebraico che indica “colui che accusa”, tradotto da Giovanni come diabolos, e cioè “diffamatore”, “calunniatore”. Proprio nel testo di Giobbe compare per la prima volta nella Bibbia il termine satan. Giobbe respinge fin dall’inizio il dio violento e accusatore dei suoi “amici”. Ritroviamo fin dall’inizio il tentativo di Giobbe di dissociare due entità per la mitologia inseparabili, spesso anche nella stessa comunità ebraica: dio e comunità violenta, in questo caso alleati contro di lui. Questo processo, come vedremo, verrà portato a termine da Cristo:
[Giobbe] si ribella, avanza a tentoni verso qualcosa
di diverso dal dio violento, senza peraltro arrivare ad una vera e propria
padronanza del suo progetto [84].
Nelle sue analisi dei libri sapienziali, Girard affronta più volte anche
i Salmi. Lo stesso Gesù, nei vangeli,
si esprimerà con citazioni tratte
da essi: La pietra scartata dai
costruttori è divenuta testata d’angolo; ecco l’opera del Signore: una
meraviglia ai nostri occhi [85].
Non occorre riflettere molto per rendersi
conto che la causa della
stupefacente somiglianza fra i discorsi di Giobbe e i cosiddetti Salmi
penitenziali va ricercata in una prospettiva comune ad entrambi: quella della
vittima circondata da molti nemici [86].
Le vittime dei Salmi, come i Vangeli riguardo Cristo, molto spesso affermano: Mi hanno odiato senza ragione. È un’espressione che possiamo trovare nei salmi 109,3 - 7,4 - 35,7 - 35,19 - 69,5 - 78 - 119,161 e nel libro delle Lamentazioni (Lam 3,52). Il libro di Giobbe, per Girard, non è nient’altro che uno sviluppo di un Salmo. Accanto ai salmi narrati dal punto di vista della vittima, ve ne sono alcuni (una minoranza) scritti dal punto di vista dei persecutori, di cui Salmo 73 è un chiaro esempio. Essi rappresentano l’intervento di Dio come risolutore contro la vittima designata. La vittima innocente è punita da Jhwh per le sue colpe: il tutto è una chiara trasfigurazione illusoria della violenza collettiva, che viene attribuita a Jhwh.
c) Libri profetici
Nelle raccolte profetiche, per Girard avviene che:
Non si ha più a che fare con racconti mitici o leggendari, ma con esortazioni, minacce, predizioni sull’avvenire del popolo eletto. […] Il profetismo è una risposta singolare ad una vasta crisi della società ebraica, certo aggravata dai grandi imperi Assiri e Babilonesi che minacciano e distruggono i piccoli regni d’Israele e di Giuda, ma dai Profeti sempre interpretata come una crisi religiosa e culturale, un esaurimento del sistema sacrificale, una dissoluzione conflittuale dell’ordine tradizionale [87].
Una citazione del profeta Osea fondamentale per capire questo clima culturale verrà utilizzata dallo stesso Cristo: Misericordia io voglio, non sacrificio [88]. Al grottesco incremento delle immolazioni (spesso Israele, imitando le culture limitrofe, torna perfino ai sacrifici umani), ai rituali che diventano sempre più sterili e “farisaici”, profeti come Michea, Amos, Osea, Isaia, Geremia invitano alla conversione interiore e al ritorno della fedeltà a Dio: Con che cosa mi presenterò al Signore, mi prostrerò al Dio altissimo? Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà il Signore le migliaia di montoni e torrenti di olio a miriadi? Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato? Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio [89].
Come abbiamo visto, nei primi libri della Bibbia il meccanismo fondatore traspare qua e là in una miriade di testi, ma non è mai tematizzato realmente. Nel libro di Isaia, Girard individua nei “Canti del Servo di Jhwh” un gruppo di componimenti che lo rivelano, specie il quarto canto (cap. 53): oltre a denunciare l’innocenza del misterioso servo [90], ne svela la sua funzione “espiatoria” e la violenza ingiustificata dei persecutori. Contrariamente alla comune esegesi rabbinica, il v. 8 mostra chiaramente che questo personaggio non identifica Israele: Per l’iniquità del mio popolo fu percorso a morte [91]. Israele in questo caso è identificato come responsabile della violenza, persecutore, non come vittima. Il v. 4 mostra l’estraneità di Dio a questa violenza: Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percorso da Dio e umiliato [92]. Il v. 10 invece, unico nell’intero canto, contiene ancora tracce di violenza divina: Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori [93]. Per Girard:
Anche nei testi più avanzati come il quarto
canto del Servo, sussiste un’ambiguità per quanto concerne il ruolo di Jhwh. Se
la comunità umana ci è presentata, a più riprese, come responsabile della morte
della vittima, Dio stesso, in altri momenti, è presentato come il principale
autore della persecuzione […]. Non si
giunge mai nell’Antico Testamento ad una concezione della divinità completamente
estranea alla violenza [94].
Girard si sofferma brevemente anche sul libro di Giona [95]. Lo stesso Gesù Cristo parlerà di non offrire al popolo alcun segno, nient’altro che quello di Giona [96]:
Cos’è il segno di Giona? Il riferimento alla
balena di Matteo, non è molto illuminante; e bisogna preferirgli il silenzio di
Luca, con tutti gli esegeti. Ma su questo punto, niente ci impedisce di tentare
di rispondere meglio di Matteo alla domanda lasciata probabilmente dallo stesso
Gesù. E lo sappiamo già dalle prime righe. Durante una tempesta, la sorte
designa Giona come la vittima che i marinai getteranno in acqua per salvare la
nave in pericolo. Il segno di Giona designa, ancora una volta, la vittima
collettiva [97].
L’episodio di Susanna ed i Secchioni [98], per Girard, è un altro tipico esempio che conferma l’intuizione del meccanismo mimetico. La lapidazione ebraica, a differenza di processi più o meno spontanei dei periodi di crisi, è un’istituzione che risponde a precisi criteri. Daniele, in questo racconto, rompe l’unanimità mimetica della folla ispirata dalle accuse dei due spasimanti, che volevano abusare di Susanna. Il rifiuto di lei infatti aveva innescato un accrescimento del desiderio dei due, fino a diventare odio, calunnia. L’episodio inoltre, per Girard, svela che l’unità prodotta dal capro espiatorio è una falsa unità; essa sana i conflitti sorti all’interno della comunità per ragioni mimetiche.
IV
Ermeneutica biblica. Il Nuovo Testamento [99]
Da questo
conosciamo di essere in lui. Chi
dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è
comportato. (1Gv
2,6)
Prendete il
mio giogo sopra di voi ed imparate da me, che sono mite ed umile di cuore, e
troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce, il mio
carico leggero. (Mt
11,29-30)
a) Il messaggio di Gesù di
Nazaret
Amare Dio con
tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la forza e amare il prossimo come
se stesso val più di tutti gli olocausti ed i sacrifici. (Mc 12,33)
Possono i Vangeli avere una conoscenza dell’uomo superiore a quella di chi li interpreta, oggi, alle soglie del terzo millennio? A questa domanda apparentemente paradossale, Girard risponde di sì. La verità antropologica che traspare dai testi dei Vangeli sfugge ai lettori contemporanei come a tanti lettori del passato, anche cristiani.
Nel messaggio di Cristo si profila la distruzione della “antica via” sulla quale era fondato il sacro e l’ordine umano; ciò avviene tramite la denuncia di questo stesso sistema, il suo svelamento e la creazione di un nuovo corso: l’unica maniera con la quale l’uomo può controllare la sua violenza senza ricorrere ad altre vittime non è nient’altro che l’imitatio Christi. Gesù di Nazaret si propone nei Vangeli come il modello, l’unico vero modello da imitare, l’unica vera legge, il katécon che ritarda ed allontana la crisi mimetica e la violenza che ne scaturisce:
Rileggiamo il Discorso della Montagna e
vedremo che il significato e la portata del Regno di Dio sono perfettamente
chiari. Si tratta sempre di riconciliare i fratelli nemici, di porre termine
alla crisi mimetica mediante la rinuncia di tutti alla violenza. Al di fuori
dell’espulsione collettiva, riconciliatrice in quanto unanime, soltanto la
rinuncia incondizionata e, se necessario, unilaterale, alla violenza, può
mettere fine al rapporto fra doppi. Il Regno di Dio è l’eliminazione totale e
definitiva di qualsiasi vendetta e di ogni rappresaglia nei rapporti tra gli
uomini. Gesù fa di tutto questo, nella vita di tutti i giorni, un dovere
assoluto, un obbligo senza contropartita, che esclude ogni esigenza di
reciprocità [100].
La felicità annunciata da Gesù nel Discorso della Montagna è agli antipodi
di ciò che abitualmente si pensa: e gli uomini, infatti, normalmente pensano che
la violenza sia solo un parassita di cui è facile liberarsi, oppure, in ultima
analisi, un istinto che è inutile combattere. La violenza è invece una vera
schiavitù: è il sistema da sempre misconosciuto con il quale l’uomo si è sempre
autoingannato. Essa impone agli uomini una visione falsa non solo dei rapporti
fra loro, ma anche della stessa divinità. Il Dio di Gesù Cristo è al contrario
totalmente esente da ogni forma di violenza: il prologo di Giovanni inverte
significativamente l’espulsione vittimaria di Adamo e Eva: Giovanni si accorge
che è l’uomo colui che espelle Dio, è l’umanità a caricarsi della violenza: In principio [ Έν αρχη̃ ] era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il
Verbo era Dio [101]. L’inno di
Giovanni comincia con la traduzione greca delle prime due parole della Genesi. In lui era la vita e la vita era la luce
degli uomini; la luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno accolta
[102]. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per
mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i
suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto ha dato potere di
diventare figli di Dio [103]. Il Dio di Gesù, così come lo stesso
Cristo giovanneo che imita il Padre e lo rivela, è totalmente esente da ogni
violenza: è un dio non certo otiosus,
ma che è amore, la cui kenosis [104] culmina nell’incarnazione; è un
dio che non fa preferenze e che perciò fa
sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e
sopra gli ingiusti [105]. Non è
il responsabile delle malattie (lebbra, cecità, sterilità, ecc, cfr. Gv 9,3),
Gesù infatti non ignora quanto tali malattie e deformità fisiche abbiano da
sempre attratto il mimetismo violento delle comunità. Il Padre non è l’esecutore
delle sciagure e delle calamità che si abbattono sull’uomo (cfr. Lc 13,1-5), e
non si fa arbitro nelle dispute tra fratelli: Egli sa bene come funziona la
giustizia umana (cfr. Mt 20,20-28 e Mc 10,35-45). Gesù inoltre abolisce la
distinzione fra purità ed impurità rituale: l’uomo è ormai responsabile al punto
giusto da potersi liberare da tale distinzione, che se nelle culture primitive
era vitale al mantenimento dell’ordine sociale, ora diventa il pretesto per creare altre
vittime (cfr. Mc 7,9-23). La vera
purezza è quella interiore, che nasce dall’imitazione del Padre: Siate misericordiosi, come misericordioso è
il Padre vostro [106]. Inoltre: il Padre non è un dio che
assicura “prosperità” ai suoi eletti, ma al contrario, mette in guardia dalla
ricchezza, mammona, principale causa
d’idolatria, rivalità e gelosia fra gli uomini [107]. Il Padre non regna, ma regnerà,
solo ed esclusivamente se lo vorrà l’uomo; alcune frasi della preghiera
insegnata da Gesù sono emblematiche: Sia
santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in
cielo così in terra [108].
Attraverso coloro che lo imitano e che imitano il Padre, il Regno è già fra noi.
Il Regno è il seme lasciato da Gesù che il mondo non può espellere, anche se
tenta di farlo: Gesù vive come questo seme e testimonia la verità: In verità,
in verità vi dico: se il granello di frumento caduto in terra non muore,
rimane solo; ma se muore, produce molto frutto
[109].
La stessa concezione della nascita verginale di Gesù, per Girard, esprime
questa rivoluzione evangelica di uno Jhwh totalmente demitizzato e privato della
violenza arcaica; se ci si rivolge ai temi evangelici apparentemente più mitici,
come la nascita di Gesù, ci si rende conto del messaggio cristiano totalmente in
antitesi a quello pagano, quasi che i Vangeli vogliano svelare il segreto
nascosto e misconosciuto del sacro:
In molte
nascite mitiche, il dio si accoppia con una mortale per dare nascita ad un eroe.
Questi racconti sono sempre contrassegnati dalla violenza. Zeus piomba su
Semele, madre di Dionisio, come una bestia da preda su una vittima, e di fatto
la fulmina. La concezione divina somiglia sempre ad uno stupro […].
L’orgasmo che placa il dio costituisce una metafora della violenza collettiva
[…]. Tra coloro che sono implicati nella concezione verginale, l’Angelo,
la Vergine e l’Onnipotente, non si instaurano dei rapporti di violenza
[…]. L’assenza di ogni sessualità è l’assenza di quella mimesi violenta
che esprimono, nei miti, il desiderio e lo stupro da parte della divinità. È
l’assenza sempre di quell’ idolo rappresentato dal modello-ostacolo […].
L’assenza di qualsiasi elemento sessuale non ha nulla a che vedere con il
puritanesimo o con la rimozione, immaginati sul finire del diciannovesimo secolo
e degni, in verità, della bassa epoca che li ha generati [110].
b)
Skándalon
( σκάνδαλον )
E
mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi
predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani.
(
1Cor 1,22-23)
I Vangeli teorizzano mai la rivalità mimetica? Per Girard, tutta la
missione di Cristo si basa sull’offrire se stesso come vero modello contro il
mimetismo conflittuale, ciò che per lo studioso francese i Vangeli riassumono
con un termine, lo skándalon
[111]: E chi accoglie uno di
questi bambini in
nome mio, accoglie me. Chi invece scandalizza [ σκανδαλίση
] anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui
che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino e fosse gettato negli
abissi del mare. Guai al mondo per gli scandali! [112] In questo testo, data la
presenza dei bambini, il significato di skándalon
appare
evidente: è il modello-ostacolo, il mimetismo che crea rivalità e violenza. La
punizione che Gesù descrive in riferimento all’uomo che offre tale modello
ricorda il comune e tragico esito della crisi sacrificale in tante società
antiche: giustiziare la vittima gettandola da una scogliera o da una rupe, quasi
che Gesù voglia mettere in guardia dall’esito dello skándalon:
Ciò che
determina la forza di attrazione degli scandali è il numero e il prestigio di
coloro che ne vengono contagiati. I piccoli scandali hanno la tendenza a
fondersi con quelli più grandi e, a loro volta, i più grandi arrivano a
contaminarsi a vicenda, finché i più forti non assorbono quelli più deboli. Vi è
una concorrenza mimetica fra gli scandali, che prosegue fino al momento in cui
lo scandalo più polarizzante non rimane a dominare la scena. È in tale momento che tutta la comunità si
mobilita contro un solo individuo. Nella Passione questo individuo è Gesù. Ciò
spiega perché Gesù ricorra alla terminologia dello scandalo per indicare tutti
coloro che si polarizzano contro di lui. Egli esclama: Beato chi non si
scandalizzerà di me [113].
c)
Satàn ( שָׂטָן
)
E
gli spiriti lo scongiurarono: “Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi!”
Glielo permise. E gli spiriti immondi uscirono ed entrarono nei porci e il
branco si precipitò dal burrone nel mare. (Mc 5,12-13)
Il
termine skándalon
è molto legato a Satana, il principe di questo mondo [114]:
Come ho
scritto nel mio ultimo libro, Satana e skándalon sono
una sola cosa [115].
Quando Gesù, parlando di Pietro, annuncia per la prima volta la Passione,
associa i due termini: “Lungi da me, Satana! Tu mi sei di scandalo…” (Mt 16,23).
Nonostante siano la stessa cosa, però, i due termini hanno connotazioni
d’uso diverse: con skándalon si
pongono in rilievo i primi stadi del ciclo mimetico, la rivalità mimetica fra
gli individui, mentre Satana si riferisce all’intero meccanismo mimetico
[116].
Girard
aggiunge:
La grande
parabola dei vignaioli omicidi [117] mostra con
chiarezza il ciclo mimetico o satanico. Ogni volta che il proprietario della
vigna invia un messaggero ai vignaioli, l’evento scatena fra loro una crisi che
essi risolvono coalizzandosi tutti contro il messaggero ed espellendolo
all’unanimità. Ad ogni espulsione mimetica abbiamo il compiersi di un ciclo
mimetico. L’ultimo messaggero è il Figlio, espulso e assassinato nello stesso
modo di quelli inviati prima di lui [118].
Il termine Satana (dall’ebraico sàtan, accusatore,
comunemente usato nei Vangeli sinottici) è infatti reso da Giovanni come
diábolos
[119]:
Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle
mie parole, voi che avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del
padre vostro. Egli è stato omicida fin dal principio [ ανθρωποκτόνοσ ην απ’
αρχη̃ς ] e non ha perseverato nella verità,
perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è
menzognero e padre della menzogna [120].
Mai come in questo caso i concetti di assassinio, desiderio, e menzogna sono
così legati: l’antropologia evangelica per Girard mette in luce la funzione
diabolica – ovvero disgregatrice
– del mimetismo
conflittuale, ed allo stesso tempo il suo potere riconciliatore, simbolico
[121], di riaggregare la
comunità con l’omicidio collettivo.
Ma perché
Satana non si presenta come un principio impersonale, al modo degli scandali?
Questo avviene poiché egli designa la conseguenza principale dei meccanismi
vittimari, l’emergere di una falsa trascendenza e delle numerose divinità che la
rappresentano: Satana è sempre qualcuno [122].
Ecco la ragione per cui Paolo di Tarso dà del “satanico” alle divinità
pagane: Satana rimane un sistema ma è sempre un “qualcuno”, nato dal
transfert dell’omicidio collettivo. Il peccato originale dell’uomo
nient’altro è che questo omicidio; anche la teologia cristiana afferma che
Cristo ha liberato gli uomini dal peccato originale col “sacrificio” della
propria vita: tale peccato perciò altro non era che una uccisione. Matteo parla
di tutto il sangue innocente versato sulla terra, a cominciare dal sangue
del giusto Abele [123]. Luca parla esplicitamente del
sangue di tutti i profeti, versato sin dalla fondazione [ καταβολη̃ς
] del mondo, a cominciare dal sangue di Abele [124], dove kataboles ha
lo stesso significato che ha per Giovanni la parola arché. È
una lunga catena il cui ultimo anello è la Passione: si tratta sempre della
stessa struttura formata da uno stato di frenesia mimetica e dal conseguente
meccanismo vittimario. Cristo ci svela la violenza collettiva su se stesso,
affinché non vi siano più altre vittime. La predicazione di Gesù, per Girard, ed
il suo esempio, rompe l’unanimità satanica degli accusatori di ogni tempo.
Nell’affrontare l’episodio dei demoni di Gerasa, Marco è l’unico evangelista in
cui il demonio afferma: Mi chiamo Legione, perché siamo in molti [125]. In questo versetto, il netto
contrasto fra singolare e plurale diventa per Girard un chiaro segno
dell’identificazione del diavolo con la folla mimetica accusatrice. Rompere il
mimetismo violento significa creare divisioni nella violenza e nelle scelte di
comodo, creare un gruppo contestatario, “il piccolo resto” di profetica memoria,
che sappia imitare il Maestro: Non crediate che io sia venuto a portare la
pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma una spada. Sono venuto
infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla
suocera, e i nemici dell’uomo
saranno quelli della sua casa [126]. Tale rottura
dell’unanimità violenta è evidentissima nel ricco episodio della lapidazione
dell’adultera [127], da Girard
analizzato in diversi suoi lavori:
La prima
pietra non ha niente di retorico. Essa è la decisiva, perché è la prima da
scagliare. Ma qual è il motivo di questa difficoltà? Il motivo è che la prima
pietra è la sola a non avere modelli. Quando Gesù pronuncia la sua frase, la
prima pietra è l’ultimo ostacolo che impedisce la lapidazione. Attirando
l’attenzione su si essa, menzionandola esplicitamente, Gesù fa il possibile per
rinforzare l’ostacolo, per metterlo in risalto […].
Il primo individuo che rinuncia a lapidare la donna adultera se ne trascina
subito dietro un secondo, e così via. Alla fine è l’intero gruppo che, sotto il
modello di Gesù, abbandona il suo progetto di lapidazione […]. Non
riuscire a salvare una vittima minacciata di linciaggio, ritrovarsi da soli al
suo fianco, significa correre il rischio di fare la sua stessa fine: si tratta
di un principio valido per tutte le società arcaiche. I Vangeli ci dicono che
nel periodo precedente la crocifissione, Gesù sfugge a diversi tentativi di
lapidazione [128] […].
Prima di rispondere a coloro che gli domandavano un parere sull’obbligo di
lapidare la donna, come previsto dalla legge di Mosè, Gesù si china a terra e
scrive nella polvere con un dito. Non è allo scopo di scrivere - penso - che egli si china a terra, è perché egli
è chinato che si mette a scrivere. Gesù fa così per evitare lo sguardo di questi
uomini, i loro occhi iniettati di sangue. Se Gesù ricambiasse il loro sguardo,
questi uomini sovraeccitati, anziché interpretare il suo sguardo per quello che
è veramente, lo trasformerebbero in uno specchio della loro collera [129] […]. Gesù evita dunque
solo l’ombra di una provocazione [130].
In questo caso, Gesù funge letteralmente da Parakletos,
advocatus della vittima, il Goel che aspettava ed a cui si
rivolgeva Giobbe, che difende la vittima contro Satana, l’accusatore. Giovanni
fa di Gesù stesso il parakletos: Ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un
avvocato [ παράκλητον
] presso il Padre: Gesù Cristo giusto [131]. Cristo è il Parakletos
per eccellenza, che dopo la sua morte manderà un nuovo Parakletos,
appunto lo Spirito Santo: Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro
Paraclito [ άλλον παράκλητον ],
affinché sia per sempre con voi, lo Spirito di Verità [ τò πνευμα της
αληθείας ], che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce
[132].
d) La
Passione
Chiunque infatti fa il male, odia la
luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue
opere. (Gv
3,20)
La Passione di Cristo rappresenta il centro fondamentale del nostro
discorso. Gesù di Nazaret è il
capro espiatorio della crisi culturale-religiosa della Giudea di duemila anni
fa, una vittima innocente che svela e porta alla luce l’ombra che è in noi, la
nostra natura mimetica e violenta:
Se i Vangeli trattano dello stesso evento dei miti,
così ragionano gli etnologi, essi devono essere immancabilmente mitici. I nostri
amici hanno dimenticato un’unica cosa. Si può parlare dello stesso assassinio
senza parlarne allo stesso modo. Se ne può parlare come ne parlano gli assassini
e come ne parla non una vittima qualsiasi, ma quella vittima incomparabile che è
il Cristo dei Vangeli [133].
Girard spiega
che:
Sotto il profilo mimetico gli insegnamenti di Gesù si
riducono ad una sola cosa: evitare ogni forma di vendetta, usare misericordia al
posto del sacrificio. Ma Gesù vive in un mondo dove nessuno segue questi
precetti, e dove egli è il solo a seguirli fino alla fine. L’annuncio della
salvezza diventa perciò un annuncio di morte per lui, dal momento che più gli
uomini lo respingono e rifiutano di venirgli dietro, più essi si devono volgere
contro di lui. Tuttavia Gesù accetta questo, ed è proprio così che egli ci
salva, se noi lo volgiamo. Egli ci pone di fronte ad un dilemma [134], al dilemma per
eccellenza dell’uomo: o l’aperto, completo dono di sé ai propri fratelli [135], o il chiudersi ancora una
volta contro un capro espiatorio. Gesù è il capro espiatorio più arbitrario,
giacché egli è del tutto esente dalla violenza, ed è il meno arbitrario,
giacché egli è l’unico a sfidare il sistema della violenza [136].
Ecco dunque un nuovo criterio di selezione della vittima: colui che
denuncia il mimetismo violento, l’ingiustificata violenza, fa la stessa fine
delle vittime che vuole salvare; Gesù muore perché redime tutte le vittime della
storia, e perché rende responsabili di esse l’uomo di ogni tempo e nazione
(Abele infatti è padre di ogni nazione della terra, non solo degli Ebrei [137] ); Platone fa notare questa
strana legge del contrappasso ne La Repubblica: afferma che se davvero si
trovasse al mondo una persona giusta, essa sarebbe inopinatamente uccisa [138]. Come Gesù, ma senza la sua
consapevolezza né il suo impatto storico, Socrate diventa il capro espiatorio di
Atene poiché ne denuncia alcuni mali sociali. Ecco, alla luce di questi fatti,
come Girard definisce la concezione di peccato dei Vangeli:
Si può dire che il peccato è davvero originale, ma diventa
attuale solo a partire dal momento in cui il sapere della violenza è a
disposizione degli uomini [139].
Il peccato è la resistenza alla rivelazione
[140].
É quindi giunto il momento di comprendere la straordinaria similitudine
fra Antico e Nuovo Testamento, da sempre spiegata da alcuni detrattori del
fenomeno cristiano come un tentativo degli evangelisti di far coincidere i
testi, distorcendone la realtà:
Gli esegeti medievali non potevano sapere fino a che
punto avevano ragione di vedere nelle grandi figure dell’Antico Testamento delle
prefigurazioni e degli annunci del Cristo. Non potevano giustificare
un’intuizione che, in seguito, è stata respinta come pura farneticazione dalla
ricerca razionalistica e moderna, mentre in realtà, per quanto incompleta, essa
va molto al di là di tutto quello che la critica moderna ci ha mai proposto.
Solo alcuni autori, nella nostra epoca, come Paul Claudel e padre de Lubac,
hanno presentito che questo tipo di esegesi era la più ricca e la più efficace,
ma non sono riusciti, neppure loro, a giustificare scientificamente le loro
intuizioni. Questa giustificazione scientifica dell’intuizione religiosa
coincide con l’idea, suggerita dal prologo di Giovanni, che, per chiarire
l’intera Bibbia alla luce del Nuovo Testamento e rileggerla in una luce
veramente cristologica, bisogna riconoscere nel Verbo di verità il sapere della
vittima espiatoria sempre espulso dagli uomini. Finché questo riconoscimento non
avviene, la comprensione razionale del rapporto oggettivo che unisce i due
Testamenti resta impossibile [141].
La stessa struttura dei Vangeli, con l’ingresso di Gesù a Gerusalemme,
prima acclamato come un re e successivamente scambiato dalla stessa folla
mimetica al posto di Barabba, come un comune delinquente, potrebbero far pensare ad uno schema preso in prestito da altri
testi, come quelli di Edipo [142] o
di Giobbe; addirittura si potrebbe pensare alla celebrazione di un rituale
sacrificale, simile a quelli delle monarchie sacre africane. Girard è
categorico: si tratta di eventi
reali [143], che
manifestano il comportamento
mimetico della folla, al di là del fatto che la storicità dei Vangeli sia
documentata da reperti e testimonianze storiche.
Anche l’Eucaristia, sintesi di tutti gli aspetti della Passione di
Cristo, notoriamente indicata
etnologicamente come un revival di riti di smembramento, cannibalismo e
come una reminescenza dionisiaca, per Girard assume un nuovo significato, basato
sui primi ma diametralmente opposto ad essi, un nuovo e definitivo “simbolo” che
li demistifica, li redime, e li significa verso la vittima delle vittime, quella
che deve essere l’ultima delle vittime uccise e mangiate, Dio
stesso:
Nella Passione, la vittima è completamente innocente
e del tutto consapevole di quello che sta subendo: tutta la violenza dell’uomo è
portata alla luce, demistificata e perdonata da Cristo. La stessa cosa è vera
per l’Eucaristia. Nell’Eucaristia noi troviamo il sacrificio sanguinario del
sacro arcaico, il profondo desiderio umano di divorare lo stesso essere del
proprio nemico, il rituale cannibalico, e così via. Tutti gli aspetti della
storia violenta dell’uomo, a partire dai più arcaici e selvaggi, sono ripetuti e
redenti in un modo che dev’essere assolutamente considerato reale. L’Eucaristia
è sia la carne sia lo spirito, è ogni aspetto dell’uomo nella redenzione di
Cristo [144].
Girard stesso
aggiunge:
A quelli che sostengono che l’Eucaristia ha le proprie radici nel cannibalismo
arcaico dobbiamo dire “sì!” invece che “no!”. La vera storia dell’uomo è storia
religiosa, che muove i suoi passi dal cannibalismo primitivo. Il cannibalismo
primitivo è religione, e l’Eucaristia riassume questa storia dalla A alla Z
[145].
Come nell’Eucaristia, Gesù Cristo è colui che sostituisce, difende,
incarna tutte le vittime “fin dalla fondazione del mondo”, facendosi lui stesso
vittima. L’inizio della missione di Gesù parte con la lettura del rotolo del
profeta Isaia nella sinagoga di Nazaret: Lo Spirito del Signore è su di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato ad annunziare ai
poveri un lieto messaggio, per
proclamare ai prigionieri la liberazione, e ai ciechi la vista; per rimettere in
libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore [146]. L’opera di Dio è annuncio di
salvezza per i poveri e gli oppressi, le vittime d’ogni tempo. La sensibilità
moderna per gli ultimi la dobbiamo per Girard a questa particolare sostituzione:
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando mai ti abbiamo visto
affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo
assistito?” Ma egli rispose: “In verità ti dico: ogni volta che non avete fatto
queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me”
[147]. Gesù Cristo per
Girard è l’unico Dio delle vittime:
Dove sarà il Dio delle vittime, se in quel momento si
trova tra gli uomini? Ovviamente
non fra i persecutori – e allora bisogna che sia la vittima. Piuttosto che
infliggere la violenza, il Paraclito preferirà subirla. Il Cristo è il Dio delle
vittime anzitutto nel senso che ne condivide la sorte fino in fondo
[148].
L’opera di Gesù d'identificazione con le vittime è trasparente anche con
l’episodio della conversione di Paolo di Tarso, uccisore di cristiani: Saulo,
Saulo, perché mi perseguiti? [149] Da ciò nasce il profondo e
demistificante grido di denuncia della Passione contro il meccanismo vittimario,
di cui Cristo si fa il capro espiatorio: i Vangeli infatti presentano
Gesù come l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo [150]. L’agnello indica appunto
l’innocenza assoluta della vittima. La frase: Non trovo nessuna colpa in
quest’uomo [151], pronunciata da
un Pilato certo più lucido rispetto alla frenesia mimetica della folla, ma
comunque e sempre complice di essa, riassume questo simbolo immacolato
dell’agnello. Alla fine del suo racconto della Passione, Luca aggiunge la
seguente osservazione: E in quello stesso giorno, Erode e Pilato divennero
amici; in precedenza infatti si odiavano [152]:
Ecco come la commenta
Girard:
Perché prendersi la briga di segnalarci un dettaglio
privo di significato cristiano? Non bisogna in particolare supporre un interesse
per la situazione politica palestinese. Quello che chiaramente interessa
all’evangelista è […] l’effetto
pacificatore del capro espiatorio [153].
Nessuno è immune al mimetismo: Pietro, seguendo i persecutori, rinnega il
Maestro [154]; gli altri compagni si
nascondono. Perfino i due ladroni crocefissi ai lati di Gesù non fanno eccezione
al contagio:
Sotto il profilo antropologico, insomma, la croce è
il momento in cui i mille conflitti mimetici, i mille scandali, che durante la
crisi si scontravano violentemente, si coalizzano contro il solo Gesù
[155].
L’urlo dalla croce di Gesù: Eloi, Eloi, lemà sabachtàni! [156], esprime l’estraneità alla
violenza di Dio Padre; l’ignoranza di cui è preda la folla violenta è invece
tutta nell’espressione: Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno
[157].
A questo punto, una riflessione è spontanea: nell’analisi dell’Antico
Testamento abbiamo notato che la religione giudaica de-vittimizza le vittime e
de-sacralizza il divino. Il monoteismo è insieme causa e conseguenza di questa
rivoluzione. Nei Vangeli, invece, sono individuabili non solo la crisi mimetica
ed il linciaggio, ma anche il terzo momento, quello che la Bibbia ebraica ha
rigettato in maniera vistosa: la divinizzazione della vittima collettiva, Gesù
Cristo. Come è possibile credere che la sua divinità abbia una causa diversa da
quella degli dèi della mitologia? Lo stesso Girard risponde a questa domanda
fondamentale:
Alle divinità mitologiche si contrappone un Dio che,
anziché sorgere dal malinteso collettivo riguardo la vittima, assume
volontariamente il ruolo della vittima unica, rendendo possibile per la prima
volta la rivelazione piena del meccanismo persecutorio […]. Se la divinità di Cristo si
afferma rivelando il tutti contro uno mimetico di cui egli
è la vittima, è chiaro che un simile avvenimento non deve assolutamente nulla al
fenomeno di cui elimina l’efficacia [158].
E anche:
Il fatto che sia racchiuso nei Vangeli un sapere
autentico della violenza e delle sue opere non può essere di origine
semplicemente umana. La nostra stessa impotenza ad appropriarci veramente di un
sapere che è a nostra disposizione già da due millenni, sta a confermare una
intuizione teologica estremamente precisa, anche se incapace di formulare in
modo esplicito le sue ragioni [159].
La “divinizzazione” di Gesù è davvero una anomalia nel quadro della
mitologia. La divinità di Cristo non è riconducibile alla sacralizzazione di un
capro espiatorio. Abbiamo infatti mostrato che questo processo esige dei
capri espiatori che sembrino davvero colpevoli. Se la loro innocenza
fosse riconosciuta, essi non potrebbero più polarizzare su di sé la violenza, e
perderebbero l’efficacia che li fa apparire come i salvatori della
comunità:
Se la divinità di Cristo provenisse da una
sacralizzazione violenta, i testimoni della sua Resurrezione sarebbero i membri
della folla che reclamava la sua uccisione e non i pochi individui che
proclamavano la sua innocenza [160].
In quest’ottica, la resurrezione della vittima, altro elemento
presente nella mitologia [161]
(Erode crede che Gesù sia Giovanni Battista [162] resuscitato), diventa un evento
reale; come per la Passione, l’Eucaristia e la divinizzazione, Gesù assicura la
rottura del sacro arcaico e dei processi che portano a tale
esito:
Dopo la morte di Gesù Satana può
apparentemente dire che la vittoria è la sua, che la voce di Gesù è stata
zittita per sempre, perché egli stava rivelando cose che non avrebbero mai
dovuto essere rivelate. Perfino i discepoli tradiscono Gesù e sembrano unirsi ai
persecutori. Ma a questo punto la Resurrezione cambia ogni cosa, poiché
trasforma quei falsi testimoni che sono i persecutori in testimoni completamente
veritieri. Lo stesso Pietro che ha negato tre volte Gesù diventa capace nel suo
discorso della Pentecoste di raccontare la storia dal punto di vista della
vittima. Non era mai successo prima che la persecuzione del capro espiatorio
fosse riportata correttamente, con la rivelazione dell’innocenza della vittima e
dell’ingiustizia dei persecutori […]. Tutto il sistema delle accuse
mitiche contro la vittima, di Satana “omicida fin dal principio”, è sconfitto a
causa della Resurrezione [163].
Girard chiarisce ed aggiunge:
Il terzo giorno dopo la Passione, tuttavia, i discepoli dispersi si riuniscono di nuovo attorno a Gesù, che essi vedono come resuscitato. Avviene in extremis qualcosa che nei miti non avviene mai: fa la sua comparsa una minoranza contestataria, che risolutamente insorge contro l’unanimità persecutoria, la quale in tal modo non è più una maggioranza, sempre schiacciante dal punto di vista numerico, ma ormai incapace, come sappiamo, di imporre a tutti la sua rappresentazione di ciò che è successo […]. Il piccolo gruppo formato dagli ultimi fedeli era già quasi completamente travolto dal contagio violento. Dove ha trovato improvvisamente la forza di opporsi alla folla e alle autorità di Gerusalemme? Come spiegare questo voltafaccia, contrario a tutto quello che abbiamo appreso sull’irresistibile potere della frenesia mimetica? A tutte le domande poste nel presente saggio ho sempre potuto finora trovare risposte plausibili all’interno di un contesto puramente umano, “antropologico”, ma questa volta è chiaro che è impossibile […]. La Resurrezione non è soltanto un miracolo, un prodigio, una violazione delle leggi naturali, ma anche il segno spettacolare dell’entrata in scena, nel mondo, di una potenza superiore alla frenesia mimetica umana [164].
Girard spiega così il significato evangelico di redenzione, da sempre sotteso ad una storica lettura sacrificale della Passione di Cristo, che vanifica tutto quello detto finora, compresa la novità del cristianesimo:
Per giustificare la lettura sacrificale, di
cui nei Vangeli non si fa mai parola, si è obbligati a postulare, tra Padre e
Figlio, una specie di intesa che rimarrebbe segreta e verterebbe sul sacrificio
in questione. Il Padre, per ragioni che ci rimangono oscure, chiederebbe al
Figlio di sacrificarsi e il Figlio, per ragioni che rimangono oscure,
obbedirebbe a questa ingiunzione, degna degli dèi aztechi [165].
Tralasciando i Vangeli, basterebbe solo l’intuizione del Salmo 40 per capire il vero significato di redenzione: Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa [166]. Girard aggiunge:
Le teorie medievali e moderne della redenzione vanno tutte a cercare sul versante di Dio, del suo onore, della sua giustizia, o addirittura della sua collera, ciò che è un ostacolo per la salvezza. In tal modo esse non riescono a trovare l’ostacolo dove dovrebbero cercarlo, nell’umanità peccatrice, nei rapporti esistenti fra gli uomini, nel mimetismo conflittuale che coincide con Satana […]. I Padri greci avevano ragione di dire che, nella Croce, Satana è il mistificatore intrappolato nella sua stessa mistificazione […]. Scatenando il meccanismo vittimario contro Gesù, Satana credeva di proteggere il proprio regno, di difendere il proprio possesso, senza rendersi conto di fare il contrario, di fare esattamente ciò che Dio voleva facesse [167].
e) Apocalisse
Allora uscì un
altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato potere di togliere
la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una
grande spada. (Ap
6,4)
L’analisi dei testi “apocalittici” dei Vangeli potrebbe far tornare la tentazione di attribuire al Dio di Gesù Cristo la violenza che quest’ultimo ha finalmente rivelato negli uomini. Per Girard, lo sviluppo di questa teologia sacrificale è stato causato dall’utilizzo di immagini apocalittiche tratte dai testi dell’Antico Testamento. Nei tempi ultimi, secondo i Vangeli, per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà [168]. Questa è una premessa essenziale per tutto ciò che avviene dopo: Sentirete poi parlare di guerre e rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi: è necessario che tutto questo avvenga, ma non è ancora la fine [169]. Secondo Girard, la violenza apocalittica è sempre riferita agli uomini e mai a Dio. Per Gesù infatti, il pianeta intero si troverà in una situazione paragonabile a quelle dei gruppi umani più primitivi, con l’unica differenza, questa volta, che ciò avverrà con cognizione di causa, cioè senza altre risorse sacrificali per stornare da noi questa violenza. Dopo la venuta di Cristo infatti, si accede ad un grado di coscienza e responsabilità mai ancora raggiunto dagli uomini che ci hanno preceduto:
Il capro espiatorio offre una chiusura
sistemica che permette al gruppo sociale di rimettersi in funzione, di
ricominciare ancora una volta il ciclo e di continuare a ignorare il vero
significato di quella stessa chiusura sistemica, vale a dire il credere alla
colpevolezza del male assoluto mondato. Tutto questo non può più esistere dopo
la rivelazione cristiana. Il sistema non può più essere chiuso da alcun tipo di
soluzione farmacologica e il virus della violenza mimetica ha la possibilità di
diffondersi liberamente […]. La croce
ha distrutto per sempre il potere catartico del meccanismo del capro espiatorio.
Di conseguenza, il Vangelo non propone nessun “lieto fine” alla nostra storia,
ma ci offre due opzioni, cioè ci offre libertà di scelta, esattamente quello che
le ideologie non permetteranno mai! Il Vangelo ci permette di imitare Cristo e
abbandonare la nostra violenza mimetica, o di imitare Satana e correre il
rischio di autodistruggerci. Il sentimento apocalittico si fonda su questo
rischio [170].
Il cristianesimo indica costantemente che i
nostri capri espiatori non sono altro che vittime innocenti e mostra che i veri
colpevoli sono gli uccisori di quelle vittime e coloro che approvano quelle
azioni. In altre parole, noi stessi […]. Come esseri umani, noi saremo sempre
mimetici, ma non per questo siamo obbligati a entrare in conflitti mimetici. Non
dobbiamo necessariamente accusare il nostro prossimo; possiamo imparare a
perdonarlo [171].
È sufficiente imparare a perdonare il nostro prossimo? Rimanere nell’ottica del perdono significa sempre dipendere dall’altro, rimanere nella dimensione della reciprocità, dello scambio. Per Gesù, come per Paolo di Tarso, è necessario imparare ad amarlo. L’amore è l’unico vero katéchon [172], superiore alle stesse istituzioni – evolutesi per garantire l’ordine e la pace - che rimangono sempre in parte soggette all’uomo ed alla sua follia mimetica. Il ritardo dell’apocalisse, della rivelazione finale, la grande e irreparabile crisi che ci autodistrugge, è dovuto a coloro che imitano il Maestro, coloro che si sforzano di rinunciare alla violenza e di scoraggiare la vendetta. Coloro che amano. Ma cos’è l’amore? Paolo di Tarso ne dà una straordinaria sintesi in una pagina delle sue lettere alla prime comunità cristiane. Vi figurano tutti i temi che abbiamo fin ora affrontati: L’amore [ Η αγάπην ] è paziente, è benigno l’amore; non è invidioso l’amore, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’amore non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. […] Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e l’amore; ma di tutte più grande è l’amore! [173]
L’amore, afferma letteralmente Paolo, non invidia [ ου ζηλοι ]; il libro della Sapienza dichiara perentoriamente che la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo, e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono [174]. Anche se sconfitto, rivelato, messo in luce, il diavolo è sempre pronto a rialzare la coda, cosicché lo stesso Girard, corre ai ripari e sembra correggersi:
Il significato più profondo del
cristianesimo è questo: come esseri umani saremo sempre mimetici, ma non
dobbiamo per forza essere satanici. In altre parole, non siamo costretti in
eterno a entrare in conflitti mimetici, non dobbiamo per forza accusare il
prossimo. Possiamo imparare ad amarlo [175].
ueste dunque le tre cose che
rimangonoQqQer
NOTE
[1] Aristotele, Poetica, 1448 b, traduzione di M. Valgimigli.
[2] “Ricordo che comunque fu Eugenio Donato a suggerirmi
per primo di leggere i libri degli antropologi inglesi, in cui, lui sosteneva,
avrei trovato molti esempi di desiderio mimetico. Mi pare che cominciai leggendo
Frazer, e fu una rivelazione. Credo che sia stata una delle esperienze
intellettuali più forti che mi sia mai capitata. Di seguito mi misi a leggere
tutte le più importanti monografie inglesi su singole culture: Radcliffe-Brown,
Bronislaw Malinowski e molti altri.” (R. Girard, Um Longo Argumento do principio ao Fim,
Topbooks, Rio de Janeiro 2000; ed. it.: Origine della cultura e fine della
storia, a cura di P. Antonello - J. C. de Castro Rocha, trad. di E.
Crestani, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, p. 17).
[3] R. Girard, La violence et le sacré, Grasset, Paris
1972; ed. it.: La violenza e il
sacro, trad. di O. Fatica – E. Zerkl, Adelphi, Milano 1980, p.
85.
[4] Girard,
La violenza e il sacro, cit., pp.
430-431.
[5] R. Girard, Des choses cachées depuis la fondation du
monde, Grasset, Paris 1978; ed. it.: Delle cose nascoste sin dalla fondazione del
mondo, trad. di R. Damiani, Adelphi, Milano 1996, p.
59.
[6] Fondamentale è anche il confronto con Durkheim a
proposito della teoria dell’unione indissolubile di sociologia e religione. Da
Malinowski, invece, Girard eredita un certo funzionalismo religioso: “La
religione non può essere una costruzione culturale superflua o dannosa, ma deve
per forza possedere un intrinseco valore come strumento di adattamento,
altrimenti sarebbe stata scartata dalla storia umana come fenomeno culturale di
nessuna rilevanza” (Girard, Origine della cultura, cit., p. 67).
George Frazer, continuatore dell’antropologia tyloriana, è al
contempo essenziale, nella formazione del francese, sia per il metodo comporativo - transculturale
applicato ai riti ed alle religioni, sia per la visione storico-evolutiva della
cultura umana. Una intuizione fondamentale per il lavoro di Girard è invece
quella degli antropologi Hubert e Mauss, che studiando i rituali sacrificali
affermano: “Il ripetersi di quelle cerimonie nelle quali, per abitudine o
per tutt’altra ragione, una stessa vittima ricompariva a intervalli regolari, ha
creato una sorta di personalità continua. Poiché il sacrificio conserva i suoi
effetti secondari, la creazione della divinità diviene opera dei
sacrificatori” (H. Hubert - M. Mauss, Essai sur la fonction du sacrifice, Éd.
de Minuit, Paris 1968; ed. it.: Saggio sul sacrificio, trad. di V.
Meneghetti Minenelli, Morcelliana, Brescia 1981, p. 288). Spiegheremo quanto
questa intuizione si avvicini all’ipotesi
dello studioso francese. Potremmo già da ora affermare che il compito di Girard
sembra essere quello di individuare l’origine di questa pratica rituale, il
sacrificio, che a detta di Hubert e Mauss fonda il religioso.
[7] R. Girard, Je vois Satan tomber comme l’eclair,
Grasset, Paris 1999; ed. it.: Vedo Satana
cadere come la folgore, trad.
di G. Fornari, Adelphi, Milano 2001, pp. 124-125.
[8] R. Girard, Le sacrifice, Bibliothèque National de France, Paris 2002; ed. it.: Il sacrificio, postfazione di P. Antonello, trad. di C. Tarditi, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004.
[9] Girard,
Delle cose nascoste, cit., p.
230.
[10] Girard,
Vedo Satana, cit., p.
145-146.
[11] Girard,
Vedo Satana, cit., p.
22.
[12]
S. Weil, Cahiers, Librairie Plon, Paris 1951; ed. it.: Quaderni, vol.
IV, a cura di G.
Gaeta, Adelphi, Milano 1993, p.
185.
[13] Questo lavoro utilizzerà indifferentemente le espressioni “meccanismo mimetico” (seguendo alcune lezioni di Girard) e “meccanismo vittimario”, più comunemente usato dallo studioso francese.
[14] Eraclito, Peri fusewV, frammento
53 Diels-Kranz, trad. di C. Diano - G. Serra.
[15] R. Marchesini, Post-Human, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 69.
[16]R. Girard, Je vois Satan tomber comme l’eclair, Grasset, Paris 1999; ed. it.: Vedo Satana cadere come la folgore, trad. di G. Fornari, Adelphi, Milano 2001, p. 22.
[17] R. Girard, Um Longo Argumento do principio ao Fim, Topbooks, Rio de Janeiro 2000; ed. it.: Origine della cultura e fine della storia, a cura di P. Antonello - J. C. de Castro Rocha, trad. di E. Crestani, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, pp. 31-32.
[18] Girard, Origine della cultura, cit., p. 53.
[19] Girard, Vedo Satana, cit., p. 36.
[20] Girard, Vedo Satana, cit., p. 35.
[21] R. Girard, Des choses cachées depuis la fondation du monde, Grasset, Paris 1978; ed. it.: Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, trad. di R. Damiani, Adelphi, Milano 1996, p. 23.
[22] R. Girard, La violence et le sacré, Grasset, Paris 1972; ed. it.: La violenza e il sacro, trad. di O. Fatica – E. Zerkl, Adelphi, Milano 1980, pp. 204-205.
[23] Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 375.
[24] Girard, Vedo Satana, cit., p. 43.
[25] Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 76.
[26] Girard, Origine della cultura, cit., p. 32.
[27] Girard, Vedo Satana, cit., p. 43.
[28] Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 118.
[29] Comportamenti umani ed animali in questi stati di
violenza mimetica si fanno sempre più simili. In etologia, ad esempio, il
termine mobbing, coniato da Lorenz,
indica un tipo di aggressione praticato da un branco quando circonda
minacciosamente un esemplare del gruppo, che viene isolato ed espulso. H. Leymann applicò tale termine ad un disturbo rilevato in
alcuni operai ed impiegati che in Svezia erano stati sottoposti a vessazioni sul
lavoro.
[30] Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 178.
[31] R. Girard, Le sacrifice, Bibliothèque National de France, Paris 2002, ed. it.: Il sacrificio, postfazione di P. Antonello, trad. di C. Tarditi, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, pp. 35-36.
[32] Girard, Vedo Satana, cit., p. 165-166.
[33] Girard, Vedo Satana, cit., pp. 100-101.
[34] M. Eliade, Mythes, rêves et mystères, Gallimard, Paris 1957; ed. it.: Miti, sogni e misteri, trad. di G. Cantoni, Rusconi, Milano 1976, p. 210.
[35] R. Girard, Le bouc émissaire, Grasset, Paris 1982; ed. it.: Il capro espiatorio, trad. di C. Leverd – F. Bovoli, Adelphi, Milano 1987, p. 33.
[36] Girard, Il capro espiatorio, cit., p. 85.
[37] Girard, Il capro espiatorio, cit., p. 133.
[38]M. Eliade, Histoire des idée set des croyances religieuses, Paris 1978; ed. it.: Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. I, trad. di M. A. Massimello – G. Schiavoni, Sansoni, Firenze 1979, p. 314.
[39] Girard, Vedo Satana, cit., pp. 75-76.
[40] Girard, Vedo Satana, cit., p. 105.
[41] Girard, Il capro espiatorio, cit., p. 125.
[42] Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 52.
[43] Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 65.
[44] É molto difficile trattare la nascita dei tabù e dei divieti in maniera separata da quella del rituale, in quanto in tutte le culture umane il divieto o la rottura di esso è sempre estremamente legato alla pratica rituale.
[45] Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 46.
[46] Girard, Origine della cultura, cit., p. 120.
[47] R. Girard, La route antique des hommes pervers, Grasset, Paris 1985; ed. it.: L’antica via degli empi, trad. di C. Giardino, Adelphi, Milano 1994, p. 107.
[48] Girard, L’antica via degli empi, cit., pp. 112-113.
[49] Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 71.
[50] Naturalmente è difficile trovare un rito nel quale siano contenuti tutti e tre i punti; come vedremo, il rito tende, nella sua evoluzione, a soffermarsi su alcuni e su di essi “istituzionalizzarsi” a scapito degli altri.
[51] Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 172.
[52] Cfr. Girard, La violenza e il sacro, cit., pp. 173 e seg.
[53] Anche l’esorcismo è da Girard compreso nella teoria mimetica. Cfr. La violenza e il sacro, cit., pp. 175-178, soprattutto pp. 229-232 dove Girard vede l’esorcismo come l’espulsione vittimaria del demone, il “mostruoso” della comunità; anche cfr. Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., pp. 388 e seg.
[54] Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 421.
[55] Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 376.
[56] Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 376.
[57] Girard, La violenza e il sacro, cit., pp. 380-381.
[58] Per questo tema cfr La violenza e il sacro, cit., pp. 150-156, dove Girard analizza le monarchie sacre africane e cfr. Vedo Satana, op. cit., pp. 71 e seg.
[59] Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 303.
[60] R. Girard, Je vois Satan tomber comme l’eclair,
Grasset, Paris 1999; ed. it.: Vedo Satana
cadere come la folgore, trad.
di G.Fornari, Adelphi, Milano 2001, p. 168.
[61] Le teorie girardiane hanno subito attratto l’attenzione di diversi teologi, specie di quelli della teologia della liberazione. Cfr. i lavori di L. Boff e cfr. H. Assmann, René Girard com Teólogos da Libertaçāo. Um diálogo sobre ídolos e sacrifícios, Editora Vozes, Petrópolis 1991. Questo lavoro non ignorerà alcune riscritture teologiche di Girard.
[62] Girard ne parla prevalentemente come un unico fenomeno, cfr. R. Girard, La pietra scartata, a cura di A. Signorini, edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 2000. Nelle analisi testuali, invece, tende a separare i testi ebraici da quelli cristiani, indicando una maggior efficacia dei Vangeli sull’Antico Testamento nel demistificare il meccanismo vittimario.
[63] Girard,
Vedo Satana, cit., p.
181
[64] Girard,
Vedo Satana, cit., p. 162
[65] R. Girard, Um Longo Argumento do principio ao Fim,
Topbooks, Rio de Janeiro 2000; ed. it.: Origine della cultura e fine della
storia, a cura di P. Antonello - J.C.
de Castro Rocha, trad. di E.
Crestani, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, p. 171.
[66] R. Girard, Le sacrifice, Bibliothèque National de France, Paris 2002; ed. it.: Il sacrificio, postfazione di P. Antonello, trad. di C. Tarditi, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, p. 184.
[67] R. Girard, Celui par qui le scandale arrive, Desclée de Brouwer, Paris 2001; ed. it.: La pietra dello scandalo, a cura di G. Fornari, Adelphi, Milano 2004, p. 69.
[68] Le citazioni bibliche di questo capitolo sono tratte
da: La Bibbia (testo ufficiale Cei),
Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1988. Le sigle dei libri biblici saranno
quelle utilizzate da questo testo citato.
[69]R. Girard, La pietra scartata, a cura di A. Signorini, edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 2000, p. 62.
[70] R. Girard, Um Longo Argumento do principio ao Fim,
Topbooks, Rio de Janeiro 2000; ed. it.: Origine della cultura e fine della
storia, a cura di P. Antonello - J.C. de Castro Rocha, trad. di E. Crestani, Raffaello Cortina
Editore, Milano 2003, p. 174.
[71] Trasfigurazione della lotta fra doppi, un momento del meccanismo mimetico. É questo un tema che compare anche nell’episodio della primogenitura di Giacobbe ed Esaù (Gen 25,16-27,40; in questo caso sono fratelli gemelli). Le lotte tra fratelli o gemelli sono attestate nella mitologia di tutto il mondo.
[72] A questo proposito Girard afferma: “Alcune tappe dello
sviluppo sono comuni a molte società, come l’evoluzione dal sacrificio umano
verso quello animale, ma la Bibbia è una testimonianza unica della progressiva
rivelazione del comportamento violento e vittimario delle società umane.”
Cfr. Girard, Origine della cultura, cit., p. 178.
Anche il sacrificio di Isacco (Gen 22,1-19) è un
testo fondamentale per accorgersi dell’intuizione ebraica della sostituzione sacrificale: l’esigenza
sacrificale si sofferma sull’essere più prezioso, il figlio di Abramo, per poi
accontentarsi, in extremis, di una
vittima sostitutiva, ossia l’ariete inviato da Dio. L’epilogo dell’evento
prepara una decisa condanna all’uso cananeo di sacrificare i bambini (cfr. Dt
12,29-31; 18,10-12; Ger 7,31-33; 19,1-13) e devittimizza parzialmente Jhwh, il
sacro. Secondo la tradizione islamica, molto legata a quella ebraica nelle sue
origini, l’ariete sacrificato è lo stesso animale che venne offerto a Dio da
Abele.
[73] Il tema teologico degli ebrei come vittima, rilanciato dopo la Shoà, ricorre spesso nell’esegesi biblica rabbinica, specie per quanto riguarda l’interpretazione del misterioso servo sofferente di Jhwh del libro Isaia. Cfr. infra l’analisi del libro di Isaia.
[74] Girard dedica un intero studio all’analisi dell’invidia e della gelosia, affrontate come evidenti manifestazioni del desiderio mimetico. Cfr R. Girard, Shakespeare, Les feux de l’envie, Grasset, Paris 1990; ed. it. (condotta sull’edizione inglese del 1991): Shakespeare. Il teatro dell’invidia, trad. di G. Luciani, Adelphi, Milano 1998.
[75] Dt 5,6-9 e cfr. Es 20,2-5
[76] Es 20,13-16
[77] Es 20,17
[78] R. Girard, Je vois Satan tomber comme l’eclair, Grasset, Paris 1999; ed. it.: Vedo Satana cadere come la folgore, trad. di G.Fornari, Adelphi, Milano 2001, p. 26.
[79] A questo scopo Alberto Signorini fa notare che uno dei modi con il quale gli Ebrei chiamavano i pagani era “gojim”, letteralmente “coloro che desiderano”. Cfr. R. Girard, La pietra scartata, cit., p. 21.
[80] Lv 19,18
[81] Cfr. R. Girard, La route antique des hommes pervers,
Grasset, Paris 1985; ed. it.: L’antica
via degli empi, trad. di C. Giardino, Adelphi, Milano
1994.
[82] Gb 16,17-21
[83] Il termine ebraico “goel” individua nell’ Antico Testamento il parente che deve tutelare gli interessi ed i diritti della famiglia . Cfr Lv 25,24-25; Nm 35,19; Rt 2,20; 4,4
[84] Girard,
L’antica via degli empi, cit.,
p. 160.
[85] Sal 118,22-24 e Is 28,16; cfr. Mc 12,10-11 e simili nella sinossi evangelica.
[86] Girard, L’antica via degli empi, cit., p. 20.
[87] Girard, Delle cose nascoste, cit., p.
207.
[88] Os 6,6; Cfr. Mt 9,13
[89] Mic 6,6-8
[90] É un personaggio che già compare nei cap. 42, 49, e 50 del libro di Isaia. Il cap. 42 lo descrive così: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta”. Il cap. 53 inizialmente lo descrive anche fisicamente, prefigurando segni vittimari: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere”. I vv. successivi lo avvicinano al ruolo di pharmakos greco.
[91] Is 53,8
[92] Is 53,4
[93] Is 53,10
[94] Girard,
Delle cose nascoste, cit., pp.
209-210.
[95] Cfr. R. Girard, La violence et le sacré, Grasset, Paris
1972; ed. it.: La violenza e il
sacro, trad. di O. Fatica – E. Zerkl, Adelphi, Milano 1980, pp. 436-437.
[96] Cfr. Lc 11,29-32 e Mc 8,11-13 con Mt 12,39-41
[97] R. Girard, Le bouc émissaire, Grasset, Paris 1982;
ed. it.: Il capro espiatorio, trad.
di C. Leverd – F. Bovoli, Adelphi, Milano 1987, p. 186.
[98] Cfr. R. Girard,
La vittima e la folla. Violenza
del mito e cristianesimo, a cura di G. Fornari, Santi Quaranta, Treviso
1998, pp. 97-131.
[99] Le citazioni bibliche di questo capitolo sono tratte
da: Nuovo testamento interlineare
(testo greco di Neste-Aland, traduzione interlineare di A. Bigarelli), ed. San
Paolo, Cinisello Balsamo 1998. Le sigle dei libri biblici saranno quelle
utilizzate da questo testo citato.
[100] R. Girard, Des choses cachées depuis la fondation du
monde, Grasset, Paris 1978; ed. it.: Delle cose nascoste sin dalla fondazione del
mondo, trad. di R. Damiani, Adelphi, Milano 1996, p. 254.
[101] Gv 1,1
[102] Gv 1,4 -5
[103] Gv 1,10-12
[104] Per Vattimo, la secolarizzazione è il destino della kenosis cristiana, l’ “abbassamento” della divinità terribile. Ecco cosa Vattimo, lettore acuto di Girard, afferma a proposito dello studioso francese: “Girard, riassumiamo qui molto approssimativamente, vede le religioni naturali fondate su una concezione vittimaria del sacro: quando scoppiano gravi conflitti entro le comunità, il modo di sanarli è di concentrare su un unico capro espiatorio la violenza che, altrimenti, si scatenerebbe fra tutti. Poiché il capro espiatorio funziona effettivamente nel ridurre la violenza, assume anche un carattere sacrale, divino. Antico e Nuovo Testamento, tuttavia, hanno il senso di svelare la menzogna del sacro naturale violento. Gesù, segnatamente, è colui che viene messo a morte non perché vittima perfetta, come è stato sempre inteso, ma perché portatore di un messaggio troppo radicalmente in contrasto con le più profonde convinzioni (sacrali-vittimarie) di tutte le religioni “naturali”. La straordinarietà della sua rivelazione (il sacro non è la violenza sacrificale, Dio è amore) dimostra, fra l’altro, che egli non poteva essere solo uomo. Girard, come ho detto, non si spinge ad ampliare le sue tesi in una vera e propria storia della secolarizzazione come autentico destino del cristianesimo (e non come abbandono e negazione di esso)”. (G. Vattimo, Oltre l’interpretazione, Edizioni Laterza, Roma-Bari 1994, p. 63).
[105] Mt 5,45
[106] Lc 6,36
[107] Girard su questo punto, nelle sue opere principali è molto vago ed impreciso, ed affronta raramente la questione. Da ciò che traspare, l’economia di mercato, per Girard, rappresenta un ottimo deterrente alla violenza. Ecco come Girard paradossalmente interpreta l’episodio di Mc 11,15-16, l’espulsione dei mercanti dal tempio: “L’espulsione dei mercanti dal tempio è un gesto più antisacrificale che antieconomico. Coloro che si recavano al tempio avevano una sola cosa in mente: il sacrificio. A questo scopo dovevano acquistare animali grandi e piccoli, a seconda delle possibilità economiche di ciascuno. La forte reazione di Gesù era rivolta contro l’uso del tempio di Dio come luogo di sacrificio” (R. Girard, Um Longo Argumento do principio ao Fim, Topbooks, Rio de Janeiro 2000; ed. it.: Origine della cultura e fine della storia, trad. di E. Crestani, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, p. 195). Poi però afferma anche: “Voglio che sia chiaro che non sono un sostenitore della globalizzazione o del cosiddetto nuovo ordine internazionale […]. Oggi viviamo in un mondo dove il potere […] del meccanismo mimetico ha completa libertà di movimento e bisogna ammettere che il sistema di mercato ci sta anche proteggendo, per quanto solo temporaneamente, dall’esplosione di una violenza ancora maggiore. Certamente ingiustizia e ineguaglianza sono in crescita nei paesi del Terzo mondo e questa condizione è destinata a diventare esplosiva. A un certo punto questi paesi potrebbero decidere di ribaltare la situazione e ci sono chiari segnali che qualcosa del genere sta già avvenendo” (Girard, Origine della cultura, cit., pp. 194-195).
[108] Mt 6,9-10
[109] Gv.
12,24
[110] Girard,
Delle cose nascoste, cit., pp.
280-281.
[111] Il termine è tradotto comunemente “pietra d’inciampo”:
“Il verbo greco skandalízein deriva
da un altro verbo che significa zoppicare. A cosa somiglia uno zoppo? A
un individuo che segue come la propria ombra un invisibile ostacolo su cui non
cessa mai d’inciampare”. (R. Girard, Je vois Satan tomber comme l’eclair,
Grasset, Paris 1999; ed. it.: Vedo Satana
cadere come la folgore, trad.
di G. Fornari, Adelphi, Milano 2001, p. 37). Questo è esattamente ciò che
accade col modello – ostacolo.
[112] Mt 18,5-7
[113] Girard,
Vedo Satana, cit., p. 44. La frase di Gesù citata da Girard è
tratta da Mt 11,6
[114] Cfr. Gv 12,31
[115] Cfr. Girard, Vedo Satana, cit., pp. 55-71.
[116] Girard,
Origine della cultura, cit., p.
180.
[117] Cfr. Mt 21,33-44; Mc 12,1-12; Lc 20,9-19 e confronta le differenze.
[118] Girard, Vedo Satana, cit., p. 68.
[119] L’ebraico sàtan ed il greco diábolos (da dia-bάllo: dividere, creare discordia, screditare, travisare) sono entrambi sinonimi di accusatore, diffamatore. Di qui il legame giovanneo con la menzogna.
[120] Gv 8,43-44
[121] Sýmbolon (da
syn-bάllo: mescolare, riconciliare,
concordare), il contrario di dia-bάllo. Satana è
ad un tempo diavolo e simbolo della
riunificazione a scapito della vittima. Girard definisce Satana anche come il principio riunificante e demonio quello disgregante. Cfr.
l’episodio dei demoni di Gerasa, in R. Girard, Le bouc émissaire, Grasset, Paris 1982;
ed. it.: Il capro espiatorio, trad.
di C. Leverd – F. Bovoli, Adelphi, Milano 1987, cap. XIII. Girard aggiunge: “Affermare
l’esistenza del demonio significa innanzitutto riconoscere che negli uomini
opera una certa forza di desiderio e di odio, di invidia e di gelosia, molto più
insidiosa e astuta nei suoi effetti, più paradossale e subitanea nei suoi
rovesciamenti e nelle sue metamorfosi, più complessa nelle sue conseguenze e più
semplice nel suo principio, o persino più semplicistica se vogliamo – il demonio
è insieme molto intelligente e molto stupido – di tutto ciò che ha potuto
concepire, da allora, l’accanimento di certi uomini nel rendere conto degli
stessi comportamenti umani senza
intervento soprannaturale. […] Affermando il
carattere uniformemente demoniaco della trance, della possessione rituale, della
crisi isterica e dell’ipnosi, la tradizione afferma l’unità di tutti questi
fenomeni che è reale”. (Girard, Il
capro espiatorio, cit., p. 301).
[122] Girard,
Vedo Satana, cit., p. 71.
[123] Mt 23,35
[124] Lc 11,50
[125] Mc 5,9. Cfr Mt 8,28-34 e Lc 8,26-39. L’episodio si conclude con i porci che, “posseduti” dal diavolo, si gettano dal dirupo in mare. Dopo l’intervento di Gesù avviene che la folla mimetica, raffigurata dai porci, fa la stessa fine della sventurata vittima aiutata da Gesù, ossia l’indemoniato di Gerasa.
[126] Mt 10,34-36
[127] Cfr. Gv 8,3-11
[128] Cfr. ad esempio Lc 4,28 dove la folla, dopo aver ascoltato Gesù, irritata dalle sue parole, lo conduce sul ciglio di un monte per gettarlo dal precipizio.
[129] Nel testo della lapidazione del mendicante di Efeso da parte della folla guidata da Apollonio, citato nel primo capitolo del nostro lavoro, ci accorgiamo infatti che il gruppo suggestionato vede negli occhi del cieco mendicante delle vere e proprie fiamme.
[130] Girard,
Vedo Satana, cit., pp. 83-84 e p.
87.
[131] 1Gv 2,1
[132] Gv 14,16-17
[133] Girard,
Il capro espiatorio, cit., p. 200-201.
[134] “Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure sarà fedele all'uno e disprezzerà l'altro; voi non potete servire a Dio e a mammona”. (Mt 6,24); Oppure: “Chi non è con me, è contro di me e chi non raccoglie con me, disperde”. (Lc, 11,23 e Mt 12,30)
[135] Questo obbliga alla rinuncia totale del desiderio mimetico, che è una parte di sè: “E a tutti diceva: Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà”. (Lc 9,23-24)
[136]R. Girard,
La vittima e la folla. Violenza
del mito e cristianesimo, a cura di G. Fornari, Santi Quaranta, Treviso
1998, pp. 155-156.
[137] Sulla questione del presunto antisemitismo evangelico,
cfr. R. Girard, La pietra scartata, a cura di A.
Signorini, edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 2000.
[138] “Diciamolo dunque; e se le mie parole riuscissero un po’ rozze, non pensare, Socrate, che le proferisca io, bensì coloro che lodano l’ingiustizia anziché la giustizia. Essi diranno che in queste condizioni il giusto sarà frustato, torturato, imprigionato, gli saranno bruciati gli occhi, e alla fine, dopo aver subito ogni genere di mali, verrà impalato e riconoscerà che non bisogna voler essere giusti, ma sembrarlo”. (Platone, La Repubblica, cap. II, 361e – 362a, traduzione di U. Bultrighini - G. Caccia - E. Pegone )
[139] Girard,
Delle cose nascoste, cit., p. 283.
[140] Girard,
Il capro espiatorio, cit., p. 324.
[141] Girard,
Delle cose nascoste, cit., p. 341.
[142] “Nel periodo bizantino, l’Edipo Re veniva letto come la
passione di Edipo, vale a dire come una figura di cui Cristo era la consumatio. I Bizantini già considerano
Edipo un vittima, l’innocente che soffre come Cristo, e in ultima analisi non
sbagliavano”. (Girard, Origine della cultura, cit., p. 163).
Sull’innocenza di Edipo cfr. R. Girard, La violence et le sacré, Grasset, Paris
1972; ed. it.: La violenza e il
sacro, trad. di O. Fatica – E. Zerkl, Adelphi, Milano 1980, pp. 102-129. Su Edipo colpevole, cfr.
Girard, Il
capro espiatorio, cit., pp.
45-77.
[143] Naturalmente, il mito di Sofocle non rappresenta completamente l’innocenza di Edipo e non garantisce la storicità che assicurano i Vangeli, pur essendo la trasfigurazione di un fenomeno reale. In questo senso, gli evangelisti sono più realisti di Sofocle, testimoni oculari e descrittori impeccabili del meccanismo mimetico di cui loro stessi fecero parte, tradendo il Maestro. Gesù fu la vittima innocente anche degli stessi redattori dei vangeli, che lo scrivono senza vergognarsene. È questa una delle più strane “anomalie” del Nuovo Testamento, così come delle lettere paoline.
[144] Girard,
La vittima e la folla, cit.,
p. 160.
[145] Girard,
Origine della cultura, cit., p.
171.
[146] Lc 4,18-19; cfr. Is 61,1
[147] Mt 25,44-45. "Io trovo che c'è più transustanziazione in questo versetto che non nel pane e nel vino", afferma Lévinas.
[148] R. Girard, La route antique des hommes pervers,
Grasset, Paris 1985; ed. it.: L’antica
via degli empi, trad. di C. Giardino, Adelphi, Milano 1994, p.
193.
[149] At 9,3
[150] Gv
1,29
[151] Lc 23,4
[152] Lc 23,12
[153] Girard,
Vedo Satana, cit., p.
176.
[154] Per questo episodio, cfr. Girard, Il
capro espiatorio, cit., cap. XII
e Girard, Vedo Satana, cit., pp.
39-40.
[155] Girard,
Vedo Satana, cit., p.
41.
[156] “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato!”, cfr Mc 15,34 e Mt 27,46. Camus fa notare che è un’espressione “censurata” da due vangeli su quattro.
[157] Lc 23,34
[158] Girard,
Vedo Satana, cit., pp. 174-175.
[159] Girard,
Delle cose nascoste, cit., p.
279.
[160] R. Girard, Celui par qui le scandale arrive, Desclée de Brouwer, Paris 2001; ed. it.: La pietra dello scandalo, a cura di G. Fornari, Adelphi, Milano 2004.
[161] Già nel II secolo, Celso,
nel Discorso vero, difendeva il
paganesimo osservando le somiglianze fra Passione e Risurrezione di Cristo con i
mythoi riguardanti Dionisio, Adone,
Osiride ecc.
[162] Per l’analisi girardiana dell’episodio della
decollazione del Battista, cfr. Girard,
Il capro espiatorio, cit., p. 202 e
seg.
[163] Girard, La vittima e la folla, cit., p. 160.
[164] Girard,
Vedo Satana, cit., pp. 248-249.
[165] Girard,
Delle cose nascoste, cit., p. 240.
[166] Sal 40,7
[167] Girard, Vedo Satana, cit., pp. 196-197.
[168] Mt 24,12
[169] Mt 24,6-7
[170] Girard,
Origine della cultura, cit., pp.
186-187.
[171] Girard,
Origine della cultura, cit., p.
211.
[172] Cfr. 2 Ts 2,7. Paolo di Tarso definisce ciò che ritarda lo scatenamento di Satana come un katéchon, vale a dire ciò che contiene l’apocalisse.
[173] 1 Cor 13,4 - 8.13
[174] Sap 2,24
[175] Girard,
Origine della cultura, cit., p. 182.
Da notare che Girard sostituisce la parola “amarlo” con l’espressione
“perdonarlo” usata nello stesso libro.
Cfr. la citazione precedente (nota 171).
Bibliografia
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Grasset, Paris 1961; ed. it.: Menzogna romantica e verità romanzesca, trad. di L. Verdi -
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Le bouc émissaire, Grasset, Paris 1982; ed. it.: Il capro espiatorio, trad. di C. Leverd – F. Bovoli, Adelphi, Milano 1987.
Shakespeare. Les feux de l’envie, Grasset, Paris 1990; ed. it. (condotta sull’edizione inglese del 1991): Shakespeare. Il teatro dell’invidia, trad. di G. Luciani, Adelphi, Milano 1998.
La route antique des hommes pervers, Grasset, Paris 1985; ed. it.: L’antica via degli empi, trad. di C. Giardino, Adelphi, Milano 1994.
La vittima e la folla. Violenza del mito e cristianesimo, a cura di G. Fornari, Santi Quaranta, Treviso 1998.
La pietra scartata, a cura di A. Signorini, edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 2000.
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Celui par qui
le scandale arrive, Desclée de Brouwer,
Paris 2001; ed. it.: La pietra dello
scandalo, a cura di G. Fornari, Adelphi, Milano 2004.
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France, Paris 2002; ed. it.: Il
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Cortina Editore, Milano 2004.
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Aristotele, Poetica, a cura di P.
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Eraclito, I frammenti e le
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Hubert, Henri - Mauss, Marcell,
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