Il dilemma
dell’onnivoro
Fabio Brotto
Un libro da leggere assolutamente è Il dilemma dell’onnivoro (Omnivore’s Dilemma, 2006, trad. it. di L. Civalleri, Adelphi 2008). Michael Pollan indaga sulla catena alimentare, su quello che mangiamo e sui modi in cui prende forma, passando attraverso la chimica e gli allevamenti industriali, la distruzione del terreno e l’abuso di fertilizzanti, i mangimi innaturali e la riduzione degli animali a macchine da ingrasso. Il tutto sotto il dominio del mais, la cui sovrapproduzione negli Stati Uniti ha conseguenze globali. Anche per noi Italiani.
È un libro scritto con garbo e ironia, e più avvincente di un romanzo, ma che fa emergere abissi nei quali la maggior parte di noi non vuole ficcare lo sguardo. Chi infatti, quando compra una confezione di uova al supermercato, si chiede come vivano le galline ovaiole che le hanno prodotte e di quali mangimi siano state nutrite? Preferisce ignorarlo, fidandosi dei controlli sanitari (che in Italia sarebbero i migliori del mondo civile - mentre in tutto il resto saremmo al di sotto: un vero paradosso), e respingendo ogni domanda inopportuna (ad esempio circa il rispetto dei pretesi “diritti degli animali”). Pollan segue il percorso di una gallina e di un vitello, e ci fa vedere in che modo prendano forma i prodotti alimentari industriali che si consumano in un fast food, indaga poi su quello che chiama il biologico industriale, quindi si immerge nella operosa vita quotidiana della fattoria Polyface, dove l’intelligenza di Joel Salatin riesce a sfruttare la terra senza impoverirla, anzi arricchendola con un mirabile ciclo produttivo in cui piante e animali interagiscono, seppur governati dall’umano, secondo la propria natura. E infine si fa cacciatore e raccoglitore, con una immersione nel passato della nostra specie che gli fa riscoprire quale sia il sapore di un pranzo totalmente creato dalle sue mani.
Il testo di Pollan è ricchissimo di spunti su cui
riflettere. Anzitutto sui limiti entro i quali la natura delle singole specie
animali e vegetali può essere forzata senza ripercussioni a catena dalla
portata catastrofica. Impressionanti, in questo senso, le
pagine sul mais, che più della soia è diventato il vero signore e padrone della
nostra catena alimentare. La sua sovrapproduzione ha effetti a cascata.
I suoi derivati sono onnipresenti, anzitutto nei mangimi per animali. Ma mentre un pollo può benissimo essere allevato a mais, un
bovino ne soffre. Il suo organismo è stato selezionato dalla natura per
nutrirsi di erba, e il mais lo fa ingrassare
rapidamente, ma male, soprattutto per il suo fegato. Quindi
farmaci a gogò (peraltro diffusi in tutti gli
allevamenti intensivi anche da noi), e alleanza tra il mais e la chimica, che
fornisce anche i concimi necessari alla monocultura di massa.
Anch’io non sapevo nulla di Fritz Haber. Benché abbia ricevuto il
Nobel per la chimica “per la sintesi dell’ammoniaca dai suoi elementi”,
inventando un processo che permise la realizzazione dei fertilizzanti chimici
senza i quali non si sarebbe avuta l’immensa crescita della produzione agricola
mondiale realizzatasi nel Novecento, nessuno lo nomina mai.
Per questo sono molto interessanti le pagine de Il
dilemma dell’onnivoro in cui se ne parla.
Ma chi era Fritz Haber? Nessuno (me
compreso) sembra conoscere questo signore, nonostante abbia ricevuto il Nobel
nel 1920 per « avere migliorato gli standard dell’agricoltura e aumentato il
benessere dell’umanità». La sua scarsa notorietà ha a che fare non tanto con il
suo lavoro, quanto con certi lati sgradevoli della sua biografia, che porta
echi dell’ambiguo rapporto tra industria bellica e agricoltura moderna. Haber si gettò anima e corpo nella prima guerra mondiale, e
con la sua abilità di chimico tenne vive le speranze
di vittoria tedesche. Quando la Gran Bretagna bloccò i rifornimenti di nitrati dalle
miniere del Cile (i nitrati sono essenziali per fabbricare gli esplosivi), il metodo Haber permise di continuare
la produzione di bombe grazie ai composti azotati di sintesi. Quando la guerra si incagliò nelle trincee del fronte francese, il nostro mise
il suo genio al servizio della produzione di gas tossici, come ammoniaca e
cloro (in seguito fu anche l’ideatore dello Zyklon-B,
il gas utilizzato nei campi di concentramento nazisti). A quel che scrive Smil, il 2 2 aprile 1915 Haber era al
fronte, e comandava il primo attacco con i gas della storia. Il suo ritorno
trionfale a Berlino ebbe una coda amara: pochi giorni dopo, sua moglie, anche
lei chimica, disgustata dal ruolo del marito nella guerra si sparò con la sua
pistola di ordinanza. Haber
si era convertito al cristianesimo, ma a causa delle sue origini ebraiche fu
costretto a lasciare la Germania negli anni Trenta;
morì, senza un soldo, in un albergo di Basilea nel 1934. Forse perché la storia
è sempre scritta dai vincitori, il nome di Frítz Haber è praticamente sparito dalla
scienza del ventesimo secolo. Non c’è neppure una targa che ricordi il luogo
dove avvenne la sua celebre scoperta, all’Università di Karlsruhe.
Le
vicende del chimico tedesco sono emblematiche dei paradossi della scienza, dell’arma
a doppio taglio rappresentata dal controllo della natura, del bene e del male
che possono scaturire da un individuo e dalle sue conoscenze. Haber ha donato al mondo una fonte vitale di fertilità e
una terribile arma: come sottolinea il suo biografo, furono
« la stessa scienza e lo stesso uomo » a fare entrambe le cose. Eppure
questa contrapposizione tra il benefattore dell’agricoltura e il chimico guerrafondaio è un po’ troppo semplicistica, perché
anche l’opera «benefica» di Haber ha rivelato indubbiamente
non pochi lati negativi. (pp. 55 – 56)
Il dilemma dell’onnivoro si pone per quelle creature che, come il ratto e l’umano, possono nutrirsi di una enorme varietà di cibi. Quando si trova di fronte a qualcosa che appare commestibile ma è insolito o sconosciuto, il ratto ha un’unica possibilità di ridurre i rischi di avvelenamento: mangiarne una quantità minima e aspettare. Il ratto farà sempre così. L’umano, essendo un essere culturale e dotato di ragione, si comporterà in modo diverso e imprevedibile, a seconda della rappresentazione della cosa da parte del singolo o del gruppo. Le tradizioni culturali dei vari popoli hanno nel corso dei millenni fissato il che cosa si deve e si può mangiare, ma nella attuale fase storica, in cui l’offerta alimentare è in alcuni luoghi del pianeta sovrabbondante, il singolo viene spesso a trovarsi in una situazione dilemmatica: questo cibo mi farà bene o mi farà male?
Per noi occidentali questo dilemma è acuito dal processo di industrializzazione subito dalla produzione del cibo. E si concretizza nello scontro mostruoso (nel senso proprio di creazione di mostri) tra natura e cultura che è reso manifesto dall’agricoltura e dall’allevamento industriali. La pannocchia di mais selezionato per raggiungere dimensioni enormi e vivere in un file fittissime non è meno mostruosa della vacca che produce ogni giorno smisurate quantità di latte e non potrebbe vivere all’aperto, o dei vitelli fatti crescere con granturco e grasso animale.
La vita breve e infelice di un manzo
ingrassato a furia di mais in un allevamento intensivo rappresenta il trionfo
supremo della logica industriale rispetto a quella evolutiva.
(p. 81)
Nel Dilemma dell’onnivoro si trovano dei passi in cui la problematica del cibo viene condensata in sintesi efficacissime. Come le due seguenti. Nella prima si dice della scomparsa della natura produttrice (ad esempio di un manzo vivo e vegeto) dalla coscienza del consumatore; nella seconda della onnipresenza del mais nella dieta dello stesso consumatore contemporaneo.
Forse è questa la vera specialità
dell’industria alimentare: rendere oscure le vicende che stanno dietro ai suoi
prodotti, lavorandoli in modo tale da farli sembrare esiti della cultura e non
della natura. (p. 129)
Ai nostri occhi onnivori, un pasto di
notevole varietà; agli occhi di uno spettrografo di massa, la razione
alimentare di una creatura molto più specializzata.
Proprio così: il consumatore di cibi confezionati è diventato come un koala, e
il mais è il suo eucalipto.
(p.131)
La chimica applicata all’agricoltura pensa il suolo produttivo in termini di NPK, ovvero azoto, fosforo e potassio. Ma il terreno e l’humus sono realtà estremamente complesse, nelle quali moltissimi fattori (piante, animali, anellidi, insetti, batteri e funghi) interagiscono tra loro. Quello che è avvenuto nelle praterie americane trasformate in distese di mais è tremendo: in un secolo lo strato di humus si è dimezzato, è stato sostanzialmente distrutto.
Ridurre una così intricata
realtà biologica al sistema NPK é un atto che mostra la peggiore faccia riduzionista
della scienza. Il complesso si riduce alle sue componenti
elementari, la biologia lascia il posto alla chimica. Come è
stato osservato da Howard e da altri prima di lui,
questo metodo funziona solo con una o due variabili. Però una volta che la
scienza ha ridotto un fenomeno complesso a un paio di
variabili, per quanto importanti siano, scatta una tendenza naturale a
trascurare il resto, a dare per scontato che tutto (o almeno tutto ciò che
conta davvero) sia quantificabile. Quando scambiamo ciò che siamo
in grado di conoscere per tutto quello che c’è da conoscere abbandoniamo la
salutare presa di coscienza della nostra ignoranza (ad esempio di fronte al
mistero della fertilità del suolo) e pensiamo con arroganza di poter trattare
la natura come se fosse una macchina. Fatto questo salto concettuale, una
deduzione segue l’altra: quando ci accorgiamo che l’azoto sintetìco
da noi fornito alle piante le rende più vulnerabili a
insetti e malattie, pensiamo dì riparare la « macchina » rivolgendoci ai pesticidi
chimici. (p.
163)
La parte finale del libro di Pollan è tutta dedicata alla caccia, alla raccolta, e alla preparazione di un pranzo “autarchico”. Una sorta di ritorno a prima dell’agricoltura. Si tratta di un interessante esperimento, cui Pollan si sottopone con grande impegno, prendendo la licenza di caccia in California, e seguendo le istruzioni di un suo mentore (un italiano immigrato) con grande determinazione.
Deve ammazzare un porco selvatico, e la cosa si dimostra per lui molto meno facile del previsto, non solo perché gli animali bisogna trovarli in un territorio ampio e accidentato, ma anche perché per sparare e uccidere bisogna superare tutta una serie di condizionamenti posti dall’attuale struttura ideologico-psicologica degli strati sociali cui Pollan appartiene e in cui è radicato: il ceto intellettuale dell’Occidente è generalmente avverso all’uccisione degli animali, e alla caccia in modo particolare. Pollan supera bene la sua prova, e nel farlo mette a nudo tutta l’insensatezza dell’animalismo contemporaneo, a cominciare dal suo paradosso di fondo, per cui i suoi paladini “ci chiedono prima di riconoscere ciò che abbiamo in comune con le altre creature, e poi di agire in modo quanto meno animale possibile” (p.338)