Guerre di ieri, guerre di oggi

 

Da La guerra dei cafoni di Carlo D’Amicis – Minimum Fax 2008

 

Elisabetta Liguori

elisabetta.liguori-lisi@poste.it

 

 

Ci sono guerre che aiutano a crescere?

Questo è uno degli interrogativi che Carlo D’Amicis si è posto in questo suo nuovissimo romanzo La guerra dei cafoni edito dalla Minimum Fax.  In risposta al quesito D’Amicis non ci offre una didascalica, un ammonimento, una definizione sintetica e generale, un gioco di parole, ma pura ricchissima fiction, narrazione ispirata e altamente strutturata.

Teatro vero.

E dico teatro non a caso.

Mi riferisco proprio al muoversi di corpi all’interno di uno spazio.

Se un testo narrativo riesce a trasferire totalmente il lettore all’interno di una dimensione diversa da quella abituale (che appartenga al passato o al presente o al futuro e quindi sia del tutto  immaginaria poco importa) e lo fa scatenando azioni, passioni, ira, furore, risate, dubbi, allora quello è un buon testo. Se un testo narrativo non solo racconta ma mostrando parla, urla, agisce, si agita all’interno di un scenario dettagliato, è senza alcun dubbio un buon testo.

Un libro capace di creare un mito. Di animarlo.

Ogni buona letteratura ha a che fare con grandi personaggi. Molto bene lo sa anche Carlo D’Amicis, che nell’arco del suo percorso di scrittore ha saputo mettere in azione, con una lingua esclusiva e viva e ansimante, splendidi prototipi d’uomini e donne, prismi d’anima complessi, sfaccettati, sofferti, stentorei. Dall’ipnotizzato amante di Amor Tavor all’avvocato dubbioso di Escluso il cane. Solo per fare qualche esempio.

Angelo Conteduca, detto  Francisco Marinho (come il fascinoso e crudele calciatore brasiliano degli anni 70) è il suo ultimo mito. Siamo nell’estate del 1975. Angelo è un ragazzo in carne, ossa e paradossi, posto da D’Amicis a metà strada tra l’inevitabile biografismo e l’invenzione pura, come avviene solitamente per tutti i grandi personaggi della narrativa. Lui è il guerriero. Lui è il condottiero in un tempo mitico della memoria, durante il quale pare ancora possibile scindere nettamente il bene dal male, dare ad entrambi gli estremi un nome solo. Il bene qui coincide coi sogni patinati (o incubi) di un manipolo di ricchi ragazzini con scarpe e magliette firmate e odorose di Felce Azzurra Paglieri, che d’estate affollano quel tratto di costa salentina (in particolare il villaggio di Torrematta) che l’autore sceglie di raccontare, mentre il male è rappresentato dalle legittime aspirazioni dei Cafoni, figli luridi e ignoranti di pastori, contadini, pescatori in ciabatte e canottiera, che si accalcano lungo lo stesso confine.

Angelo esiste perché esistono questi schieramenti opposti che danno certezza e forza alla sua identità. Lui esiste perché esiste la sua guerra. Lui come ogni adolescente è il conflitto fatto persona. Quello che preme all’autore è dunque raccontare il cambiamento e le conseguenti reazioni del suo eroe. L’allargarsi del grigio tra il bianco e il nero e il suo stupore.

Un grigio antropologico, generazionale, sociale, economico, territoriale.

Raccontare come e perché la linea di quel conflitto infuocato, la frontiera belligerante e prudentemente netta sia gradualmente cambiata, si sia spostata, svanita nel tempo condannando alla fine un’epoca intera. Per farlo D’Amicis si serve dell’ansia evolutiva, effusiva, radicale di un adolescente, di più adolescenti. Di un gruppo di adolescenti, inteso come entità autonoma e solo apparentemente eversiva. Niente di meglio per raccontare l’evoluzione della specie umana!

I giovani sono spesso conservatori, molto più degli adulti di riferimento. Molto più rigidi, perché spaventati, legati a doppio nodo alla prima impressione, al primo giudizio, al primo codice appreso, al primo maestro casuale. Ecco perché i loro cambiamenti - quando autentici - sono quelli più faticosi e più scientificamente rilevanti; quelli attraverso i quali è davvero possibile leggere il senso della Storia più generale.

I toni utilizzati da D’Amicis in questo romanzo di formazione sono a mio avviso teatrali perché dinamici, epici, coinvolgenti, seppure contenuti entro i confini di una rappresentazione  geografica e temporale breve quanto netta. Teatrali proprio perché di portata universale.

Teatrali perché connessi a gesti capaci di diventare i gesti di tutti.

La storia si srotola rapidissima, con dialoghi vorticosi e cambi di prospettiva temporale mulinanti. Angelo sembra un ragazzino dalla logica ferrea, quanto ossessiva; una giovane mente inattaccabile, dotata di quella fermezza che solo i ragazzini sanno possedere con leggerezza. Un ragazzo pronto a qualsiasi gesto pur di difendere il proprio terreno, le proprie certezze. Un ragazzo in apparenza per nulla interessato alle zone d’ombra della propria esistenza, per nulla curioso dell’altro, intento soltanto alla preservazione e perpetuazione violenta del sé, delle proprie comodità, della solidità e del prestigio derivatogli per nascita. Un ragazzo che vuol essere veloce quanto immobile. E cosa è più veloce della violenza? Un ragazzo violento. Tutto questo fino all’insinuarsi del dubbio, dell’amore, delle differenze. Fino all’innamoramento. Fino al sopraggiungere di una Cafona inquietante e dolce: una variabile imprevista che trasforma Angelo da bullo convinto in un Romeo lento, furibondo e inebetito. L’inquinarsi della primaria certezza di un mondo stabilmente diviso in due classi sociali, e quindi per questo migliore, scatena nella mente di Angelo sentimenti contrastanti, violenti, compulsivi. I movimenti del protagonista diventano così più lenti, meno efficaci, mentre il pathos narrativo della vicenda cresce, diventa pulp, diventa buccia di banana sull’asfalto, inquietudine crescente, comicità pura con il contrappunto musicale di picchi di emotività intensa. Il vertice è segnato dal brillare della canna di una pistola, una pistola vera, che con freddezza si oppone all’ uso più rudimentale della sabbia, degli sputi, dei calci, i pizzichi, le meduse in faccia, frequente tra i ragazzi fino a quel momento.

Quella pistola è metafora del cambiamento, come lo stesso autore ha confermato in una delle sue più recenti interviste. I cafoni stanno affilando le armi. I cafoni non si accontentano più, i loro desideri non sono più quelli semplici, immediati e schietti di una volta. Cambia la domanda, cambia l’offerta, cambia il senso di appartenenza alle cose e alle persone, cambiano i consumi e i bisogni. I cafoni aspirano a diventare proletariato, con tutto quello che ciò significa. I cafoni non sono più cafoni. Le classi sociali si moltiplicano, i codici di comunicazione si contaminano, la lotta si fa più opaca, equivoca. Nello stesso tempo si potenzia e si sporca.

L’analisi di D’Amicis, dunque, non è solo personale.

Nel suo romanzo emerge chiaro l’intento di una delazione sociale, che volgendo lo sguardo al passato, illumini il presente. Fotografare gli anni 70, infatti, gli consente di confrontare l’attuale assenza di classi con i rigori del passato, di valutare meglio l’odierno spalancarsi del compasso, del divario sociale, di comprendere il cambiamento per decenni e immagini.

D’Amicis, alla fine possiamo dirlo, confronta le guerre. Quelle di ieri e quelle di oggi.

E, osservando la ridicola evoluzione della nostra specie, riesce a tenere un’euforica, geniale, dettagliatissima contabilità dei vittoriosi e dei vinti.

 

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