GRUPPO
FUCI DI
VENEZIA
RIFLESSIONI
PASTORALI E POLITICHE
IN OCCASIONE
DEL REFERENDUM
VENEZIA, APRILE 1974
Nota introduttiva
Rileggere oggi, nel 2006, il documento con cui il
gruppo degli universitari cattolici della FUCI veneziana nell’aprile del 1974
prendeva posizione sul referendum abrogativo della legge sul divorzio fa una
strana impressione. Da un lato, per la straordinaria libertà di pensiero e
ricchezza intellettuale che vi si esprime, nonostante i limiti che appaiono
evidenti nell’analisi politico-sociale datata e troppo influenzata da categorie
marxiste; dall’altro per la volontà che vi si esprime di protagonismo
ecclesiale di una parte – la più culturalmente evoluta – del laicato cattolico.
Un laicato cattolico che oggi, dopo la scomparsa di figure come Lazzati, sembra
sprofondato nel silenzio. Forse una occasione storica è stata perduta. Forse la
Chiesa italiana si è privata, con un atto di auto-amputazione, di quelli che
potevano essere tra i suoi migliori figli. A seguito della pubblicazione di
questo testo, stampato in 500 copie, il patriarca di Venezia Albino Luciani
decise di sciogliere il gruppo FUCI, togliendogli l’assistente. Non fu
convocato per un colloquio alcuno dei membri laici del gruppo, che pur invocava
il dialogo. Luciani tolse, semplicemente, con un atto amministrativo
l’assistente, un sacerdote. Dimostrando che per la gerarchia cattolica la
posizione del laico è sempre comunque subordinata. Si pensi alla Chiesa
italiana del 2006 e si veda quanta sia la libertà di pensiero di cui godono i
suoi membri.
Novembre 2006
Fabio Brotto
PREMESSA
Questo
documento esce in un’ora
particolarmente calda del dialogo
intra-ecclesiale. È espressione di uno stato di profondo disagio che molti
cattolici stanno vivendo di fronte
alle attuali vicende della Chiesa italiana, ma, nelle intenzioni e crediamo
anche di fatto, vuole rispondere ad una imprescindibile esigenza di
portare un contributo pubblico e costruttivo
al dibattito sull’ormai vicino referendum
abrogativo della legge Fortuna – Baslini. Lo sottoscrive un gruppo di Universitari Cattolici
desiderosi di collocarsi di fronte
al loro Vescovo e a tutta la Comunità diocesana,
con la fiducia che questo documento verrà letto e giudicato con lo stesso spirito con cui fu scritto: spirito
ecclesiale e non di crociata. Ci attendiamo delle critiche anzi le desideriamo,
ma vorremmo che non fossero mosse dall’esterno ma dall’interno della logica di
tutto il documento globalmente preso e soprattutto vorremmo
essere giudicati sulle argomentazioni, sulla loro validità o
meno.Pensare ed aiutare a pensare, contro ogni atteggiamento di
allineamento viscerale o di puro
calcolo tatticistico, sia da una parte che
dall’altra: èquesto lo scopo di questa uscita all’aperto di un gruppo che per tanto tempo ha preferito il lavoro e la riflessione privati. Crediamo al dialogo, sempre, ostinatamente,
cordialmente come premessa
per ogni ulteriore rinnovamento delle nostre chiese. Ci sorprende e ci amareggia il fatto che per ottenere tale spazio dialogico si debba ancora troppo faticare e come sia ancora troppo alto il prezzo per godere e far godere di quella libertà che Cristo ci ha donato. Resta
agli altri, a tutti i nostri interlocutori, contribuire ad allargare questo spazio accettando di porsi almeno in
ascolto - non chiediamo che sia religioso, ci basta che sia rispettoso - della
voce di fratelli più giovani che chiedono la parola.
Siamo
anche consapevoli dei nostri limiti e, coi tempi che
corrono, non è piccola cosa; ma questa
non vuole essere solo un’uscita
modesta. Si tratta più propriamente
di avvertire che il nostro intervento si muove - come appare dal titolo - ai due livelli politico e pastorale sui quali appunto ci costringe e si colloca il referendum. Da un lato ci è parso che sarebbe stato poco corretto un discorso pastorale del tutto astratto dal contesto politico
che ci avrebbe fatto cadere in quella apoliticità-politica che condanniamo; ma dall’altro l’ineludibile
riflessione politica non poteva occupare che uno spazio ridottissimo in un documento che vuol restare prevalentemente di taglio pastorale ed ecclesiale, con la conseguenza—e siamo i primi a riconoscerlo— di una minore profondità dell'analisi che risulta poco sfumata e articolata. Ci scusiamo di questo rimandando il lettore per ulteriori chiarimenti alla nota 31.
Gruppo FUCI di Venezia
Venezia, 16 aprile 1974
1 – INIZIATIVA PASTORALE E TESTIMONIANZA DI FEDE
Si può parlare in modi
diversi, e sotto diverse prospettive, del significato che riveste
il referendum abrogativo
del 12
maggio. Anche noi,
come gruppo FUCI, abbiamo ritenuto necessario esprimere il
nostro parere in proposito; e questo non tanto per
motivi più o meno
estranei ai fini che noi ci proponiamo,
come possono essere motivi politici o puramente culturali, quanto per la ragione stessa che
ci tiene assieme. Riteniamo infatti che uno dei compiti più
direttamente nostri sia l’azione
pastorale, ed è in questa ottica
che vorremmo collocare il nostro
intervento.
Far
pastorale oggi non significa solamente proporsi l’annuncio
della Parola, ma significa soprattutto porre una testimonianza
di fede. La testimonianza è l’annuncio più vero e più
autentico perché è il segno della presenza della fede e la sua
manifestazione più sincera. Proporsi un compito pastorale significa
quindi proporsi di offrire questi segni, per dare al mondo
la speranza che ci proviene dal Cristo.
Perciò, quando parliamo di un’iniziativa di un gruppo FUCI
sul referendum come iniziativa pastorale, intendiamo conferirle questo significato specifico, di essere
cioè testimonianza di fede.
Di quale fede? ci si potrebbe chiedere
subito. La risposta a ciò è il documento stesso che noi presentiamo, proprio perché
esso è l’espressione di un modo storicamente incarnato di
vivere la fede oggi. Riteniamo infatti che non esista un modo univoco di esprimere la fede vissuta, e che il
voler scambiare l'unità della Chiesa con l’univocità sia non solo scorretto ma
mistificante. Ora, quando noi parliamo della fede vissuta, non intendiamo
riferirci al credo universale della Chiesa,
bensì ad una realtà più vasta. Riteniamo infatti che la fede nei principi fondamentali del
cristianesimo non esaurisca la vita
cristiana, e ce lo dimostra la
realtà di molti credenti, i quali vivono e concepiscono la loro fede in relazione alle situazioni in cui si collocano
e in cui maturano.
La fede si concreta e vive in dialettica con i contenuti della storia in
cui essa si trova, e tali contenuti, cioè l’esperienza storica, offrono
propriamente il suo modo di
espressione e di
incidenza sul mondo.
È quindi in questo impatto col
mondo che la stessa
fede dà modi diversi di
espressione-di-fede, proprio perché modi diversi di incarnarla. La testimonianza di fede che
noi intendiamo offrire vuole essere
solo un modo di viverla: il nostro. Esso non vuol porsi né come esauriente, né come il modo migliore: vuole solo essere un contributo alla Chiesa.
2 - FEDE E STORIA
2.1. Il definitivo
non è l’ultimo
Il Dio in cui il cristiano ha fede è l’Emmanuele, il Dio dell’ora
storica. La sua Parola è essenzialmente Parola di promessa, proclamazione e
annuncio di un futuro e perciò istituzione
della provvisorietà e della storicità della realtà attuale.
Ma la definitività della Parola che il Padre pronuncia in Cristo
ed oltre la quale niente sarà mai detto, non chiude forse
la vicenda del tempo? E ancora: l’evento di Cristo, proprio in
quanto evento unico, irrepetibile ed ultimo, non comporta l’assunzione
in sé di tutta la storia umana e non costituisce forse l'annullamento della storicità della
realtà, la sua eternizzazione e perciò la sua conservazione?
Una simile
concezione non comporta, come potrebbe far pensare in un primo tempo, l’esclusione simpliciter dell’escatologia, ma propriamente la sua trasformazione
riduttiva. Infatti questa visione distorta del cristianesimo che, pure,
è stata operante in certi tratti della storia della Chiesa,
intendeva giustamente il mondo post-Christum come l’era dell'adempimento
delle promesse, ma, oltre a ciò,
“fu senza dubbio in grado
di identificare questo adempimento
con l’epifania atemporale dell’eterno presente di Dio”: le
promesse si realizzavano e l’adempimento si manifestava
nella esperienza dello
Spirito, quale avveniva
nella Chiesa e nel sacramento.
Questo Spirito non era concepito
in caparra, ma era l’eterno
Spirito dei cieli che
svelava in pienezza la
solenne signoria celeste di Cristo. (1)
Ma l’età ultima, quella in cui si
realizzano le promesse, l’età dell’adempimento, non è definitiva, cioè non e
definitivamente realizzata: saperla ultima, saperla come l'età escatologica,
non è porla come eterna. In questo senso anche quella Parola definitiva che è l’evento di Cristo è non solo euangèlion ma anche epangelìa, è buona novella e
pro - messa insieme, è rimando ad una
realtà che ha da venire. Cristo, incarnandosi, non ha reso la realtà
definitiva, ma ha istituito un dominio nuovo, interno alla storia, dando
“ad essa il suo fondamento storicamente primo”, costituendola “in quanto storia autentica” (2) e quindi non
chiudendo la vicenda del tempo ma
rispettandola nella sua ambiguità di salvezza e di peccato.
L’età
dell’adempimento è dunque l’età dell’attesa, l’età che passa, l’età da
superare, per cui da un lato “la rinnovazione del mondo è irrevocabilmente fissata” (3) e, dall’altra, spetta agli uomini “completare quanto manca
alle sofferenze di Cristo” (4) affinché egli possa manifestarsi come
Signore nella gloria.
2.2 Contro l’identificazione e contro la
separazione di fede e storia
La fede ha dunque necessità di riconoscersi
all’interno della storia,
di confrontarsi con essa
e di non ritenersene al di fuori: per
la fede la storia non è annullata ma, anzi, è rifondata.
A) Nel rapportare fede e storia
uno degli atteggiamenti più seguiti, anche
a livello di senso comune,
e che ha più inciso
nella vita della Chiesa, è quello
che pur riconoscendo la storicità della realtà
mondana tuttavia non
la vede nella sua
autonomia rispetto alla
fede. Ciò che è indipendente dalla fede non ha rilevanza
né positività, non si inscrive nella
storia della salvezza, costituisce l’inessenziale. In questo senso allora
non si dà dialogo tra campo
mondano e Chiesa, non c’è un riconoscimento reciproco, non c’è la
ricerca di una mediazione. Il mondo reclamante in
senso secolare, il mondo
che pretende una razionalità
sua interna, senza richiamarsi
ai principi religiosi, il mondo che
vuole organizzarsi e dirigersi da
sé è - secondo tale concezione - dominio delle tenebre
e del peccato. Date queste
premesse, la fede si rapporta
alla storia in modo im- mediato, cioè scendendo verticalmente su di essa ed imponendole
i suoi principi: non si dà mediazione alcuna, perché il
termine essenziale è uno solo, la fede. La vita del cristiano non conosce distinzioni tra sfera religiosa e sfera profana,
ma si svolge sempre all'interno della stessa dimensione di fede, che è dunque identica alla storia.
Il mondo umano è concepito come un
livello inferiore della rivelazione divina: esso vale dunque come terreno
di cristianizzazione,
campo di colonizzazione, terra di crociata.
Questa concezione ha subito i primi scossoni col sorgere dell’era moderna, quando, prima di
tutti, la scienza si sganciò dalla teologia,
vedendo nella natura non più Dio, ma una
creatura di Dio, regolata da
proprie leggi. L’accettazione
di un tale processo secolarizzante che, con
lo scorrere del tempo,
assumeva dimensioni sempre più notevoli, non
è stata però facile per i cristiani. Durante tutto il secolo scorso e, a livello di mentalità corrente,
ancora oggi, l’ecclesiologia e la teologia integralista, che
proprio su queste basi si è edificata, ha continuato a dominare. Secondo i suoi
principi originari il cattolicesimo non manca né ha bisogno di nulla, il messaggio cristiano contiene
tutti gli elementi potenzialmente utili per risolvere i problemi politici e sociali, la Chiesa appare come l'unico
rimedio di fronte ai mali della società. La storia umana e le sue conquiste vengono considerate come una successione di errori
e si afferma apertamente che "il
cattolicesimo è l’assoluto bene, la civiltà moderna è l’assoluto male” (5).
Sul piano pratico questa concezione ha
comportato la deduzione immediata dell’agire
politico e dell’etica
sociale
dal messaggio cristiano: è nata
la dottrina sociale cristiana, è
nato il partito dei cattolici. Pure il Concordato ( ci riferiamo particolarmente a quello
italiano) si inscrive - per alcuni suoi
aspetti - in questa logica: “la Santa
Sede e le gerarchie ecclesiastiche individuavano nell’alleanza col regime fascista
nuova insperata possibilità di penetrazione e
riconquista della società italiana” (6).
Ma a tutta questa visione distorta il Concilio Vaticano II
ha già risposto da tempo: “la comunità politica e la Chiesa
sono indipendenti e autonome l’una dall'altra nel proprio campo.
Tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione
personale e sociale delle stesse persone
umane” (7).
B) È proprio dal riconoscimento dell’autonomia
del mondo e dello stato che deriva il secondo modo di prospettare i rapporti tra fede e storia: la separazione.
Di fronte alla critica della religione compiuta dall’Illuminismo e dal marxismo, di fronte al dominio
che ormai l’uomo esercita sul mondo, eludendo il problema di Dio, la risposta di molti credenti è stata quella di rinchiudere la fede
in un guscio mantenendola solo nella
sua valenza individualistico-privata. La
vita del cristiano è lacerata in due sezioni: la vita pubblico-mondana, condotta secondo principi umani,
senza alcun richiamo alla fede, da un lato, e la vita religiosa,
che si esplica solo nella pratica
cultualistico-sacramentale e nel rapporto
privato io - tu, dall'altro. (8)
Una fede siffatta ha tutta una sua vita appartata e astratta
dalle interrogazioni e dalle sollecitazioni della vita pubblica. Questo
spiritualismo privatizzante ha trovato la sua elaborazione
in una teologia le cui “categorie dominanti” sono quelle
“dell'intimo, del privato, dell’a-politico. L’amore come
tutti i fenomeni viene sì enfaticamente sottolineato, ma si manifesta
soltanto... come rapporto io-tu, come incontro interpersonale
o come religione di vicinanza”. (9)
Ma l’amore di Dio non si dirige
mai alla zona senza spazio e senza tempo della coscienza
astratta, ma ha una dimensione storica, pubblica e privata insieme. Già
all’inizio della storia della salvezza
Dio ha basato il suo rapporto con gli
uomini non scegliendo un popolo o una persona, ma l’uno e l’altra insieme. “Il singolo eletto:
patriarca o guida del popolo o giudice
o re o profeta” e tutte “le persone che emergono acquistano il loro ruolo
personale e il loro posto solo in
quanto essi rimandano al popolo, lo rappresentano e lo servono”.
E nel Nuovo Testamento “personalismo e comunità in tanto diventano possibili in quanto più indivisibili, più reciproci” (10). La croce di Cristo,
pertanto “non ha il suo posto nel
privatissimum del rapporto personale-individuale e nemmeno nel sanctissimum di una sfera puramente
religiosa:... essa sta fuori, come la
teologia della lettera agli Ebrei formula
con forza”. (11)
2.3. Mediazione tra
fede e storia: sintesi
nell’autonomia
Ambedue queste concezioni, pur nella loro
diversità, hanno un medesimo
concetto del mondo, come di un campo
profondamente non cristiano e perciò per l’una da distruggere e cristianizzare, per l’altra
da lasciare inalterato, in quanto impermeabile al cristianesimo. Ma in questo
modo ci si rassegna,
al punto
in cui siamo arrivati, a che il processo di
secolarizzazione si sia sviluppato in senso opposto alla storia
della salvezza e non si presta “sufficiente attenzione
al fatto che lo spirito del cristianesimo
è stato
infuso nella carne della storia
del mondo”(12).
È quindi dal riconoscimento
della sostanziale positività dei valori profani che noi riteniamo
di dover impostare
il rapporto fede-storia in termini di mediazione. Ciò presuppone innanzi tutto un dialogo
tra i due termini, in modo da trovare
nel confronto, che è anche critica
reciproca, una posizione unificante, pur senza soffocare
le rispettive autonomie. Perciò
quando noi parliamo di incarnazione
della fede intendiamo riferirci proprio
a questo modo di rapportarsi alla storia da parte della
fede.
Porre questo tipo di
rapporto non significa però ricerca
di una
terza via, di un linguaggio
diverso da quello teologico
e da quello storico, ma l’adozione
di tutti e due i linguaggi nel
tentativo di operare
una sintesi.
3 - LA CHIESA ESPRESSIONE VIVENTE DI UNITÀ NELLA PLURALITÀ
3.1. Pluralità di incarnazioni dell’unica fede
Il messaggio di Dio, che per amore chiama secondo
un’iniziativa gratuita gli uomini alla libertà, si manifesta “non in modo
apocalittico e miracoloso, ma conformemente alla condizione umana”. (13)
L’uomo davanti ad esso
reagisce in modi diversi; anche quando l’accetta e confessa il credo degli
Apostoli e della Chiesa, vive quell’unica fede che lo unisce a tutti i credenti
in modo proprio e personale. “La fede allora acquista un significato e un
valore di moto e di tensione feconda tra momento soggettivo e momento
oggettivo” che dà luogo a una diversità e a un pluralismo all’interno della Chiesa in cui trova spazio la varietà di carismi, di funzioni, di
stati di vita (I Cor. 12), di “tradizioni liturgiche, spirituali, disciplinari,
… teologiche diverse”. (14)
Le ragioni di questa
varietà sono da ricercarsi nell’assoluta trascendenza di “Dio, della sua Parola
e della sua azione - …che si riflette necessariamente nella
libertà e nella varietà dei doni divini ai singoli credenti e alla Chiesa - la
quale implica l’impossibilità per tutto ciò che è umano nella
Chiesa (e sono umane anche la fede e la sua espressione, almeno quanto alla
forma e al limite del contenuto colto, compreso e tradotto in parole) di
aprirsi al possesso, o meglio anche solo all’incontro con detta ricchezza
divina, se non attraverso la strada del progresso continuo e della pluralità
anche contemporanea di modi necessariamente parziali di accostamento, di traduzione,
di interpretazione”. (15)
Prendendo in questo
modo coscienza della sua articolazione interiore, la Chiesa può accogliere come fatto sostanzialmente positivo
(16) il pluralismo della realtà umana temporale, ciò che sarebbe impossibile
invece se “all'interno della sua Chiesa, come credente, il cristiano si
trovasse a dover vivere una formula di vita che fosse tutta l’opposto di quella
civile”(17)
3.2. Ruolo della coscienza del cristiano e ruolo delle
comunità locali nell’azione temporale alla luce della fede
Quando poi dal discorso
sulla Chiesa si passa a considerare l’impegno che è richiesto al cristiano
“affinché il mondo sia imbevuto dello spirito di Cristo” (18), allora è
necessario parlare di una vastissima gamma di incarnazioni nel temporale cui la
fede dà luogo mediandosi con la storia.
Poiché infatti non è
possibile dedurre direttamente dalla fede l’azione che il cristiano deve
condurre nell'ambito della storia e poiché “il messaggio cristiano non ci
fornisce direttamente un programma concreto per l’azione politica”(19) è
legittimo e anzi doveroso che sia lasciato alla “coscienza ... convenientemente
formata” (20) dei singoli e dei gruppi la
responsabilità delle scelte concrete. In questo campo i laici “hanno il posto
di primo piano” (21) poiché è vocazione loro propria “cercare il regno di Dio
trattando le cose temporali” (22). Ad essi spetta dunque di “inscrivere la
legge divina nella vita della città terrena” (23). E poiché le indicazioni
concrete di cui hanno bisogno per portare a termine questo compito non sono
“valide in sé stesse per tutti i tempi e neppure ovunque qui ed ora” (24)
possono manifestarsi opinioni diverse anche sulla medesima questione (25) e
sebbene tutte necessariamente debbano richiamarsi all’ispirazione evangelica a
nessuno è però lecito “rivendicare esclusivamente” in suo favore “l’autorità
della Chiesa”(26).
Proprio per sua natura
intrinseca infatti, il discorso storico-politico si sottrae ad ogni soluzione
che non sia articolata nello spazio e nel tempo. In esso sono decisivi i dati di natura non-teologica che variano
profondamente a seconda delle diverse situazioni concrete, la cui valutazione
spetta perciò preminentemente alle comunità locali alle quali pure dev’essere
trasferito in molti casi il ruolo decisionale.
“Ci è
difficile” afferma Paolo VI nel n. 4 della Octogesima Adveniens “pronunciare
una parola unica e proporre una soluzione di valore universale” “di fronte a situazioni tanto diverse”.
“Spetta alle comunità cristiane individuare - con l’assistenza dello Spirito
Santo, in comunione con i Vescovi responsabili e in dialogo con gli altri
fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà - le scelte e gli
impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali politiche
ed economiche”.
Il
decentramento che è oggi una esigenza storica profondamente avvertita, investe
così anche la Chiesa e si traduce nell’introduzione di “una più ampia
partecipazione degli strati più bassi dell’organizzazione della Chiesa nella
formazione della coscienza telogico-critica della Chiesa in genere”(27).
L’unità della Chiesa
non ne rimane tuttavia compromessa. Come
infatti la varietà nella fede contribuisce a quella superiore forma di unità
che è la cattolicità - la quale non può mai essere fatta coincidere
coll’uniformità o coll’omogeneità – così anche vi contribuisce l’impegno dei laici su diverse posizioni
politiche poiché questo è il modo attraverso il quale passa la faticosa
costruzione dello stesso Regno. La
comunione perfetta è un bene escatologico; non si può anticiparla in questo
tempo interinale se non attraverso la costrizione e in definitiva dimenticando
il rispetto che Dio ha della storia umana. D’altronde la comunione finale è
efficacemente prefigurata già oggi nella celebrazione dell’Eucarestia dove
cristiani divisi sul terreno politico siedono alla stessa mensa e affermano “di
fronte al mondo in un momento di festa, che verrà il tempo in cui i nemici si
trasformeranno in amici e gli avversari si riconosceranno fratelli”.(28)
Accettando
al suo interno questa diversità e questo pluralismo e continuando a
proclamarsi la Cattolica, la Chiesa testimonia al mondo la sua fedeltà allo
Spirito di Pentecoste per virtù del quale i fedeli di Cristo riescono ad
intendersi perfettamente pur parlando lingue diverse.
3.3. Pubblica opinione critica
Questi diversi modi di vivere la fede costituiscono
propriamente la ricchezza della Chiesa, la sua pienezza, la sua universalità.
Proprio perché tale pienezza si manifesti, è necessario che questi diversi modi
si esprimano, si rendano pubblici, si confrontino, dialogando fra loro. La
costruzione della Chiesa, in quanto essa sia al servizio del e nel mondo,
avviene nella dialetticità di queste
opinioni diverse. La loro caratteristica saliente è la critica, non la critica
distruttrice, che nega astrattamente la istituzione in quanto tale, ma la
critica autentica, che è correzione fraterna, e perciò edificazione.
Questa pubblica opinione critica all'interno della
Chiesa è tanto più necessaria, quanto più la Chiesa ritiene di doversi
pronunciare sul mondo e sui problemi della società: “chi infatti se non questa
pubblica opinione deve curarsi che la Chiesa come istituzione non abbia in sé
stessa ciò che critica agli altri?”(29). La credibilità dei suoi pronunciamenti
dipenderà proprio dalla nascita e dal riconoscimento effettivo di una tale
opinione.
Essa è l’espressione, non solo legittima ma doverosa, della
diversificazione interna di questa Chiesa, nella misura in cui essa non ha la
pretesa di dire sui temi politico-sociali una parola decisiva e valida per
tutti i cristiani.
In questo senso riteniamo doveroso per ogni gruppo ecclesiale
e per ogni comunità cristiana rendere pubblica la propria posizione nei
confronti di questo referendum. La comunità dei credenti non deve ritrarsi dal
valutare un fatto politico o dal prendere una determinata posizione, perché in
quel campo non è più direttamente sorretta dalla verità della fede. In virtù
della necessaria mediazione tra fede e storia, la comunità cristiana deve avere
il coraggio di pronunciarsi sui temi
politici, adottando, però, un tipo di linguaggio consapevole della propria
parzialità. “Le nuove fonti per le affermazioni della Chiesa esigono una
maniera completamente nuova di parlare e di esprimersi da parte della Chiesa
... esigono il coraggio di parlare in maniera contingente ed
ipotetica... esigono una parola
orientatrice che non può essere assolutamente obbligatoria, e dottrinale”
(30). Per quanto riguarda il problema specifico del referendum, noi riteniamo
che la sua valutazione vada fatta soprattutto in termini politici, proprio
perché esso non è, come avremo modo di dimostrare più avanti, né uno scontro etico né uno scontro religioso.
Il giudizio su di esso richiede dunque la
adozione di un linguaggio politico. Infatti, poiché la analisi politica non
è un’analisi obiettiva ed universale, ma è inevitabilmente un’interpretazione
dei fatti, parlare del significato del referendum significa inevitabilmente far
politica cioè collocarsi all’interno di un determinato schieramento. È ingenuo
l’atteggiamento di chi pretende di restare dentro la oggettività e
l’imparzialità parlando in termini religiosi di referendum: c’è un modo
cosciente e uno inconsapevole di fare politica. Noi riteniamo doveroso assumere
una posizione che sia consapevole del proprio collocamento.
4 - CONSIDERAZIONI POLITICHE
4.l.l. Lineamenti di analisi storico-politica della
responsabilità dei cattolici al potere (31)
A) L’appoggio concesso dal regime fascista consentì alla
Chiesa di attestarsi nella società italiana su posizioni abbastanza solide da
offrirle in un secondo tempo la possibilità di uno sganciamento. Grazie alla
partecipazione delle masse cattoliche alla Resistenza, il partito democristiano
poté presentarsi alla fine della guerra mondiale come erede del vecchio
moderatismo prefascista; un erede che si valeva inoltre del supporto della
tradizione paternalista e interclassista della Chiesa che controllava gran
parte delle masse contadine (32) e del prezioso appoggio della gerarchia e
delle organizzazioni cattoliche (l’Azione Cattolica con i suoi tre milioni di
scritti che influiva potentemente in periodo elettorale e i Comitati Civici del
professor Luigi Gedda).
Dopo le
elezioni del 1946 - allorché lo scossone impresso dalla Resistenza viene meno -
De Gasperi, che pure nel referendum del ‘46 aveva svolto un’opera importante
indirizzando le masse cattoliche all’appoggio della Repubblica, escluse le
sinistre dal governo (maggio ’47), sotto la spinta della gerarchia
ecclesiastica e di fattori internazionali, e impostò la campagna elettorale in
termini di crociata anticomunista (vedi l’apporto di padre Riccardo Lombardi
detto il microfono di Dio), di fobia per le sinistre e le riforme, di caccia
alle streghe. In un clima così pesante e torbido la DC trionfò e divenne
il maggior partito italiano.
Già sin
da allora si poté individuare la composizione sociale di questo partito: “da
una parte operai e soprattutto coltivatori, nonché piccoli proprietari,
impiegati, professioni liberali, dall’altra grandi proprietari terrieri e
grandi industriali” (33).
Molti dei suoi elettori vedevano nella DC soprattutto il difensore delle
prerogative del cattolicesimo, e un numero assai maggiore un baluardo contro il
comunismo. Nonostante l’indubbia abilità politica di De Gasperi e la sua
indiscutibile vocazione democratica il partito rimase sostanzialmente
arretrato e integralista politicamente, appoggiato in questo dalla Curia. La
struttura amministrativa, giudiziaria, scolastica prefascista e fascista
rimase sostanzialmente immutata. Analogamente - a causa della posizione
privilegiata in cui la Chiesa venne a trovarsi grazie all'articolo 7 della
Costituzione - si rese impossibile ogni costruttivo dibattito politico sulla
sua posizione nella società italiana, e ciò influiva su importanti questioni
relative al divorzio, all’istruzione e alle libertà individuali.
B)
Attraverso pronunciamenti episcopali si insisteva sul concetto che la
virtù cristiana della obbedienza alla
gerarchia poteva essere usata per costringere i fedeli a votare democristiano.
Nel ‘53, dopo il fallimento della legge elettorale truffa, quattro presidenti
del Consiglio democristiani formarono altrettanti governi alla ricerca di una
formula politica che funzionasse, ma che soprattutto riuscisse ad evitare le
scelte troppo nette o le riforme troppo avanzate. G. Pella e A. Fanfani
fecero l’esperimento di governi monocolori, mentre M. Scelba e A. Segni si
adoperarono a riformare un’alleanza che includesse di nuovo liberali e
socialdemocratici.
In realtà
i diversi capi democristiani, legati ad interessi costituiti e intoccabili,
avevano ciascuno qualche titolo da far valere per essere rappresentati nei vari
gabinetti, ed un candidato alla presidenza del Consiglio doveva formarsi
un’ampia piattaforma all’interno del partito prima di guardare agli altri
partiti in vista di un’alleanza. Furono questi gli anni in cui maggiormente si
fece sentire la spinta clericale, dando forza alla grossa fetta integralista
della DC “nel ben noto clima pacelliano e scelbiano che costituì le più dura
umiliazione per l’autonomia dello stato moderno” (Lelio Basso). Gli episodi di
Adone Zoli e, soprattutto, di Tambroni nell'estate del ‘60 sono il limite
estremo di questo clima politico. Tuttavia con l’elezione al papato di Angelo
Roncalli e la riunione del Concilio Vaticano II il cattolicesimo era avviato
verso una grande trasformazione. “La libertà di coscienza, una volta condannata
come un errore dal Sillabo, era ora elogiata come virtù cristiana, e con le
encicliche Mater et Magistra (1961) e Pacem in terris (1963) papa Giovanni mostrava
quanto lontano la Chiesa potesse spingersi sulla via del “progressismo sociale”
(34). Contemporaneamente il rapido sopravvenire del boom economico - fondato
essenzialmente sui consumi privati - contribuì ad abbattere vecchi miti ed ebbe
come risultato la modificazione delle posizioni tradizionali sull’intervento
statale e sulla pianificazione economica. Di questo spostamento a sinistra
sintomo più significativo fu il governo di centro-sinistra, aperto cioè ai
socialisti. Si assistette inoltre alla fine del cosiddetto collateralismo cattolico,
con la scelta di classe delle ACLI maturata sotto Labor e Gabaglio (anche se in
seguito fatta rientrare dall’intervento della gerarchia e della DC), la
perdita d’influenza della Azione Cattolica (attualmente ha circa ottocentomila
iscritti) e la scomparsa dei Comitati Civici (che hanno trovato nel referendum
l’occasione per un miracoloso rilancio). Il centro-sinistra - dopo la
nazionalizzazione dell'industri elettrica, le tasse sui dividendi azionari e
per colpire la speculazione sulle
aree fabbricabili - fu ben presto svuotato de1 suo significato virtualmente innovativo per la forte resistenza
dei settori DC legati alla rendita parassitaria, agli industriali più arretrati
e alla borghesia di provincia, e di alcuni settori del Vaticano, legati ancora
al passato.
C) L’iter
della legge sulle regioni, la messa da parte della legge Sullo che doveva
regolare lo sviluppo urbano e frenare la
speculazione, l’incapacità di riformare l’Università anche per la resistenza
dei baroni, il problema mai risolto del Concordato, della mafia etc.
evidenziarono il carattere sostanzialmente conservatore e antipopolare della
DC. Tale carattere si accentuò dopo il ‘68 e le grandi lotte politiche e ideali
dei lavoratori e degli studenti. La DC, utilizzando politicamente la strategia
della tensione, puntò ad una svolta a destra dell’asse politico generale con la
teoria degli opposti estremismi. Nel maggio ‘72, in un clima particolarmente
pesante, con la teorizzazione fanfaniana della reversibilità delle alleanze la
Dc riuscì a recuperare una grossa aliquota di elettori. Di qui il governo
Andreotti-Malagodi di centro-destra, che peggiorò la bilancia dei pagamenti
anche per il doppio mercato della lira e che decretò le pensioni d’oro ai
super-burocrati.
A questo
punto il senatore Fanfani - visto l’esito fallimentare del governo Andreotti -
prese in mano le redini della DC, affidando a Rumor la presidenza di un governo
di centro-sinistra (giugno-luglio '73).
4.1.2. Il ruolo della famiglia nella società odierna e il
referendum
Oggi la DC, in linea con la politica condotta fino ad ora, va
al referendum presentandosi come partito preoccupato di tutelare con
l’abrogazione del divorzio la stabilità dell’istituto familiare, fondamento
morale della società
È vero che votare SÌ in questa consultazione significa
difendere l'indissolubilità della famiglia, ma di quale famiglia?
Di una
famiglia che non è più segno e mezzo di liberazione dell’uomo. In essa ai
valori di amore, servizio, dialogo, comunitarietà, impegno per il mondo, si
sostituiscono i valori della società capitalistica, a cui è diventata supporto
essenziale. Supporto essenziale in quanto:
A) ad essa è affidato
il compito, attraverso l’educazione basata
sull’autoritarismo e la repressione, di trasmettere il consenso all’ideologia dominante: si è spinti
all’individualismo, alla competitività, al conformismo, al perbenismo,
alla discriminazione del ruolo tra i sessi, alla aspirazione alla sicurezza,
alla diffidenza verso gli altri.
B) nella famiglia
vengono privatizzati ed interiorizzati i conflitti creati dalle strutture;
l'individuo non riesce a scorgere l'origine sociale dei suoi problemi né a
risolverli:
- sui familiari si sfoga la conflittualità accumulata nell’ambiente
di lavoro: vengono così incrinati i rapporti umani mentre le strutture disumane
non vengono intaccate;
- nella casa la donna, con la scusa della sua vocazione
femminile, supplisce alla mancanza di servizi sociali (asili nido, scuole
materne, scuole dell’obbligo a tempo pieno, mense, case per anziani,
ospedali), tappe fondamentali di una politica a favore delle classi più povere;
- in casa la donna torna senza ribellarsi, e quindi a basso
prezzo politico, sempre in nome della sua vocazione, quando l’elasticità del
mercato del lavoro ne richieda il licenziamento;
L’attaccamento a questo tipo di famiglia si giustifica perché
essa appare l’unica isola di solidarietà in una società sempre più atomizzata;
ma questa solidarietà non è basata su valori liberanti e perpetua essa stessa
quella atomizzazione. Il senso più profondo di questa famiglia è il riprodurre le strutture sociali
esistenti e ci sembra di poter esprimere la nostra forte preoccupazione di
fronte al tentativo di cristallizzare questo tipo di comunità familiare.
D’altra parte è vero
che la natura della consultazione in atto è tale da implicare soltanto la limitata questione dell’unità della famiglia?
È facile osservare che:
- la
politica della DC fino ad ora non ha dimostrato alcun impegno reale per
risolvere gli intricati problemi del diritto di famiglia (il primo disegno di
legge in proposito, già approvato alla Camera, è stata osteggiato in Senato da
un senatore della stessa DC, Agrimì, e gli è stato affiancato il nuovo
arretrato progetto di riforma della senatrice Falcucci, che fa parte della
direzione democristiana, con cui vengono annullati i pochi principi innovatori
della proposta precedente);
- la DC
non ha mai individuato e affrontato le reali cause sociali che provocano la
disgregazione della famiglia, quali l’emigrazione, il pendolarismo, il problema
degli alloggi, la carenza di servizi;
- il
divorzio, introdotto ormai da tre anni in Italia, non ha intaccato l’unità
della famiglia, ma ha solamente legalizzato situazioni di divisione già di
fatto presenti;
Appare a
questo punto evidente che si è giunti al referendum non per difendere la
famiglia, ma per modificare gli attuali equilibri politici a favore della parte
più reazionaria e clericale della DC:
- creando
la divisione tra i lavoratori e distogliendoli da più importanti obiettivi di
lotta in un momento in cui il paese è travagliato da una grave crisi economica
ed è in atto una ristrutturazione;
-.riconquistando
alcune frange più conservatrici dell’elettorato democristiano spaventate dalle
presunte aperture a sinistra, tramite una nuova coagulazione del blocco
clerico-moderato;
-
spostando a destra masse cattoliche, che in altre occasioni (cfr. referendum
istituzionale del ‘46) si sono dimostrate aperte a scelte maturate su valori
democratici, e delle quali ora invece si favorisce l’attestamento su posizioni
arretrate.
Ci sembra infine
necessario rispondere ad una obiezione di cui si servono frequentemente le
forze abrogazioniste e che batte
sulle presunte gravissime carenze della legge Fortuna - Baslini, definendola la
più permissiva e la più lassista legge del mondo. Noi riteniamo invece che
questa legge possa essere accettabile come punto di partenza, anche se carente
in alcune sue parti, quindi perfettibile. D’altra parte è chiaro che la
richiesta di abrogazione intende colpire non questa legge ma l’istituto del
divorzio in quanto tale. “Quello che più conta nella legge dal punto di vista
pratico è l’ipotesi prevista dal n. 2 lettera b) dell’art. 3 relativa al
cosiddetto divorzio automatico. Gli altri casi previsti dalla legge sono talmente
gravi che non è possibile in quei casi rifiutare il divorzio se non
appellandosi a una concezione cristiana eroica” (35). Se si fosse voluto porre
la possibilità di una legge migliore - e se davvero la proposta abrogazionista
non fosse caratterizzata in senso confessionale - si sarebbe pertanto chiesta
l’abrogazione di quella parte e non di tutta la legge (36). È evidente anche
da questo che la sconfitta del fronte divorzista rimanderebbe a tempi
imprevedibili la possibilità della reintroduzione dell’istituto del divorzio,
sia pure attraverso una legge più perfezionata.
4.1.3. Prospettive politiche
A questo
punto è lecito chiedersi quali prospettive politiche si apriranno e quali
conseguenze comporterà una vittoria o una sconfitta del fronte abrogazionista.
Il referendum è infatti una consultazione politica e, come ogni consultazione
elettorale, determinerà, anche se non in numero di seggi, i rapporti di forza
tra i partiti . In questo senso anche una espressione politica come questa, che
opera apparentemente sul piano del diritto astratto, senza evidenti capacità di
incidenza sul piano economico sociale, ha pur sempre il potere di condizionare
certe direttive politiche. È proprio riflettendo sull’intreccio esistente tra
quadro istituzionale e società civile, tra momento ideale e struttura
socio-economica, che ci sembra di vedere nel referendum abrogativo non solo la
capacità di cambiare i rapporti di forza tra i partiti ma anche di influire
sugli equilibri politici del paese.
Una vittoria democristiana sarebbe la sconfitta di uno
schieramento in cui la sinistra è predominante e perciò una sconfitta delle masse
popolari. Le forze che hanno voluto e imposto il referendum rappresentano
l’ala più retriva e più reazionaria non solo dell’attuale panorama politico
generale ma della stessa Democrazia Cristiana; quando la loro ideologia non è
costituita dall’integralismo, è per lo meno intessuta di autoritarismo. Una
loro vittoria significherebbe una chiara e netta chiusura verso sinistra e uno
spostamento a destra della stessa DC. Ma non ci sembra di poter escludere
neppure la possibilità che si apra una fase in cui si manifestino gli aspetti
più autoritari della borghesia (regime plebiscitario - che, lungi dall’essere
una forma di democrazia diretta, è in realtà un mezzo di conservazione adottato
spesso dai regimi dittatoriali -, repubblica presidenziale, politica di attacco
al movimento operaio, eventuali elezioni anticipate in un clima ancor peggiore
che nel '72, etc.). In questo senso, dunque, la difesa della legge sul divorzio
assume il significato di opposizione ad un abbastanza prevedibile disegno
politico che rischia di attentare alla stessa vita democratica italiana. Per la
difesa ed il mantenimento di questa vita riteniamo perciò necessaria una
vittoria divorzista.
Infatti
una maggioranza divorzista comporterebbe un ridimensionamento della DC, i cui
settori più arretrati e integralisti dal ‘68 ad oggi puntano a svuotare il
Parlamento dei suoi poteri sovrani, ad emarginare le sinistre, a frenare le lotte
dei lavoratori e l’unità sindacale, e forse a creare le premesse di una
repubblica presidenziale saldamente appoggiata dai grandi potentati privati e
soprattutto pubblici.
Tale
ridimensionamento si rende necessario anche per risolvere quel problema della
famiglia che costituisce per tutti i cristiani un problema ineludibile.
Un NO
all’abrogazione del divorzio potrebbe essere pure un primo passo per avviare
una lotta che tenda a spezzare quei vincoli economico-sociali che molto spesso
sono di impedimento alla realizzazione piena dell’amore familiare.
Oltre a
ciò, una sconfitta democristiana costituirebbe un grave scacco per un modo di
essere e di fare politica da parte della DC: quello integrista, quello cioè di
far leva sul sentimento e sulla tradizione religiosa degli italiani (pur non ammettendolo
esplicitamente). Il referendum è quindi pure una verifica per la stessa DC: una
smentita significherebbe che il terreno religioso è ormai un terreno perdente e
che bisogna impostare diversamente politica. Inoltre, una vittoria divorzista
potrebbe comportare la perdita di una certa credibilità della DC nei confronti
del paese.
Ma che tutto questo determini uno spostamento a sinistra degli
equilibri politici o crei le condizioni per un terreno più favorevole alla
lotta delle masse, tutto ciò è possibile
ma non è per niente certo. Ovviamente saranno decisivi, da un lato, il modo in
cui la DC imposterà l’immediato periodo postelettorale, come, cioè, essa saprà
reagire ad una eventuale sconfitta, dall’altro, il modo in cui il PCI e la
sinistra in genere vorranno utilizzarla.
5 - DIVORZIO CIVILE
E COSCIENZA CRISTIANA
Due modi di affrontare
il problema
5.1.1. Dal modello di famiglia cristiana al diritto-dovere di
attuare tale modello in campo civile
Concezione cristiana.
Il matrimonio
- ogni matrimonio - è il progetto
con cui un uomo e una
donna decidono di realizzare insieme il reciproco completamento,
in una comunione di amore e di
vita sotto la protezione della società, allo scopo di
attuare la loro pienezza
di vita e di perpetuarla.
Per
noi cristiani, questo vivere
insieme di due persone ha anche un valore
religioso, perché realizza oltre che un progetto
umano, anche un progetto di Dio.
Quell’amore è uno spazio privilegiato in cui si annuncia e si realizza (si comunica) l’amore
con cui Dio ama gli uomini,
ogni singolo uomo, destinati alla
comunione con lui.
Perciò il matrimonio è
annuncio di speranza per il mondo.
Ora
l’amore di Dio per noi è gratuito - irrevocabile
- creativo.
Esserne
segno comporta l’impegno della
-
gratuità: significa incondizionatezza, assolutezza, disinteresse.
-
irrevocabilità: significa indissolubilità.
-
creatività: significa orientamento alla fecondità sotto ogni
punto di vista.
L’attesa (appello) di Dio è grande ma resa possibile in Gesù
Cristo, diviene doverosa per il cristiano. Va vista non come
norma estrinseca e imposta dal capriccio di un Dio dispotico, ma innestata nella esigenza più
intima dell’uomo e conseguentemente salvifica.
In Gesù il Padre ci ha
resi capaci d’amare come lui ci ama.
Solo diventando divino l'amore umano viene liberato da ogni
germe di inumanità (egoismo) che vi si nasconde e lo vizia intimamente. Ma in
quanto progetto divino, l’impegno d’amore, che ne vuol essere un segno, si
colloca di colpo allo stesso livello del discorso della montagna, là dove
diventa possibile anche ciò che è impossibile come l’amore ai nemici, ed è
beatitudine, è precetto, non soltanto consiglio.
Tale progetto è offerto alla comunità cristiana e da questa al
mondo come testimonianza che l’uomo in Cristo è diventato nuovo.
II) Diamo
pure per scontato che la nostra coscienza di cattolici non può aver dubbi sul
progetto di Dio. Pure non farebbe problema se oggi in Italia fossimo di fronte
a un divorzio imposto da una maggioranza democratica del nostro paese. La domanda
che oggi ci viene posta dai fatti è la seguente: la coscienza cristiana
ritiene universalmente valido per i fedeli e per tutti gli uomini il proprio
modello di famiglia. Consegue da ciò il diritto-dovere di attuare con tutti i
mezzi leciti (e legali) tale modello in ogni circostanza di tempo e di luogo?
La risposta sembra perfino ovvia: siamo convinti che
l’indissolubilità (accanto a molti altri) è un bene irrinunciabile per un vero
matrimonio; che il divorzio perciò minaccia la società; abbiamo uno strumento
democraticissimo per esprimere la nostra convinzione; dunque non soltanto è
lecito ma doveroso usarlo in questo senso.
Questo ragionamento non
fa una grinza. Pare proprio che sia un pessimo cristiano (o comunque
nell’errore) chi si scosta da tale ordine di pensieri. Invece ci sono
cristiani, e per la verità non del tutto sprovveduti, che si mettono di fronte
a una serie di considerazioni che rendono quanto meno più problematica la
conclusione che a prima vista sembra ovvia.
5.1.2. L’indissolubilità va difesa con la legge?
I) La fede. L’indissolubilità voluta
da Gesù deriva ed è resa possibile dalla fede che fa dell’uomo un uomo nuovo. E
come la fede non si può imporre con la legge, neppure l’indissolubilità che
dalla fede deriva. Perciò l’indissolubilità imposta per legge pur avendo nella
natura stessa dell’amore coniugale e nel bene comune due motivazioni possibili
è essenzialmente diversa da quella del matrimonio cristiano: la prima è voluta
dalla società come bene sociale, la seconda è voluta da Gesù e può essere
vissuta solo come segno e annuncio
del patto amoroso di Dio col mondo (37). Una legge su questo punto che non sia espressione di una coscienza cristiana
matura, ma che intenda essere lo strumento per una formazione di tale
coscienza, porta con sé anche i germi di una desacramentalizzazione del matrimonio
cristiano, facendo della indissolubilità una norma etica. Non crediamo quindi
che si debba e si possa legittimamente far derivare il progetto storico di
matrimonio direttamente dalla fede all’ambito civile.
II) Il dovere dell’animazione cristiana del temporale. La fede però obbliga
il cristiano a creare l’ambiente civile favorevole ai valori della fede. Tali
valori infatti, scoperti all’interno della nostra esperienza di fede, sono
valori profondamente umani e una coscienza
cristiana è meno protetta, soprattutto nella sua fase di formazione, in
ambiente sociale e culturale ostile o semplicemente indifferente a quei
valori. Questi motivi sono estremamente validi in linea di principio, ma il
nostro discorso a questo punto deve storicizzarsi: oggi in Italia i mezzi coi
quali vogliamo promuovere i
valori che aiutino e dispongano alla fede da un altro versante potrebbero
danneggiare quella stessa fede più di quanto la promuovano. Per promuovere
indirettamente la fede la vogliamo danneggiare direttamente? Infatti imporre un
bene con mezzi coercitivi può essere un male:
- primo
perché la stabilità dell’amore coniugale, che è riconosciuta come valore anche
dai divorzisti più laici nell’anima, appare come valore imposto quando solo per
motivi religiosi assurge a valore assoluto che non ammette deroghe. Ed è
impossibile dimostrare il contrario. Quindi l’intransigenza in questo campo è
considerata ed è intransigenza religiosa, integrismo.
- Secondo, perché la Chiesa come tale (nonostante i tentativi
di non apparire) appare di fatto preoccupata di garantire la sua influenza
nelle coscienze con mezzi che non sono i suoi: i suoi sono la parola, la
convinzione, la testimonianza nello Spirito.
Queste
ipotesi non sono di competenza della teologia; vanno verificate storicamente.
Ma è chiaro che se il cristianesimo si espone al pericolo di continuare ad
apparire una religione (è poi davvero soltanto un pericolo?) la cui sola forza
e validità non è la Parola di Dio operante nella Comunità, ma altri strumenti
sociali, ogni gesto che avalla questo compromesso con la nostra fallimentare
società non rende un buon servizio alla fede.
III) il bene comune. È proprio certo che il
bene comune esiga sempre e ovunque che sia tutelata giuridicamente dallo stato
l’indissolubilità del matrimonio? Si dà il caso che nella Carta dei Diritti
dell’uomo figuri anche come riconosciuto dall’umanità attuale il diritto di due
coniugi a divorziare. La dottrina tradizionale cattolica ritiene priva di ogni
fondamento morale una affermazione giuridica del genere. Ma il bene comune che cosa impone in tali
casi?
Sappiamo che il bene comune accanto agli elementi essenziali
comprende pure “contenuti postulati dalle situazioni storiche» (Pacem in
terris). Contenuti che sono connessi con la particolare maturazione di
consapevolezza umana propria dell’epoca moderna. “Nell’epoca moderna – scrive
Giovanni XXIII – l’attuazione del bene comune trova la sua indicazione di
fondo nei diritti e nei doveri della
persona. Per cui i compiti precipui dei poteri pubblici, consistono
soprattutto nel riconoscere, rispettare, comporre, tutelare e promuovere quei
diritti; e nel contribuire di conseguenza a rendere più facile l’adempimento
dei rispettivi doveri.”
Pur non essendo ovviamente il divorzio un diritto-dovere,
rimane tuttavia un fatto nuovo a livello di coscienza dell’umanità attuale, che
può registrare anche un processo involutivo sotto questo aspetto. Ci pare che
proprio la coscienza cattolica del bene comune richieda ai cattolici – per evitare un neointegrismo – da un lato 1) il riconoscimento civile di
diritti comunque affermati dalla coscienza dell’uomo moderno, dall’altro 2) di
promuovere quella composizione di conflitti di coscienza mediante l’adozione
di leggi non coercitive.
. ` `
1) Riconoscimento di
diritti non condivisi. La concezione moderna dello stato proposta dal magistero
consente ai cattolici il riconoscimento giuridico della libertà dell’uomo a
prescindere dalla condivisione dei contenuti di tali libertà.
Caso tipica la libertà religiosa. I cattolici sono stati
bloccati per secoli nel falso presupposto che l’errore non gode degli stessi
diritti della verità. Ci sì è dovuti accorgere che non sono la verità e
l’errore soggetto di diritti ma solo la persona umana portatrice dell’una e dell’altro.
Ci si è dovuti ancora ricordare che la verità non si dà [che] nella libertà e
che senza la libertà della coscienza non si lotta né a favore della verità né a
favore dell’uomo. E solo con la riscoperta di queste che erano verità
dimenticate (salvo restando il dovere di tendere alla verità oggettiva) si
è potuto stendere la Dignitatis Humanae
(Vaticano II) dopo i contributi della v parte della Pacem in terris.
Vi
leggiamo infatti: “Poiché il bene comune della società – che si concreta
nell’insieme delle condizioni sociali grazie alle quali gli uomini possono
perseguire il loro perfezionamento più riccamente e con maggiore speditezza –
consiste soprattutto nell’esercizio dei diritti della persona umana...
tutelare e promuovere gli inviolabili diritti dell’uomo è dovere essenziale di
ogni potestà civile. Deve quindi la potestà civile assicurare a tutti i
cittadini, con leggi giuste e con altri mezzi idonei, l’efficace tutela della
libertà religiosa” (38). Ora se in campo religioso la Chiesa è giunta a
riconoscere il diritto a tutelare la coscienza religiosa anche quando è erronea
in nome della libertà religiosa come libertà civile, che cosa ci impedisce di
estendere questo stesso metodo alla coscienza morale anche erronea quando
questa – come nel caso del divorzio – assurge a livello di coscienza universale
e di legittima aspirazione civile, nonché per certi gruppi, anche religiosa
(per es. gli Ebrei per i quali il diritto al divorzio è sancito dalla loro
fede)? Nella Gaudium et Spes leggiamo che nei contenuti del bene comune – data
la progressiva interdipendenza delle persone e dei gruppi – vanno inseriti
diritti e doveri che riguardano l’intero genere umano. “Pertanto – scrive –
ogni gruppo deve tener conto dei bisogni e delle legittime aspirazioni degli
altri gruppi... contemporaneamente cresce la coscienza della esimia dignità
della persona umana, superiore a tutte le cose, i cui diritti sono universali
e inviolabili” (tra questi annovera il vitto, il vestito, il diritto a
scegliersi liberamente lo stato e a fondare una famiglia) (39).
Ma come applicare
questo discorso nei confronti del presunto diritto a divorziare? A noi pare che
come il conflitto tra bene naturale e bene soprannaturale consentì a S. Paolo
di sacrificare eccezionalmente il primo per salvare il secondo, così in caso di
conflitto tra un presunto diritto naturale (indissolubilità) e un presunto diritto al divorzio le esigenze
del bene comune consentono al legislatore di favorire il secondo senza
sacrificare il primo; mantenendo cioè il globale orientamento del vincolo
coniugale ad una sempre più fondata stabilità. Crediamo infatti che si vada
contro il bene comune in una società pluralistica dove devono coesistere
diverse visioni della vita, quando per salvare un indubbio valore positivo si
dia origine alla spiacevole conseguenza negativa di costringere altri cittadini
a vivere da tollerati.
Certamente
non si può dal punto di vista teologico dedurre come debba comportarsi lo
stato di fronte ad una società in cui - volenti o nolenti - dobbiamo ammettere
che si sta facendo strada un'etica diversa (e non solo dei comportamenti
isolabili e sporadici devianti). Noi dobbiamo come cittadini esprimere non
soltanto in modo meccanico le nostre convinzioni circa il matrimonio, ma proporci
lo stesso problema dello stato e cioè se, nonostante le nostre convinzioni personali,
sia miglior rimedio all'inevitabile e pericoloso dilagare dei fallimenti
matrimoniali
- la
lotta intransigente con strumenti giuridici e penali
- oppure
regolare e disciplinare un male senza sacrificare quell'altro irrinunciabile
bene che è l'accoglienza rispettosa e non soltanto tollerante di altre
concezioni della famiglia nella nostra società che non è più cristiana, e
ancora la promozione, nella libertà anziché nella costrizione, di quei valori
dai quali purtroppo storicamente ci siamo allontanati.
2) Composizione
giuridica dei conflitti di coscienza. La concezione moderna dello stato
proposta dal Magistero prevede che il bene comune non sempre e necessariamente
si realizzi nella perfetta adeguazione tra ordinamento giuridico e ordine
morale (teoria del male minore). Il contrario equivarrebbe a dire che
legalizzare è uguale a liceizzare e che in nessun caso si può giuridicamente
disciplinare un male morale al di fuori della pura e semplice repressione. Ora
è pacifico che bisogna mantenere una costante aderenza tra ordine morale e
ordinamento giuridico nell'uso di leggi impositive, ma non si vede come questa
aderenza possa e debba continuare ad esistere quando non si tratta
di promuovere un bene (nel caso nostro sarebbe il matrimonio indissolubile) ma
di porre rimedio e disciplinare un male, altrimenti incontrollato e dilagante
(nel nostro caso il dilagare del fallimento dell'amore coniugale). Già altre
volte la Chiesa si è trovata di fronte a situazioni gravi della società contro
le quali l'unica ragionevole possibilità era chiaramente non l'uso di mezzi
repressivi ma l'adozione di criteri morali e di mezzi giuridici che favorissero
l'unico bene allora storicamente possibile: il male minore. Così fu adottata
dalla morale cristiana la teoria della guerra giusta; così fu permessa dalla
Chiesa la legalizzazione della prostituzione (anche nello Stato Pontificio),
che rimaneva ovviamente illecita sul piano morale. E così pure per quanto
attiene al divorzio la sua legalizzazione in ogni caso dovrebbe essere sempre
fatta in modo tale che appaia chiaramente che si tratta di disciplinare un male
sociale affinché non dilaghi in forme aberranti e irresponsabili: i fallimenti
del matrimonio.
"La tradizione
morale cristiana - scrive il teologo moralista Tettamanzi - ha gradualmente
raggiunto come pacifica l'affermazione che la legge civile non è obbligata a
proibire qualsiasi male (perché male) o a comandare qualsiasi bene (perché
bene), anzi che la legge civile ha la possibilità o addirittura il dovere di
permettere o tollerare (disciplinandoli) alcuni mali che, nella situazione
storica e sociale concreta, risultano essere mali minori. In base a questo
principio è stato risolto il problema della regolamentazione della
prostituzione e, più recentemente, viene risolto il problema di una
legislazione divorzista”.
È quindi opportuno
ricordare che i cittadini il 12 maggio saranno chiamati alle urne non
semplicemente a delegare persone di fiducia per il potere legislativo, ma
eserciteranno questo potere in
prima persona; devono quindi fare proprio il criterio del bene comune che la
morale cristiana riconosce al legislatore.
5.2. Considerazioni finali
Da tutte queste considerazioni
il procedimento iniziale del punto 5.1.1. - dal proprio modello di famiglia al
diritto-dovere di usare di tutti i
mezzi legali e leciti per attuarlo
sul piano civile - può essere anche invertito:
- la convinzione
religiosa e civile che il fallimento delle coppie sia un male gravissimo
- che il divorzio non
ne costituisce il rimedio unico né
più valido
- che l'indissolubilità
è un bene da perseguire e da promuovere
tutto ciò non solo non
costringe la coscienza cristiana a
combattere il divorzio ma addirittura, in
certe situazioni storiche, può spingere a non combatterlo e a favorirlo.
È qui dove si comprende
che nel problema squisitamente politico e non morale, non religioso, del
referendum, ci si deve muovere esclusivamente con una serie di motivazioni che
ci facciano scegliere il male minore. L'ottimo anche in questo caso può essere
nemico del bene.
Comunque - e questa è
la conclusione di queste riflessioni parziali - molti motivi di carattere
soggettivo e di carattere storico consentono alla coscienza cattolica opzioni
diverse e contrarie, senza venir meno alla propria coerenza obiettiva.
RILEVANZA TEOLOGICA DEL RISULTATO DEL REFERENDUM
6.1. Applicazione paradigmatica del metodo della mediazione
fede-storia ad alcuni aspetti del problema del referendum
È necessario richiamare
a questo punto la dimensione storica pubblica e privata che caratterizza il
rapporto di Dio coll'uomo e che è stata illustrata al punto 2. Ora, poiché il
sacramento è un segno di questo rapporto (cfr. punto 5.1.) deriva che ogni amore che voglia porsi come
sacramentale deve costruirsi su questa complessità di dimensioni e che
anche l’amore tra i coniugi - che può essere cristianamente indissolubile solo
in quanto è sacramentale – deve
collocarsi nella storia ed essere pubblico e privato insieme.
Di fatto, invece, l'analisi positiva (cfr. punto 4) ci mette
davanti ad una famiglia che si costruisce su tutt'altre dimensioni.
L'analisi
espressa in quel punto in termini prevalentemente politici può essere qui
riesposta e approfondita in termini già mediati e più disponibili ad una
valutazione alla luce della fede, affermando che una tale famiglia, determinata
quanto al suo modo di essere dalla realtà sociale, e che proprio per questo
tende consapevolmente a porsi come luogo
chiuso alla vicenda del mondo, come corpo separato,estraneo ai problemi, alle ansie, agli sforzi
verso la giustizia la fratellanza e la pace espressi dalla comunità
circostante, è fatalmente destinata a compromettere la sua dimensione
sacramentale e nonostante rispetti l'indissolubilità imposta, è pallidissima
immagine della famiglia cristiana. Essa si riduce ad essere segno di un amore
chiuso e limitato, che si esaurisce nella difesa di sé stesso dando luogo ad
una vera idolatria della famiglia anziché espandersi in un coraggioso annuncio
al mondo. A questo amore viene sottratta ogni capacità liberante poiché i
coniugi spostano a livello di coppia l'esperienza individualistica vissuta
prima di sposarsi e si amano come privati e non come persone che per essere
autenticamente tali devono valorizzare la dimensione pubblico-politica della
loro esistenza; infatti "l’individualità viene menomata quando ciascuno
decide di far parte per sé stesso" (40).
Questa
figura di famiglia desacramentalizzata, largamente prevalente come realtà di
fatto, si riflette anche a livello di mentalità corrente poiché molti,
soprattutto tra i sacerdoti,
persistono a svalutare la famiglia
nei confronti dell'ordinazione come se solo in questa venisse salvato il valore
universale e cosmico del sacramento, mentre in quella l'amore per essere
fedele a sé stesso fosse destinato a chiudersi tra quattro mura e trovasse
l'espressione più piena in quanti, ligi agli pseudovalori borghesi del buon nome,
del benessere economico, del perbenismo, si dichiarano disposti “a fare
qualsiasi cosa per la famiglia”; ammettendo già con questo di contrapporla in
modo netto alla comunità.
La
desuetudine a riflettere sul suo valore sacramentale fa sì che in molti
ambienti cristiani il tipo di famiglia attuale venga elevato a modello degno di
essere perfezionato e propagato. Non è esagerato affermare che dalla catechesi
che ne deriva nascono molti mali alla famiglia e particolarmente a quelle nuove
che si vengono formando.
La strada
che viene loro proposta infatti non è autenticamente critica e liberante nei
confronti dell'egoismo e degli altri valori negativi celebrati dalla nostra
società, ma conduce, contro le intenzioni, ad una razionalizzazione del modello
che si vorrebbe trascendere.
L'ideale
che si persegue invero è astratto e deriva da una analisi che non prende sul
serio e non va alla radice delle contraddizioni sociali esistenti e perciò non
è capace di rispettare tutta la carica profetica della Parola di Dio.
Alla
richiesta di una famiglia nuova che viene dal mondo il cristiano dà una
risposta con cui dimostra di non aver capito la domanda.
L'inadeguatezza
di tale risposta si traduce in debolezza per la famiglia che, mal provvista
per superare le tensioni cui è inevitabilmente destinata, facilmente entra in
crisi e spesso arriva a quei fallimenti il cui elevatissimo numero ha reso
così forte anche in Italia la domanda di una legislazione divorzista.
Ora, per
restituirle il suo significato sacramentale, è necessario operare per un
superamento di questa figura di famiglia in favore di una più autentica che
manifesti al mondo come la celebrazione del matrimonio - la quale non si riduce
all'atto compiuto in chiesa ma si prolunga nel tempo, per cui si può parlare di
uno stato nuziale - è una liturgia permanente, cioè "un'azione mediante la
quale un gruppo di persone diviene comunitariamente qualche cosa che esse non
erano in quanto semplice collezione di individui,.. una funzione o un ministero
di un uomo o di un gruppo a favore e nell'interesse dell'intera comunità"
(41).
Ma allora
è necessario, proprio per propagare nella società condizioni favorevoli alla
fede, dire NO all'abrogazione della legge sul divorzio la quale - come si è
detto al punto 4 - per gli spostamenti politici che comporterebbe all'interno
della situazione italiana, non farebbe che aggravare o per lo meno
cristallizzare lo stato di separazione della famiglia dalla storia, superabile
solo attraverso una politica di coraggiosa apertura alle istanze delle forze
più autenticamente democratiche e progressiste presenti in Italia.
6.2.
Sacramento e legge
Il nostro
No viene pertanto ad assumere, quanto allo scopo che intende raggiungere, una
dimensione teologica, anche per ciò che riguarda le implicanze politiche che ne
derivano.
In
riferimento alle implicanze ecclesiali, una ulteriore motivazione deriva dal
fatto che la desacramentalizzazione del matrimonio ha una causa primaria nel
progressivo confondersi della dimensione religiosa colla dimensione civile e
giuridica; fenomeno che - manifestatosi già da tempi molto lontani - è
culminato in un Concordato in cui la Chiesa accetta che si dica da parte dello
stato di Mussolini che "volendo ridonare all'istituto del matrimonio
dignità conforme alle tradizioni cattoliche" si riconoscono "al sacramento
del matrimonio gli effetti civili".
Non c'è
dubbio che da un tale riconoscimento viene offuscata - sia agli occhi dei
fedeli, sia agli occhi del mondo - la novità del sacramento che non sopporta confronto
con fatti accadimenti o categorie puramente umani. Infatti la Chiesa quando
celebra un sacramento annuncia "la signoria salvifica del Cristo mediante
la Parola ricevuta e annunciata, la fede e la preghiera. Tutta la sua forza
anche in quanto comunità cultuale e di fede sta in questa possibilità e
capacità di annuncio" (42).
Ed è
evidente che l'indissolubilità garantita legalmente non contribuisce -
soprattutto se promossa dai fedeli in quanto si sentono responsabili della
Chiesa - a purificare il matrimonio cristiano poiché la traduzione giuridica
che ne è solo una conseguenza accentuerebbe la propria tendenza "ad
assumere una rilevanza quasi unica, così che a forza di difendere
l'indissolubilità come fatto giuridico... si finisce per svuotare il senso
originale di alleanza" (43). Assolutizzando il relativo, cioè la legge, si
relativizza l’assoluto, il sacramento.
La legge per il
cristiano è sempre un fatto ambiguo poiché pur servendo alla fede spesso tende
anche a soffocarla quando - non sorretta dalla coscienza - pretende di essere
unico strumento di formazione di essa. Particolarmente compromesso in una
visione legalistica è il sacramento il quale "implica necessariamente
l'idea della trasformazione, rimanda all'evento ultimo della morte e resurrezione
di Cristo, è sempre sacramento del Regno" (44). Presentando pertanto una
profonda carica escatologica, attiene alla profezia e non può non essere
profondamente corrotto dal contatto intimo e soffocante colla legge.
7 - COMUNIONE ECCLESIALE E COLLABORAZIONE CRITICA
A questo
punto è facile rilevare un certo disaccordo dalla presa di posizione ufficiale
della CEI. Questo disaccordo e la espressione pubblica di esso non riteniamo
compromettano la nostra appartenenza alla Chiesa e nemmeno la possibilità di
una collaborazione particolarmente stretta coi Vescovi qual è quella propria
dell'Azione Cattolica.
La
collaborazione infatti non richiede uniformità di opinioni. Per quanto riguarda
la FUCI essa si concretizza nell'assunzione di un impegno pastorale non
occasionale ma inserito nel complesso organico della pastorale diocesana e
portato avanti con attenzione costante e rispettosa - sebbene talvolta critica
nella carità - alle indicazioni del Magistero. Questo impegno pastorale ha
caratteristiche particolari derivanti dalla natura universitaria della
federazione e tra queste c'è lo sforzo di contribuire con un discorso rigoroso
sia sul piano della cultura che della fede alle riflessioni teologiche mediante
le quali il popolo di Dio prende coscienza di sé stesso.
Ci pare
che questo impegno possa comunque contribuire all'edificazione della Chiesa
anche quando le valutazioni nostre divergono, come in questo caso, da quelle
dei Vescovi su argomenti, com'è questo del referendum, di natura chiaramente
opinabile.
E
crediamo di poter esprimere pubblicamente la nostra opinione anche dopo che i
Vescovi si siano pronunciati, senza paura di disorientare i fedeli, poiché la
Chiesa ha voluto nel Vaticano II definirsi solennemente e insistentemente
imperfetta e provvisoria - pur rivendicando contemporaneamente l'ornamento
della vera santità (45) - ed orientata escatologicamente verso una comunione
che sarà piena solo alla fine dei
tempi.
In una
Chiesa come questa, che non vuole considerare il mondo come nemico e
presentarsi ad esso come una fortezza in terra straniera, la manifestazione
pubblica di una comunione imperfetta non è ammissione di debolezza, ma anzi di
fiducia nello Spirito che da questa imperfezione sa trarre l'unità perfetta.
Inoltre
sempre il Concilio ha nettamente superato la concezione pessimistica di un uomo
incapace di autonomia e bisognoso di essere non solo guidato e corretto, ma
anche costantemente limitato e costretto, ed ha indicato invece che “il vero
vertice cui deve mirare ogni sforzo della Chiesa ... è la coscienza cristiana matura". Perciò
"è necessario eliminare ogni ragione o pretesto di sospetto nei confronti
della coscienza dei cattolici. Non si dovrebbe mai poterli accusare di
clericalismo, di estrinsecismo, quasi fossero perpetui minorenni, braccio
secolare del clero, manovrati da altri che pensano e decidono per loro perché
unici interpreti della legge morale" (46)
Indubbiamente
dietro a molti interventi pastorali c'è stata e c'è una preoccupazione che non
può essere compresa se non se ne cercano le radici in una precomprensione
dell'uomo, in una decisione filosofica sulla sua natura che risente in qualche
misura ancora di una mentalità la cui genesi risale al tempo della
Controriforma.
Ci sembra
che oggi la maturità del mondo e dei cattolici abbia posto solide basi per un
cambiamento positivo di mentalità.
8 - VERSO UN RAPPORTO CHE LASCI SPAZIO ALLA CRITICA
COSTRUTTIVA E PUBBLICA
Questo
nostro intervento pubblico non vuole, per tutto quanto si è venuto dicendo,
essere un intervento di critica dura e lacerante. Vuole essere un intervento
costruttivo per rivendicare uno spazio di libertà al quale non ci sentiamo in
coscienza di poter rinunciare. Riteniamo con questo di assolvere a un
diritto-dovere che oggi si fa particolarmente impellente poiché si tratta di
guadagnare, nelle idee e insieme nei fatti, un coraggio, una franchezza,
un'autonomia e una capacità critica adeguati al momento e senza i quali il
cattolico non può dirsi degno cittadino del mondo moderno né membro autentico
della Chiesa contemporanea profondamente segnata dal Concilio e dal pontificato
di papa Giovanni. Ci sembra che valga ormai solo come termine di confronto
negativo l'esempio dei molti che in passato scelsero nel silenzio la risposta
alle divergenze con autorità ecclesiali - anche su un piano squisitamente
politico come ad es. fu per i popolari dopo il '26 - e "si ritirarono in buon ordine a vita
privata aspettando, in tempi migliori, una nuova chiamata della Chiesa".
(47)
Oggi che la Chiesa
manifesta - se pure in modo non privo di contrasti - "il coraggio di fare
affidamento sulla coscienza dei cristiani maturi dandole spazio di iniziativa e
di libertà" (48) ed esorta i Pastori affinché "si servano volentieri del prudente... consiglio dei laici,
con fiducia affidino loro degli uffici in
servizio della Chiesa e lascino loro libertà e campo di agire, anzi li
incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa"
(49), mentre d'altra parte ammonisce gli stessi laici a non pensare "che
i loro Pastori siano sempre esperti a tal punto che ad ogni nuovo problema che
sorge, anche a quelli più gravi, essi possano avere pronta una soluzione
concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione" (50); oggi
dunque ci sembra che quanto in passato poté avere senz'altro valore esemplare e
costruttivo, vada considerato ciò che precisamente bisogna evitare di fare. È
un'esigenza dei tempi quella alla quale vogliamo rispondere, una cogenza storica cui non vogliamo
sottrarci e che a nostro giudizio impone come improrogabile "l’uscire allo
scoperto di un certo milieu
cattolico, tradizionalmente disposto a sciogliere nel chiuso del proprio
particolare i contrasti tra un indirizzo più o meno costringente delle
strutture ecclesiali e le convinzioni
che vengono a maturare al suo interno" (51).
Il consenso pedissequo, intimo e totale, il silenzio, non ci
paiono più allora cose degne del cristiano e della
Chiesa di oggi. D'altra parte non vogliamo porci con questo sulle posizioni di
quanti, forse resi impazienti da vicende ecclesiali particolarmente dolorose,
credono la Chiesa si costruisca in una contrapposizione netta colle istituzioni
e colla gerarchia.
Siamo
convinti che l'antinomia tra consenso passivo e dissenso globale sia superabile
in un rapporto di autentica comunione e collaborazione che, consapevole della
sua natura necessariamente imperfetta, lasci spazio all'espressione di
opinioni e di scelte diverse.
Alla creazione
di questo rapporto intendiamo contribuire con questo intervento che chiudiamo
sollecitando il contributo caritatevole e la correzione fraterna di quanti vi
presteranno attenzione e annunciando la nostra speranza, che in Cristo è già
certezza, in una Chiesa più fedele alla sua missione per un mondo più
ubbidiente alla volontà del Padre.
N 0 T E
(1) J. MOLTMANN, Teologia della speranza, Queriniana Brescia
1972, p. 161.
(2) J. B. METZ, Sulla teologia del mondo, Queriniana Brescia
1971, p. 20.
(3) Lumen Gentium, 48 (Deh. 417).
(4)
Lettera ai Colossesi, 1, 24.
(5) Donoso Cortés, cit. in Y. CONGAR, L'ecclésiologie de la
révolution
française au concile du Vatican sous le signe de l'affermation de 1'autorité in
L'ecclésiologie
au
XIX siècle, ed. du Cerf, Paris 1960, p. 80.
(6) G. MICCOLI, Chiesa e società in Italia dal Concilio Vaticano
I (1870) al pontificato di Giovanni XXIII in Storia d'Italia, Einaudi 1973,
5,II, p. 1519.
(7)
Gaudium et Spes, 76 (Deh. 1581).
(8) Cfr. Gaudium et Spes, 43 (Deh. 1454).
9) J. B,
METZ, op. cit., p. 108.
(10) H. URS VON
BALTHASAR, L'impegno del cristiano nel mondo,
Jaca Book
Milano 1971, pp. 27-28.
(11) J. B. METZ, op.
cit., p. 112.
(12) Ivi, p. 13.
(13) R. AUBERT,
Introduzione generale alla Nuova Storia della
Chiesa,
Marietti Torino 1970, p. 13.
(14) Mons. L. SARTORI,
Fede obbedienza e pluralismo nel Vaticano II, "Humanitas" 1-2 (1969),
p. 113.
(15)
Ivi, pp. 109-110.
(16)
Cfr. Gravissimum Educationis, 7 (Deh. 833).
(17) Mons. L. SARTORI,
op. cit., p. 109.
(18) Lumen Gentium, 36
(Deh. 379).
(19) E. SCHILLEBEECHX,
Il magistero e il mondo della politica,
"Concilium"
6 (1968), p. 36.
(20)
Gaudium et Spes, 43 (Deh. 1455).
(21)
Lumen Gentium, 36 (Deh. 379).
(22)
Lumen Gentium, 31 (Deh. 363).
(23)
Gaudium et Spes, 43 (Deh. 1455).
(24)
E. SCHILLEBEECHX, op. cit., p. 51.
(25) A questo proposito G. LAZZATI in Azione cattolica e
azione politica, La Locusta Vicenza 1962, cita il seguente pensiero di
Maritain: "Quando l'obiettivo di tale azione è la vita terrena degli
uomini, quando concerne interessi terreni, tale o tal altro ideale del bene
comune terreno e le vie e i mezzi per realizzarlo, è normale che si spezzi una
unanimità il cui centro è d'ordine sopratemporale e che i cristiani che si comunicano
alla stessa mensa si trovino divisi nella città...".
(26) Gaudium et Spes,
43 (Deh. 1456).
(27) T.
M. STEEMAN, Ruolo politico della comunità cristiana tra integralismo e impegno
critico, "Concilium" 4 (1973),p.65.
(29) J. B.
(30) Ibid.
(31) Questo punto potrà
apparire, ed è di fatto, appena abbozzato. Siamo stati impediti di svolgere
un'analisi più ampia e articolata da ragioni di economia interna di questo
documento. Poiché il taglio è propriamente metodologico e pastorale, i
contenuti di questa analisi sono solo indicativi dell'ottica in cui si
collocano gli estensori (cfr. premessa).
(32) "In Italia la quistione contadina ha (...) assunto
due forme tipiche e peculiari, la quistione meridionale e la quistione vaticana"
A. GRAMSCI, Alcuni temi della quistione meridionale, in La costituzione del
partito comunista 1923-1926, Torino 1971, p. 140.
(33) F. CHABOD, Italia
contemporanea, Torino, p. 174.
(34) D.
MACK SMITH, Storia d'Italia dal 1861 al 1969, Laterza Bari, p. 778.
(35) P. SCOPPOLA, in Divorzio e referendum, Il Mulino Bologna
1972, p. 99.
(36) Questa volontà di abrogare l'istituto del divorzio in
quanto tale emerge chiaramente d'altra parte dalla relazione di minoranza al
dibattito sulla legge Fortuna-Baslini alla Camera, redatta dai deputati
democristiani Castelli e Maria Eletta Martini, ove è detto "eravamo e
siamo contrari all'istituto del divorzio comunque configurato e
disciplinato".
(37) Anzi, si può addirittura dire che al di fuori di questo
discorso sacramentale non si può rispettare l'impegno alla indissolubilità. G.
Lazzati, in 1'"Avvenire" del 3 marzo 1974, così si è espresso:
"Cristo stesso non ha esitato ad ammetterlo, giustificando perché prima
della sua venuta fosse concesso ai
padri ebrei di divorziare. La ragione del fatto è per Cristo nella incapacità
dell'uomo a cogliere e attuare con le sole sue forze l’esigenza profonda del
proprio essere. Tale incapacità, che Cristo chiama duritia cordis, è superata in virtù della fede".
(38) Dignitatis Humanae,
6 (Deh. 1058-59).
(39) Gaudium et Spes, 26 (Deh.
1399-1400).
(40) M.
HORKHEIMER, L'eclisse della ragione, Einaudi Torino 1972, p. 118.
(41) A.
SCHMEMANN, Il mondo come sacramento, Quariniana Brescia 1969, p. 13.
(42) V.
JOANNES, Il referendum sul divorzio: questione per la coscienza dei cristiani,
"IDOC internazionale" 4-5
(1974) p. 52.
(43) Ivi, p. 50.
(44) A. SCHMEMANN, op. cit., p. 87.
(45) Lumen Gentium, 48 (Deh. 417).
(46) Mons. L. SARTORI, I concordati alla luce
dell'ecclesiologia del
Vaticano II, "Humanitas" 1-2 (1974), p. 14.
(47) G. MICCOLI, oD, cit., p. 1520.
(48)
Mons. L. SARTORI, I concordati cit., p. 28.
(49)
Lumen Gentium, 37 (Deh. 384).
(50)
Gaudium et Spes, 43 (Deh. 1455).
(51) P. PRATESI, I
cattolici oltre il referendum,“Settegiorni in Italia e nel mondo" 347
(1974), p. 17.
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