DUE SAGGI

‹‹Nino Famà. “La stanza segreta”›› di Giuseppe Condorelli

‹‹Struttura e Fabula ne “La Stanza Segreta” di Nino Famà›› di Gino Trapani

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 Nino Famà. La stanza segreta

di Giuseppe Condorelli*

 

Il tempo covava in me le sue uova maligne”.

 

Nel prologo de “La stanza segreta”, edita da Salvatore Sciascia, Nino Famà pare avvertire il lettore della necessità di una bildung ineludibile e dolorosa attraverso la memoria per la riconquista di una identità.

Questa memoria non è agita solo come “recherche” ma come discesa agli inferi, lancinante fino alle proprie radici; è una memoria-bolo perché il protagonista sarà costretto - a suo stesso dire - a rigurgitare il passato “come un cibo mal digerito”. E’ posto in questo modo il profilo del narratore-protagonista, nonostante Famà si sforzi di evitare ogni sovrapposizione.

Questa sorta di manipolazione del vissuto – c’è una eco della sveviana coscienza di Zeno nel rapporto con lo psicanalista – rimanda ad un’altra manipolazione: quella letteraria.

All’inizio di tutto c’è infatti un manoscritto (il diario del nonno in questo caso), uno scartafaccio, alcune carte che sono allusioni ad un topos letterario – si pensi a Cervantes e a Manzoni; addirittura Famà allude a certe “registrazioni vocali” che sembrano sottolinearlo ancora di più.

Lo stesso protagonista Nicky, giovane studente di filosofia, comincerà a trascrivere il diario del nonno. Il fatto che avvenga a Windsor, una città del Canada, in uno di quei non-luoghi per eccellenza, come li chiama Marc Augè, è sintomatico del contrasto tra una interiorità affamata di radici e un contesto assolutamente anonimo: da cui si fugge per esempio con il cinema; “Nuovo Cinema Paradiso” è indicativo della scelta-ricerca.

A questo proposito è emblematica la figura del padre “un meccanismo che gira in folle, come il tempo che non si aggancia alla realtà” con cui il protagonista vive un rapporto assai ambiguo. Mario, il fratello, è un errante alla ricerca di se stesso, lontano dalla memoria della famiglia, un estraneo insomma. Il nonno, invece, presente in tutte le pagine del libro, è una sorta di genius loci della narrazione: ogni pagina del libro ne trasuda la presenza.

Ovviamente ogni traduzione attesta un tradimento eppure la lettura-trascrizione non solo diventa una ossessione (nel VI capitolo il protagonista ci ragguaglia sulla ‘metodologia’ della riscrittura) ma  permette una sorta di ritrovamento anche della famiglia: non è un caso che Nicky studente di Filosofia scelga una materia - Storia italiana dall’unificazione al presente - che possa ricondurlo alla terra dei suoi antenati.

E la sua non è solo la storia della famiglia Nicoterra e di Toloma (ovvero l’altro nome della natia Barcellona) ma quella delle classi subalterne, le vicende di coloro che gridano dai sotterranei della storia: braccianti, contadini, proletari e che guardano la Storia – la prima e la seconda Guerra Mondiale, la nobiltà esangue ma ancora potente, l’avvento del fascismo e di Mussolini “eminente sovrano dal volto olivastro”, la moderna realtà globalizzata e piatta – con occhi disincantati e passivi.

Insomma Famà ci restituisce immagini di una Italia rurale che ormai non esiste più: una sorta di  “Albero degli zoccoli” piantato molto più a Sud.

C’è in tutto il romanzo un’aura magica – si pensi a Don Mico, questo piccolo essere soprannaturale, un elfo che “sistema” le stagioni - una dimensione favolistica, quella cosmica corrispondenza cara a Giuseppe Bonaviri… Proprio in riferimento alla scrittura bonaviriana c’è un rapporto del protagonista col paesaggio davvero singolare, che dovrebbe essere indagato.

Un paesaggio al tempo stesso paradisiaco ed infernale, fatto di “gente triste, paesi poveri, sole scottante, vento scirocco, terre arse; non capisco perché la gente resti ancora lì…” e che fa la spola tra l’irrimediabilità che Tomasi di Lampedusa denunciava e squarci alla Turner: “Intanto le nuvole incominciavano ad allontanarsi e attraverso gli squarci d’azzurro si potevano vedere i bagliori del tramonto, ma nelle montagne adiacenti persisteva una bruma bianca, il vapore che scaturiva dalla terra si appiccicava alla loro superficie sottraendo alla vista la loro maestosa e imponente esistenza”.   

Nell’apparente deluge finale, quasi inarrestabile avviene però l’agnizione, l’autoriconoscimento del protagonista:

“Nicola era stato il nome di mio nonno, era stato il nome del mio antenato ora al sentirmi chiamare con quel nome fu come se all’improvviso la mia esistenza si permeasse d’una realtà che sempre era stata latente nella mia vita e che ora, tramite le memorie di mio nonno, mi collegava ad un passato che, lo volessi o no, era nel sangue che scorreva nelle mie vene”.

“L’atomo sganciato” che Nicky sente di essere può dunque trovare ancora radici proprio in quei valori trasmessi dal nonno, lì dove “le sue ansie vanno a dissetarsi”. Possono trovare consistenza proprio in quella stanza segreta del titolo: la stanza che custodisce con gli odori, coi semi, con i ricordi della propria terra, l’arca di una appartenenza che non a caso è quella evocata dalla citazione iniziale da La luna e i falò.

Essa richiama le credenze della popolazione contadina che, anche dopo la guerra, crede che il risultato positivo o negativo del raccolto sia determinato dalla posizione della luna e dai falò, così come il protagonista, prima della partenza: egli pensava e viveva come tutti i contadini del paese.

Al suo ritorno a casa, dopo aver fatto fortuna oltreoceano, ormai cresciuto anche culturalmente, non crede più, ma si rende conto che la mentalità contadina non è affatto cambiata: quegli uomini prestano fede alle stesse credenze popolari, si comportano ancora allo stesso modo, ma capisce anche che la (sua) vita perde di sapore e di significato senza “la luna” e i “falò”.

Il finale, volutamente ambiguo, lascia poi spazio a quella “fortuna” sotto la cui stella si dipanano gli avvenimenti umani: non è un caso che nell’incipit del romanzo, citando il Cervantes del Don Chisciotte ma rifacendosi ad un concetto rinascimentale (che trova pure spazio in un capitolo del “Principe” di Machiavelli), Famà scriva che la Fortuna “es una mujer borracha y antojadiza”.

Allo stesso modo la presenza di altre due citazioni – Vittorini e Pavese, come abbiamo già scritto - chiude il cerchio della sua cifra ideologica e narrativa: se gli “astratti furori” di “Conversazione in Sicilia” consentono a Famà di narrare le speranze e “il dolore del mondo offeso” è certo il Pavese de “La luna e i falò” ad offrirne la chiave di lettura:  parafrasando ciò che Calvino scriveva a proposito di quel romanzo, anche “La stanza segreta” “ruota intorno a un tema nascosto, a una cosa non detta che è la vera cosa che egli vuol dire e che si può dire solo tacendola”. Un silenzio discreto che offre in questo delicato esordio il senso di un ritorno e di una appartenenza. 

 

* Giuseppe Condorelli insegna Letteratura italiana e Storia nelle scuole superiori. Organizza e cura "Interminati Spazi," rassegna di incontri con l'autore, si occupa di critica letteraria e teatrale su quotidiani, settimanali e altre riviste specializzate ed è autore di un romanzo: "La galassia di plastica ," di prossima apparizione.

 

 

Struttura e Fabula ne La Stanza Segreta di Nino Famà

di Gino Trapani*

La stanza segreta di Nino Famà (Sciascia Editore, 2004) è un romanzo di facile lettura, caratterizzato da semplicità di linguaggio e da una fabula che è collocata su due piani: da un lato la vita interiore di Nicky, il giovane figlio di emigranti che vive in una anonima città del Nord America, studia filosofia e si mantiene all’università con il lavoro estivo in fabbrica; dall’altro la saga della sua famiglia, che si è svolta in una prima fase in Sicilia – tra la fine dell’Ottocento e gli anni del secondo dopoguerra e in una seconda fase –in seguito all’emigrazione del nonno Coco Nicoterra – in America. Nonostante l’apparente semplicità del linguaggio, il racconto rivela nella struttura e nelle tecniche narrative una complessità e una plurivocità che ne rendono difficile la classificazione in un determinato filone della narrativa.

Frequenti sono i riferimenti intertestuali, ai quali il lettore viene indirizzato anche dalle tre epigrafi iniziali, tratte da Vittorini, Pavese e Cervantes, sulle quali si potrebbe imbastire un lungo discorso.

Sebbene in alcuni passi il testo sembri mimare il realismo ottocentesco, in effetti si tratta di un realismo antinaturalistico. In altri passi sono evidenti echi del realismo magico di provenienza ibero-americana. Ma è presente anche l’influsso della narrativa postmoderna di giovani scrittori come Arriaga, Fuguet ed altri che hanno preso le distanze da Garcia Marquez e dal suo Macondo. Quest’influsso serve soprattutto nella scelta di concentrare il racconto, non solo sull’epopea e sull’elegia del mondo contadino, ma in particolare sulla nevrosi dell’ultimo rampollo della famiglia Nicoterra, il giovane Nicky, del quale viene scandagliata l’interiorità.

            E veniamo ai dati strutturali, nei quali l’autore ha traslitterato il messaggio del romanzo. La stanza segreta è composta da un prologo, da tre parti o sezioni, suddivise in 28 capitoli per lo più brevi e da un epilogo. Il prologo ha la funzione di Argumentum informativo. La prima e la terza parte sono ambientate in una anonima città nord americana dei nostri giorni, dove Nicky frequenta ambienti che si potrebbero definire come tanti “non luoghi” standardizzati della civiltà moderna e postmoderna. Nella seconda parte, quella centrale, invece, si narrano le vicende del villaggio contadino di Toloma, tra la fine dell’Ottocento e gli anni 50 del Novecento. Questa seconda parte si caratterizza per la unicità del luogo e occupa circa la metà del romanzo, mentre un quarto ciascuna occupano la prima e la terza parte.

            Diverse sono le tecniche narrative impiegate e la varietà del tessuto narrativo rinvia alla diversità e alla complessità della realtà rappresentata. Il prologo, la prima e la terza parte sono narrate in prima persona. La seconda parte, invece, è in terza persona. L’epilogo è composto da due brevi lettere, che si scambiano due amici di Nicky, sullo stato di salute del giovane. Da questa breve analisi risulta il primo aspetto della singolarità del romanzo, che sta nella variazione dei moduli stilistici e nella struttura ad anello.

            L’inizio è caratterizzato da una modalità di scrittura che assomiglia alla sceneggiatura di un film. Al centro vi è il giovane Nicky e la vita caotica e spersonalizzante della società globalizzata, con la quale egli non si identifica, perché essa distrugge i rapporti affettivi. Nella prima e nella terza parte – in cui come si è già detto il racconto si svolge in prima persona – il narratore è omodiegetico. Il punto di vista è quello del giovane Nicky, che al racconto delle vicende quotidiane, alterna l’autoanalisi della sua solitudine esistenziale, delle ansie nevrotiche che lo turbano per la mancanza di punti di riferimento, dopo la morte del nonno Coco, che era l’unica persona a cui si sentiva legato, dopo che il matrimonio dei suoi genitori era andato a rotoli. Inutili risultano anche le sedute psicoanalitiche a cui il giovane si sottopone. Le tecnidhe narrative impiegate vanno dal flusso di coscienza, al discorso diretto libero. Accanto alla registrazione caotica di pensieri, immagini, emozioni nella mente e nell’inconscio dell’io narrante, si alternano sequenze descrittive e liriche e sequenze narrative. Il racconto è continuamente variato con l’inserimento di parti dialogate che si incastrano con sequenze riflessive.

            Tali tecniche narrative rispecchiano la schizofrenia del mondo postmoderno. La relativizzazione dei punti di vista, la moltiplicazione e il conflitto di sentimenti opposti, le ansie, la depressione, la mancanza di punti di riferimento certi vengono resi con uno svolgimento narrativo che è strutturato in un disordine cronologico, il quale rispecchia il disordine mentale del giovane, che rinvia alla afasia, alla quiete della non –speranza di Silvestro, il protagonista di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, a cui ci indirizzano la iniziale citazione in epigrafe e l’immagine di copertina del libro. L’intreccio non coincide con la fabula che deve essere ricostruita dal lettore, in particolare per quanto riguarda gli eventi della famiglia Nicoterra, dopo che si è trapiantata in Nord America. Inoltre in alcuni capitoli viene adottato il punto di vista di personaggi minori. Ad esmpio, nel terzo capitolo il padre di Nicky narra in un monologo la storia dell’arrivo del nonno Coco in terra americana. E ancora nel quinto capitolo, mentre Nicky si trova a casa di Emily, una sua amica, il nonno della ragazza narra la sua esperienza di guerra come soldato nell’estate del 1943 durante lo sbarco degli Alleati in Sicilia ed esprime giudizi negativi sulla realtà siciliana. Anche nella terza parte – come già detto – la focalizzazione è interna, ma nell’ultimo capitolo del romanzo diventa esterna, quando Nicky, recatosi in Sicilia alla ricerca delle proprie radici, viene (insieme al lettore) informato da un lontano parente intorno alle ultime vicende del villaggio dei suoi avi, che è stato gradatamente abbandonato da tutti i suoi abitanti.

            E veniamo alla seconda parte del romanzo, che ha una struttura diversa rispetto alla prima e alla terza parte. Il racconto vi si svolge in terza persona ed è a focalizzazione zero. L’autore ricorre qui ad una particolare invenzione strutturale. Infatti la voce narrante è quella del nonno Coco, il quale morendo ha lasciato in eredità al nipote Nicky alcune cassette, in cui è contenuta la registrazione della storia del villaggio siciliano di Toloma e della famiglia Nicoterra. Si tratta di un racconto orale con cui il nonno ha voluto lasciare una memoria che sottragga dall’oblio il mondo contadino. Siamo ben lontani da una memoria di tipo proustiano. Piuttosto si potrebbe dire che si tratta di una memoria che vorrebbe spingere all’impegno, alla determinazione nella lotta contro la sorte avversa, che nella citazione iniziale dal Don Chisciotte di Cervantes viene definita una donna ubriaca e cieca, che non sa chi abbatte e chi solleva.

            L’ottica è quella del contadino emigrato in Nord America e divenuto ferroviere. Ma essa è filtrata attraverso la trascrizione che ne fa il nipote Nicky, il quale – per quanto sia rispettoso del tono generale del racconto orale del nonno – lo deve trasformare in scrittura articolata. Di tale operazione ci è fornito anche il travaglio metalinguistico. Infatti Nicky scrive che le parole del nonno gli passavano attraverso il corpo e dichiara la sua difficoltà nella trascrizione linguistica e nel mettere in ordine il materiale narrativo del nonno.

            Nel racconto della fondazione di Toloma – come già accennato – c’è qualche eco del realismo magico della letteratura latino americana. Ma in generale nella seconda Parte del romanzo prevale un linguaggio mimetico, alternato qua e là da un dialogo semplice che rende bene la spontaneità, la durezza e la semplicità della condizione contadina. Sono frequenti i paragoni brevi con i quali la vita quotidiana viene assimilata al mondo rurale e a quello animale, secondo la prospettiva della gente umile. Alcuni esempi: “la gente accorre come uno sciame di api intorno al bugno;” o “i due bambini si aggrappavano alle gambe della madre Berta come due cuccioli;” le promesse dei governi dopo l’unità – dice il trisavolo Cola – “erano evaporate come l’umidità delle terre siciliane esposte al sole d’agosto.”

            Questa modalità stilistica sostiene il tessuto linguistico di tutto il romanzo, in quanto la narrazione viene fatta da una voce narrante che pensa e si esprime con il linguaggio della cultura contadina. Anche nella terza parte si possono rintracciare esempi di paragoni brevi. Ad esempio verso la fine del romanzo Nicky dice: il tempo sembra girare intorno a se stesso come un cane che insegue la propria coda. Per altro non mancano brevi abbandoni lirico paesaggistici, che tuttavia non scivolano mai nel sentimentalismo. Anzi il rapporto con il paesaggio è ambivalente perché la terra è vissuta dai contadini ora come paradiso, ora come inferno; dietro il suo fascino di isola fortunata perché dotata di una natura splendida, c’è la durezza estrema del lavoro dei campi e ci sono i difficili rapporti con i proprietari delle terre prese a mezzadria.

            Il villaggio è descritto come luogo chiuso, senza contatti con l’esterno, tranne la presenza di Mastro Paolo, il venditore ambulante, cantastorie, che porta le notizie del mondo esterno. Pertanto Toloma diventa uno spazio simbolo della civiltà premoderna, che da noi in Italia, come a Barcellona si è mantenuta quasi intatta fino alla metà del Novecento e oltre, con i suoi valori e anche con i suoi limiti. E’ un luogo che ci restituisce l’immagine di un’Italia rurale, con le sue credenze e i suoi riti (caratteristico ad esempio è il personaggio di don Mico, una specie di folletto che nella fantasia popolare due volte all’anno entrava in un pozzo per ingrassare l’ingranaggio dell’universo e farlo continuare a girare).

            Oltre l’unità di luogo in questa seconda parte anche il tempo è uniforme ed ha un ritmo ciclico, al quale corrisponde una narrazione che ha uno svolgimento cronologico che rispecchia la immutabilità e la certezza dei valori. Il tratto tipico dei piccoli personaggi contadini è la determinazione a migliorarsi, che li spinge a cercare di rendersi indipendenti economicamente, stipulando dei contratti a mezzadria e colonizzando le terre incolte dei signori e dei ricchi. Questa forza di volontà li ha indotti a due grandi migrazioni, quella del trisavolo Cola alla fine dell’Ottocento(dalle terre di pianura a quelle di alta collina) e quella del nonno Coco, che lascia Toloma per emigrare in Nord America nel secondo dopoguerra.

            Non secondaria è la figura della trisavola Berta, il cui ruolo di donna Madre della civiltà Mediterranea è simboleggiato nella atavica mansione di preparare la pasta per il pane e di infornarlo nel forno a legna. Al polo opposto c’è invece la madre di Nicky, incarnazione della leggerezza, che fa venire meno il cemento che legava la famiglia Nicoterra, con la sua scelta di abbandonare marito e figli.

            La stanza segreta – come possiamo vedere – non è un romanzo giallo, come potrebbe far sembrare il titolo. E a questo punto occorre che si sveli cos’è questo luogo, che in effetti è rimasto a lungo avvolto in un alone di mistero, perché vi era vietato l’accesso a chiunque. E’ un luogo appartato della casa del nonno Coco, che compare verso la fine del romanzo e che ha una forte valenza simbolica. In esso il nonno si ritirava per trascorrere il suo tempo libero tra i ricordi, gli oggetti, gli aromi della sua giovinezza trascorsa in Sicilia, che egli aveva raccolto e conservava gelosamente senza mai farli vedere ai nipoti.

            La stanza segreta rappresenta dunque il legame con la terra degli avi. Ma gli odori che un tempo inebriavano l’aria libera nel villaggio contadino siciliano, sono ora imprigionati nel cantinato della casa, falsati dalla umidità e dalla muffa, E quando il giovane nipote Nicky – dopo la morte del nonno – varca la soglia della stanza segreta, viene inondato da una zaffata puzzolente che quasi gli fa venire la nausea, come tutto ciò che sa di marcio.

In effetti la stanza segreta – dopo la morte del nonno – è ormai ridotta ad una scatola priva di vita e con tutta la casa attende di essere demolita dalle ruspe, come lo è stato quasi tutto il quartiere un tempo abitato dagli emigranti. Il progresso sancisce la condanna a morte di quel mondo di vasi, bocce, ampolle, arnesi e oggetti – tra cui un’immagine di Cola Pesce – che erano cari al nonno e che rappresentano il mondo premoderno, il quale viene inevitabilmente superato e distrutto dalla civiltà postmoderna.

Questo mondo premoderno non si è salvato neppure in Sicilia. Infatti quando il giovane nipote Nicky nelle ultime pagine del romanzo vi si reca alla ricerca delle sue radici, su consiglio del medico per curarsi dalla nevrosi, non trova più nulla del villaggio dei suoi avi. Toloma non esiste più perché i suoi abitanti sono andati tutti via e Nicky si ritrova sradicato come Anguilla de La luna e i falò di Cesare Pavese, di cui alla citazione iniziale.

Pertanto la conclusione della vicenda non è a lieto fine e contraddice l’alone mitico (quasi da realismo magico) che aveva avvolto – nelle pagine centrali del romanzo – la rievocazione della fondazione di Toloma, avvenuta da parte del capostipite Cola Nicoterra.

In conclusione, la struttura del romanzo è varia: più lineare nella seconda parte, molto complessa nella prima e nella terza parte, in cui l’intreccio si differenzia nettamente dalla fabula (le vicende sono raccontate non in ordine cronologico e il lettore deve ricostruire da sé tutto ciò che accade dalla emigrazione del nonno Coco in poi). Tale complessità della struttura narrativa rispecchia la complessità del mondo postmoderno nel quale non esistono sicuri indicatori di rotta e i giovani come Nicky ne pagano lo scotto.

Nino Famà ha voluto fare cozzare due mondi, due stili di vita, cui corrispondono due antitetiche concezioni del tempo: il tempo della lentezza della cultura e del pensiero meridiano, che si contrappone al tempo della velocità della civiltà postmoderna mediatica, in cui i mezzi di comunicazione non favoriscono – anzi a volte annullano – la comunicazione vera, quella degli affetti più intimi.

In estrema sintesi, il romanzo da una parte è la saga della famiglia Nicoterra, che si sviluppa per cinque generazioni (Cola, Benigno, Coco, il padre di Nicky, che non ha nome, e Nicky). Ma dall’altra è concentrato sulla interiorità e sulla nevrosi di Nicky, da cui è messo in crisi il tema dell’identità e delle radici, le quali non possono da sole risolvere le turbe del giovane, che sono il riflesso del più generale caos esistenziale della attuale civiltà postmoderna. Al contrario del nonno Coco e del trisavolo Cola che dopo ogni catastrofe avevano lottato per la loro dignità contro la sorte avversa, Nicky non trova la forza d’animo di ricominciare e soccombe sotto il peso del malessere e del tempo - che come afferma all’inizio del romanzo – cova in noi le sue uova maligne.

 

* Gino Trapani insegna Letteratura italiana e Latino al liceo classico Valli di Barcellona PG. È anche presidente della locale Pro Loco ed è un affermato critico Letterario

 

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(1 dicembre 2005)