Estetica originaria ed evolutiva: processo ed evento

 

Venere allo specchio

 

Isabella Guarini

 

i.guarini@libero.it

 

 

“ È forse nella sfera dell’estetica che vi è il terreno favorevole ad un dialogo fruttuoso tra il pensare in termini d’evento e il pensare in termini di processo. Un’esperienza estetica può essere compresa sia come risultato d’un processo che  genera un effetto estetico particolare che come evento memorabile nella durata del relativo soggetto , unico in un senso meno banale di quello per cui ogni esperienza di vita è unica”

(da Chronicles of Love and Resentment, no.205, april 22, 2000-traduzione dall’inglese di F.Brotto).

 

 

È interessante indagare sulle  diverse modalità  con cui si manifestano il processo  e l’evento in arte: il processo è nel tempo lunghissimo durante il quale si  sedimentano  le conoscenze, diffuse e non, determinate da eventi brevi rispetto al tempo del processo.

Se accettiamo che l’opera d’ arte sia  determinata   dalla mutazione   prodotta dal processo di accumulo  di  eventi creativi, dobbiamo anche accettare l’assunto che processo evolutivo ed evento si manifestano attraverso discontinuità.

Abbiamo già visto, in architettura, come il passaggio dal tempio greco in legno a quello  in pietra sia determinato dai frequenti incendi che, distruggendo gli eventi esistenti, favorivano il determinarsi di eventi creativi diversi da quelli che li avevano generati, conservando, nell’articolazione della struttura, il codice genetico originario.

Per  verificare  l’assunto teorico dell’origine complessa dell’arte, in quanto processo-discontinuità-evento, non è necessario stabilire le cause delle discontinuità, catastrofi naturali, guerre, esaurimento delle risorse naturali, mutamenti sociali ed economici, bensì accertare l’esistenza delle discontinuità  tra processo ed evento. Discontinuità che possono produrre  modi di essere diversi dal modello originario, da considerarsi codice genetico riconoscibile o meno.   

L’architettura romanica è un segmento di facile applicabilità dell’assunto teorico costituito da processo-discontinuità- evento. Con l’affermarsi  del cristianesimo  i templi  pagani furono progressivamente ridotti in frammenti per la costruzione di basiliche cristiane. La differenza tra la mutazione del tempio greco, da ligneo in pietra, e quella del tempio pagano in basilica cristiana, sta nella riconoscibilità o meno delle forme originarie. Nel tempio greco il codice genetico è rappresentato  con l’intenzione di essere tramandato in forma riconoscibile, come nell’architettura rinascimentale, mentre nella basilica paleocristiana, romanica, il codice genetico costituito dai frammenti dei templi pagani distrutti viene solo parzialmente reinterpretato in quanto permane la prevalenza delle linee orizzontali nell’intero organismo architettonico, tipico dell’architettura romana..

 La metamorfosi avverrà con la cattedrale gotica, che per elevarsi , ribalta all’esterno la struttura portante mediante i contrafforti a sostegno delle linee verticali.

 

Come in architettura, anche nelle altre  esperienze artistiche è possibile  verificare lo svolgersi della triade processo, discontinuità, evento, come nella millenaria  produzione di figure femminili.

Tutte le culture primitive hanno rappresentato  la donna divinità della fecondità, dee madri, per la pressante esigenza di sviluppo  demografico. Le piccole figure femminili di pietra, steatite, osso, avorio, del periodo più antico, rinvenute in Europa, mostrano l’esasperazione delle forme anatomiche che danno al corpo un aspetto pieno e massiccio, come la venere di Villendorf, che ha il volto nascosto da una sferica e curata capigliatura. Verso la fine del quarto millennio a. C. , il corpo fittile degli idoli femminili si allunga, ma permangono frontali le forme rotondeggianti della fecondità, mentre il volto si volge di profilo nei bassorilievi e affreschi. L’arte egizia  elabora la completa stilizzazione della figura femminile.

Nell’ultima dimora  si srotolano  i fotogrammi della vita nell’aldilà di Mery en- Mut, la bellissima amata da Mut, moglie di Ramesse II, Nefertari, che , sinuosa come un’anfora , volge il volto di profilo al cospetto del Dio scarabeo, o nell’atto di porgere sferici vasi rituali alla dea Hathor. In ambiente cicladico del terzo millennio, a.C. si ritrovano figure femminili squadrate nel marmo, tutte uguali, con le braccia conserte la testa ovale provvista di un  lungo naso, che riprendono il motivo delle dee madri, ex voto della fecondità.

Un  millenario processo  cristallizza la rappresentazione della donna in schemi  canonici frontali della dea madre, regina, in forme rotondeggianti o stilizzate, comunque  subordinate all’inequivocabile leggibilità del contenuto simbolico e allusivo.

Nel contesto greco si presenta la discontinuità che mutò profondamente la funzione dell’arte, prospettando la fedeltà all’aspetto naturale delle cose.

Nella ricerca delle forme naturali che meglio rappresentasse la sua forma ideale, l’arte greca si avvalse della figura umana, che costituiva il soggetto più comune, ma anche più difficile per i suoi infiniti caratteri fisici e psichici. Tuttavia, prima che la figura umana a tutto tondo possa  liberarsi dal piano di fondo del bassorilievo o dalla superficie fittile dei vasi,  le raffigurazioni femminili risentono ancora degli schematismi arcaici, come la Venere del Trono Ludovisi che presenta di fronte le fattezze muliebri, ma il volto di profilo, come la bellissima Nefertari, regina.

Nel periodo  greco classico si afferma la figura a tutto tondo secondo le forme naturali. Questa mutazione formale della figura umana, favorita dalla tecnica in bronzo che consentiva una più morbida e delicata modellazione delle forme, fu trasferita nella statuaria in marmo. Il modello di Venere, simbolo della bellezza femminile, invade l’occidente senza soluzione di continuità sino all’età moderna.

 

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Imprevedibilmente dalle ombre della Controriforma avanza luminosa e scultorea la Venere allo specchio di Velázquez. 

Non più rappresentazione della dea madre, Nefertari regina, Venere Callipigia, ma una donna nuda, di spalle, adagiata, nell’atto di rilassarsi, come   può fare una  donna  nella quotidianità. Il volto,riflesso nello specchio e retto da un Cupido, mostra l’aspetto di una donna  comune, quasi offuscata dalla stanchezza.

Nell’artificio dello specchio sta il passaggio dell’anima della donna, perfetta come una  Venere del Tiziano, a una donna dalla vita ordinaria: una cucitrice, una filatrice, una massaia, una donna che ha un ruolo produttivo nella tenebrosa civiltà del seicento. Dunque, l’immutabile corpo di Venere attraversa millenni prima che la dea-donna  possa voltare le spalle al suo osservatore.

Un evento celebrato dal suo nascere ininterrottamente, sia per  l’esser  nudo di donna, proibito nella Spagna della Controriforma, sia per l’ineguagliata  bellezza  del nudo stesso. L’evento è ancora più evento se si considera  l’atto drammatico di cui fu oggetto nel 1914. La suffragetta Mary Richardson  entrò nella National Gallery di  Londra nascondendo una scure e, giunta davanti alla Venere del Velázquez, vibrò sette colpi sul fianco e sul dorso della dea; un gesto che nelle intenzioni voleva essere una protesta spettacolare contro l’arresto di Emmeline Pankhurst, leader riconosciuta del movimento femminista inglese, allora in una fase particolarmente attiva e battagliera. Il violento sondaggio in profondità operato dai colpi di scure della suffragetta contro il corpo simbolo della donna dea, ha confermato la modernità del modo di procedere dell’artista che crea in uno la forma e il colore stendendo direttamente la pittura sulla tela in un unico strato. I violenti tagli rivelarono che il corpo della Venere fu dipinto direttamente sulla preparazione marrone-verdognola della tela, proprio come avrebbe fatto un moderno. Dunque,  la donna di Velázquez volge le spalle alla sua rappresentazione di dea madre, regina e si riflette in un’immagine anonima, indefinita, ambigua come l’Ermafrodito Borghese a cui il nudo s’ispira più che la Danae del Tiziano, frontale rappresentazione della prosperità.

In questo tema non vi sono discontinuità catastrofiche , come per l’architettura, ma piccole catastrofi, ovvero variazioni delle  convenzioni sociali che solo gli artisti riescono a  trasformare in valori universali.

 

 

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