L’estetica
alta e l’estetica bassa
Eric Gans
Chronicles of Love and Resentment
No. 300: Sabato 1 maggio 2004
Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto
brottof@libero.it
www.bibliosofia.net
Se la differenza fondamentale tra la cultura
alta e quella popolare o di massa sta nel fatto che la cultura di massa asseconda il risentimento mentre quella alta lo differisce, che cosa implica questo circa la
definizione del rapporto intersoggettivo tra creatore e consumatore? Il sistema
sacrificale è mosso dal centro a beneficio della periferia: il differimento
centrale del risentimento permette che esso permanga presso i sacrificatori
periferici, che sono nondimeno sottoposti al controllo centrale. La vittima è
l'incarnazione del segno sacro la cui distruzione riafferma il suo significato
atemporale come "nome di Dio". La cultura popolare ha la struttura dell' "inautentico",
cioè del risentimento: la periferia dipende dal centro, ma questa stessa
dipendenza le conferisce la sicurezza che consente di attaccarlo. Al fine di
comprendere la possibilità della cultura popolare, dobbiamo
mostrare come la mente periferica risentita possa divenire padrona della
scena estetica. Non è sufficiente identificarsi con coloro
che hanno perpetrato lo sparagmos; dobbiamo spiegare come uno di loro possa
raccontare la sua storia del sacrificio, e perché questa sia la versione cui la
maggioranza di noi preferisce dare ascolto.
La dicotomia culturale originaria è quella
tra sacro e secolare, preservata in una forma modificata in quella tra tragedia e commedia. La differenza "assoluta"
tra sacro e profano non può prevenire la propria reduplicazione entro la stessa
sfera profana, che si dà involontariamente nella struttura del desiderio,
volontariamente in quella dell'arte. Nel rituale religioso si seguono i dettami
della volontà centrale: la lezione è il differimento, e quali che siano i
godimenti sperimentati durante il suo svolgimento o in conseguenza, essi esistono solo al fine di instillare
questa lezione.
Il momento rituale esiste al fine di liberare i partecipanti dalla scena
sacra: così il mondo profano in primo luogo non è affatto “culturale”. Ma la struttura scenica del desiderio è indipendente dal rituale,
è la struttura fondamentale dell’umano. La scena della cultura secolare è
quella del desiderio privato, un desiderio che non riunisce dietro di sé
l’intera comunità. Le canzoni d’amore risalgono all’antico Egitto e oltre, ed è
troppo semplice dire che il loro proposito è la seduzione. Non è troppo
semplice, invece, rilevare che la loro funzione è l’inverso di quella del
rituale religioso: ovvero non è quella
di usare la soddisfazione appetitiva per insegnare la lezione del differimento,
ma quella di far sì che il differimento effettuato dalla rappresentazione
diventi un mezzo per la soddisfazione dell’appetito.
Mentre la solidarietà realizzata dai riti
religiosi è ottenuta col distogliere, almeno temporaneamente, dall’appetitivo,
la festa fa dell’appetitivo stesso
una fonte di solidarietà, a condizione che sia contenuto entro un contesto fornito dal rituale. Una festa non è un evento
secolare nel senso moderno del termine: è un complemento profano al rituale
sacro, il Martedì Grasso prima della Quaresima. La festa è un rito condotto dal
punto di vista della periferia, dove il differimento dell’appetito può
aspettare finché non sarà successivamente imposto da
autorità più alte. Così la festa non racconta una storia, ma pone in atto la sua propria sequenza temporale debolmente strutturata. La
sua manifestazione tipica è la sfilata,
con un inizio e una fine, una sembianza di progressione lineare, ma senza
alcuna serie narrativa di eventi che ricordi quelle
che accadono in una vita e la definiscono. La cultura popolare tradizionale non
si occupa di totalità, essa offre un sollievo comico
dal rigore dell’alta cultura. Questa rinforza e giustifica l’ordine sociale
nella sua interezza, laddove la cultura popolare lascia la totalità ai
responsabili, e si concentra sul compito di dare uno sfogo ai risentimenti di
coloro che, giustamente o ingiustamente, sono esclusi dalle responsabilità più
grandi. L’approccio tradizionale al risentimento popolare, ciò che Bakhtin ha chiamato il carnevalesco,
è incompatibile con lo sviluppo di personaggi individualizzati le cui
esperienze nel mondo del desiderio siano oggetto di
identificazione mimetica cumulativa, così che noi “viviamo le loro vite”
piuttosto che sperimentare i loro risentimenti e soddisfazioni come serie di
singoli eventi: quello di “trama” è un
concetto che appartiene alla cultura alta.
Nella società borghese il potere economico e
politico è più diffuso che nella società tradizionale, e perciò ci si potrebbe
aspettare che la dicotomia alto-popolare fosse meno netta.
Questo invero è confermato dalla storia di generi borghesi quali il romanzo o
il melodramma. Tuttavia, la “rivalità di tutti nei confronti di tutti” in una
società in cui le distinzioni di casta sono sfocate riconvalida il concetto di
una cultura secolare alta che non è meramente consapevole della sua
responsabilità sacrale verso la totalità, ma altresì è ansiosa di imporre una
gerarchia di prestigio culturale – come testimonia lo status per molto tempo
ambiguo assegnato al romanzo, il genere borghese supremo, che di conseguenza non
ha in se stesso insiti i segni di un tale prestigio. La gerarchia culturale
rinforza superficialmente le distinzioni sociali, ma il suo effetto reale è
quello di permettere la loro diffusione, proprio come il segno consente il
possesso comune del centro sacro. Poiché le rappresentazioni culturali non
possono negarsi ad alcuno di coloro che abbiano
acquisito la conoscenza che mette in grado di comprenderle, la cultura è
essenzialmente democratica: le arti sono “liberali”. Ma
la conoscenza culturale non si propone nei termini del tutto o niente, e un apprendimento limitato è una cosa pericolosa.
Per questo non dovrebbe sorprenderci che l’era borghese dia
luogo a forme popolari di massa che emulano le strutture dell’arte elevata. In
realtà, è in quest’era
che la tensione tra alto e popolare comincia davvero.
La cultura popolare di massa che emerge nel
diciannovesimo secolo con l’alfabetizzazione generalizzata, e un altrettanto
diffuso potere politico quantomeno nominale, è più che un’espressione ingenua
del risentimento popolare: essa imita le forme culturali precedentemente
riservate alla cultura alta. Qui per la prima volta noi incontriamo una
versione popolare del destino della vita, la quale, a prescindere dalla sua
crudezza, fornisce modelli esistenziali per la vita di ogni
giorno piuttosto che limitarsi ad una puntuale realizzazione di fantasie
generate dal risentimento. Queste ultime non sono in alcun
modo escluse, ma sono integrate in uno svolgimento della storia che ha pretese
di continuità temporale. Complementare al differimento alto-culturale del
risentimento mediante la rinuncia alle illusioni del desiderio, vi appare una modalità in cui il risentimento non è semplicemente
scaricato al modo carnevalesco, ma viene recuperato tramite una prassi mondana.
Questo fenomeno corrisponde sul piano
culturale allo sviluppo di una politica di sinistra “legittima” – il
liberalismo parlamentare screditato da Marx e dai suoi discepoli bolscevichi. Senza
dubbio i liberali sfruttano l’ordine sociale esistente facendo ricorso ad esso per favorire coloro che hanno meno a cuore i suoi
interessi complessivi; ma una società democratica è precisamente quella il cui
intento primario sta nel promuovere i desideri dei singoli cittadini piuttosto
che nello scoraggiarli. Una tale società tende primariamente a riciclare i
risentimenti più appassionati al fine di assicurare
tra i suoi cittadini il massimo di circolazione dei desideri così come dei beni
e dei servizi che li soddisfano. Più efficiente in questo è
la società, più “irresponsabile” può diventare la sua Sinistra.
La cultura popolare non si colloca alla
sinistra sin dai suoi inizi. Il populismo di destra è la sua modalità
dominante fino alla Seconda Guerra Mondiale e oltre; il trionfo definitivo
della Sinistra avviene solo dopo il 1968. Anche oggi, il
grado zero della narrativa popolare è il film d’azione, in cui alcuni eroi
buoni distruggono innumerevoli cattivi. Alcune volte, naturalmente,
accade che i cattivi lavorino per la CIA, ma i loro
avversari sono di norma dei cittadini patrioti, e non dei discepoli di Noam Chomsky. Il populista di
destra è sospettoso nei confronti della cultura alta, sempre sospettata di
finire nella decadenza: egli cerca di rinnovare la solidarietà, e di far rivivere
l’eredità culturale di società pre-culturali
“compatte”.
E tuttavia il populismo di destra stricto sensu, solitamente collegato
all’antisemitismo, nelle società di mercato mature non è una modalità
stabile. (La sua – relativamente non virulenta – recrudescenza nell’Europa di oggi riflette le paure nei confronti di questa “maturità” provocate dall’afflusso di
grandi masse di immigranti, visti a torto o a ragione come persone non
desiderose di integrarsi nella cultura occidentale). Di contro, a sinistra il
socialismo – in principio più radicale, dal momento che la sua intenzione finale non è solo quella di creare una
solidarietà comune ma quella di abolire il mercato –, di fatto, nel momento
stesso in cui attenua il proprio fanatismo si adatta facilmente al sistema
parlamentare. L’attitudine vittimaria del socialimo
si presta bene al dibattito legislativo, particolarmente nell’era postmoderna,
nella quale la retorica vittimaria è un’affidabile fonte di voti. Al contrario,
il populismo di destra, radicato nell’era antecedente l’ultimo conflitto
mondiale, non è essenzialmente vittimario: esso utilizza il senso di ingiustizia
per aizzare i suoi appartenenti, non per imporre un senso di colpa agli
avversari, dai quali non si attende alcuna cortesia, trattandoli con disprezzo
e peggio.
Separando meccanicamente l’interno
dall’esterno, l’estetica centrale da quella periferica, non si coglie
l’essenziale della distinzione tra cultura alta e cultura popolare nell’era
moderna. Qualunque cosa si possa dire circa la rozzezza
delle “masse” nelle società tradizionali, nella società moderna ciascuno può
accedere più o meno come ogni altro alla visione della struttura sociale
complessiva. La coscienza periferica con la quale ci identifichiamo
nella cultura popolare moderna non è una cosa così semplice: la scelta estetica
del risentimento periferico è anche una scelta politica. La riformulazione di una prassi temporalmente coerente nella prospettiva della periferia sociale non si limita ad
ignorare la sacralità dell’ordine sociale, essa la nega appellandosi all’intuizione originaria che lo scambio
reciproco costituisce la modalità essenziale dell’interazione umana.
Poiché nella cultura moderna le forme della
cultura alta o bassa ostensibilmente distintive sono dei segni scelti coscientemente
piuttosto che emanazioni organiche del loro contenuto, di conseguenza non
esistono dei criteri formali affidabili mediante i quali valutare l’aderenza di
una data opera ad una visione parziale o totale
dell’ordine sociale. La stessa distinzione alto-basso, e anche la sua
sopravvivenza, diventano elementi tematici delle opere
stesse, mezzi per situarle nel mercato culturale. Anziché consacrare l’ ordre établi, l’opera d’arte ha il compito di affermare la
visione dell’ordine sociale del suo creatore tramite l’effetto estetico. Ciò
non impedisce le riletture di questa visione, come dimostra il recupero di Balzac da parte della critica marxista. Non si deve
dimenticare che quando Lukács trasforma Balzac, che si pensava monarchico, in un rivoluzionario
inconsapevole, egli reinterpreta un significato sottointeso, che si può provare
esser presente nei romanzi, che contesta l’ordine
sociale nella sua forma attuale. Significativamente, questo approccio
non può essere estrapolato senza fare un ampio ricorso a petizioni di principio
riferite all’interpretazione di testi premoderni, come vediamo, per esempio,
nelle controverse letture delle opere teatrali “gianseniste” di Racine che ha
operato Lucien Goldmann – e
anche allora la critica implicita della mondanità è trascendente più che
propriamente politica.
L’indicatore più impressionante della
condizione precaria in cui versa oggi la cultura alta
è il fatto che più l’opera d’arte richiama l’attenzione sul proprio status
elevato, minore è l’effetto estetico che essa produce. Le arti plastiche, la
cui enfasi sul singolo manufatto esclude di fatto il
pubblico generale – andar per musei riduce lo spettatore a studente; le
gallerie intimidiscono coloro che non si possono permettere un acquisto; l’arte
pubblica raramente è avvertita come “nostra” – presenta quali opere d’arte,
come è noto, con un gesto “democraticamente” snobistico, degli oggetti scelti
per dimostrare che l’arte non è inerente all’oggetto stesso ma è un effetto
della sua presentazione. Questo è vero anche per le forme musicali più
radicali, i film e il teatro sperimentali, e simili.
Io penso che il luogo migliore per trovare
dei capolavori nella nostra epoca di “non più capolavori” sia il cinema. Il
cinema è l’unico medium che non sia soffocato da capolavori
assoluti con cui è impossibile competere. Nessuno può sperare di sorpassare Bach, Mozart, Beethoven,
Shakespeare, Dante, Cervantes, Michelangelo,
Leonardo… o anche Proust, Joyce,
Stravinsky, Cézanne. Ma il film è ancora aperto: a mio parere, Beau travail
di Claire Denis regge il paragone con qualsiasi film
della storia del cinema francese.
* * * * * * *
Questa volta non posso
trattenermi dall’apporre una noticina. Mi sembra infatti che lo sviscerato amore di Gans
per il cinema lo porti ad estremizzare l’idea di Harold
Bloom dell’arte come competizione, tentativo di
superamento dei maestri. A me un’arte che in un secolo di vita produca centinaia di “capolavori” – nel senso in cui è un
capolavoro la Ricerca di Proust – non appare aperta, ma semplicemente sospetta come
arte. Il fatto è che i “capolavori” del cinema hanno una natura artistica
radicalmente differente: sono, in tutti i sensi, un’altra cosa (lo dimostra il fatto che può accadere che una grande opera
letteraria ispiri un grande film, mentre il contrario non accade mai). Forse il mio è giudizio di un lettore poco
affascinato dallo schermo. Tuttavia, nell’epoca del mercato aperto, anch’esso
ha diritto di cittadinanza entro l’universale circolazione delle idee.