Eric Gans

Estetica originaria ed evolutiva

Da Chronicles of Love and Resentment

No. 205: Saturday, April 22, 2000

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

 

 

Ho affermato più di una volta in queste Cronache ed altrove che l'emergere dell’umanità non può essere compreso semplicemente in termini di teoria dell’evoluzione, e che la "scienza della creazione", per quante assurdità contenga, ha ragione in un singolo punto: l'origine dell'umano, come è definita tramite il nostro uso del linguaggio, deve essere compresa non soltanto come un processo ma come un evento. L'origine del linguaggio, per quanto preparata dall’evoluzione genetica, non può essere spiegata dalla mutazione genetica da sola; l'emergere del linguaggio è in sé una mutazione culturale che successivamente diventa la base per nuovi adattamenti, compresi gli elementi mentali e fisici della nostra capacità linguistica. Le mie letture recenti nel campo controverso della psicologia evolutiva (si vedano le Chronicles 201 & 203) sembrano offrirmi la nuova speranza che si possa creare un interfaccia praticabile fra antropologia generativa e teoria evolutiva. La maggior parte dei tentativi degli psicologi e degli antropologi di spiegare i fenomeni della cultura umana in termini di darwinismo dimostrano soltanto agli occhi di tutti che, difettando di un'antropologia adeguata, la scienza empirica non può formulare un programma di ricerca valido circa il comportamento umano. (Un esempio recente: A Natural History of Rape: Biological Bases of Sexual Coercion [Una storia naturale dello stupro: le basi biologiche della coercizione sessuale], di Randy Thornhill e Craig Palmer [ MIT press], sostiene che gli uomini sono stati selezionati per un adattamento specifico a commettere la violenza sessuale.) Ma se il concetto di adattamento evolutivo non è direttamente applicabile alle forme del linguaggio e della cultura, esso offre però alcuni indizi quanto alla specie di contenuto che queste forme tenderanno ad includere.

È forse nella sfera dell’estetica che vi è il terreno più favorevole ad un dialogo fruttuoso fra il pensare in termini di evento e il pensare in termini di processo. Un'esperienza estetica può essere compresa sia come risultato d'un processo che genera un "effetto estetico" particolare che come evento memorabile nella durata del relativo soggetto, unico in un senso meno banale di quello per cui ogni esperienza di vita è unica. Più specificatamente, l'esperienza dell'arte è generata e fortemente strutturata da un processo interno all'opera d’arte specifica, che può essere compresa come meccanismo destinato deliberatamente a provocare nel suo pubblico l'esperienza di un nuovo evento.

Considerando che, secondo l'ipotesi originaria, questo evento deriva la sua forma dall'evento originario, il contenuto fondamentale dell'arte come di tutti i meccanismi culturali è fornito dagli oggetti di appetito preculturale. Il sacrificio rituale coinvolge principalmente i grandi animali commestibili perché questi sono le forme di nutrimento più concentrate; l'energia motrice predominante nelle narrazioni è il desiderio sessuale, la cui importanza biologica non ha bisogno di dimostrazione. Meno ovviamente, psicologi evolutivi suppongono un estetico dei paesaggi che riflette la loro attrattiva come habitat per la nostra specie nella sua fase formativa nel Pleistocene. Gordon Orians e Judith Heerwagen in "Evolved Responses to Landscapes" (in Barkow/Cosmides/Tooby, The Adapted Mind, Oxford UP, 1992: 555-79) forniscono un modello evolutivo plausibile per il nostro gusto topografico: tendiamo a trovare attraenti scenari, simili alla savana, che offrono potenzialità di alimento ma specialmente "prospettiva" e "rifugio", che ci permettono la capacità di vedere senza essere visti.

Da un punto di vista biologico, questo genere di senso estetico è un perfezionamento del tropismo che provoca il movimento delle amebe verso le soluzioni che possiedono il pH richiesto. L'ameba non deve esercitare il "giudizio" perché il suo tropismo è definito da una singola equazione computata dal sistema di percezione dell'ameba stessa; in termini kantiani, il tropismo non è "senza un concetto". Per contro, denominiamo il nostro proprio giudizio "estetico" perché il campo della percezione che lo occasiona è troppo complesso e l'insieme dei criteri valutativi troppo vago per permettere una concettualizzazione semplice. L'ipotesi del paesaggio attraente offre una base evolutiva per il "giudizio senza concetto" dell’estetica kantiana. Il nostro giudizio sarà chiaramente più rapido e più decisivo se non ci richiede di ragionare, cioè di confrontare nelle nostre menti un dato paesaggio con una serie di immagini di paesaggio con diversi gradi di idoneità all’abitazione o all'esplorazione da parte degli umani. Fra i cacciatori del Pleistocene che si muovono sul terreno, la capacità di decidere correttamente, senza riflessione, che direzione seguire ha sicuramente la stessa probabilità di interessare la selezione evolutiva che ha la capacità di scegliere correttamente, con una semplice annusata o un morsetto, quale cibo è da mangiare. Non è affatto una coincidenza che la nozione di gusto sin dall'inizio sia stata connessa con l'estetico. Se il nostro gusto per quanto riguarda il cibo ha un uso pratico, allo stesso modo lo ha, o lo aveva, il nostro gusto per quanto riguarda il paesaggio.

Spingendo l'ipotesi evolutiva un passo avanti, la distinzione kantiana fra il "bello" e il "sublime" sembrerebbe distinguere le scene in cui vogliamo entrare dalle scene che desideriamo soltanto contemplare—la "prospettiva" essendo una caratteristica importante dell'estetico evolutivo. Così potremmo non avere bisogno di collegare il sublime al sacro per spiegare il nostro interesse, altrimenti apparentemente gratuito, alle montagne e alle cascate; forse nel nostro "tropismo" verso le posizioni da cui tali fenomeni possono essere osservati si può trovare un valore di adattamento.

In che modo questa nozione biologica dell'estetico si deve articolare con i fenomeni dell'arte? Il fatto che noi usiamo lo stesso linguaggio per parlare di bei paesaggi e belle pitture suggerisce con forza che il nostro gusto per quest’ultime in un certo senso derivi dal gusto per i primi. Così la psicologia evolutiva fornisce questa consistente giustificazione per l’attenzione primaria dell’estetica di Kant alla bellezza naturale, ma sembra ancor meno pronta di Kant ad affrontare la questione cruciale dell'articolazione dell'estetico naturale con quello culturale.

Uno dei clichés più vetusti dell’estetica offre un modo semplice di distinzione fra la bellezza della natura e quella dell’arte: l'idea, che risale almeno alla Poetica di Aristotele, che gli oggetti che ci impauriscono o ci respingono nel mondo reale (Aristotele accenna a "gli animali vili e i cadaveri") ottengono la nostra lode quando sono soggetti di un’opera d’arte. L’arte contemporanea più radicale, a prescindere da quelle che possono essere le sue altre virtù, ci permette di affinare questa asserzione. Laddove gli esempi classici, tipicamente immagini delle bestie selvagge, erano più spaventosi che ripugnanti, una tendenza importante nelle arti plastiche esprime un culto della bruttezza e della repulsione, usando escrementi, sangue mestruale e altre escrezioni allo scopo apparente di dimostrare che l’estetico può essere definito soltanto nell'opposizione ai nostri gusti biologici. Sin da quando i romantici hanno deciso di épater le bourgeois, l'arte sempre più è stata opposta, non, come spesso è stato affermato, all' "utile", ma al naturalmente o semplicemente bello, al genere di oggetti che la selezione naturale apparentemente ci spingerebbe a scegliere.

Non c’è dubbio: nel suo ostentare un’eccessiva protesta, la pittura con l'escremento afferma soltanto l'essenziale legame dell'arte con l'estetico naturale. L'astrattismo di Mondrian era di gran lunga più liberante nel ridurre questo estetico alle sue ossa nude di schema e di ritmo. L’astrattismo è in armonia con la natura del nostro sistema percettivo; i nostri paesaggi invitanti sono sviluppati da schemi di bordi e figure. Queste reazioni contro l'estetico naturale possono essere interpretate storicamente, manifesti al contrario, come allargamenti piuttosto che come smentite del canone della bellezza naturale/classica. Ma il punto più significativo dell’anti-naturalismo dell'arte moderna si trova nell’ambito della forma piuttosto che del contenuto: il dare massimo risalto alla mediazione del segno estetico. Questa enfasi sulla forma è più cruciale nelle arti plastiche, dove un'opera d’arte che copia l'apparenza del proprio oggetto rischia di essere ridotta ad un mero esempio di "riproduzione meccanica". Mentre gli ammiratori classici del trompe-l'oeil si accontentavano di comprendere la rappresentazione come riproduzione, l'arte moderna, che riflette un’intuizione più profonda della fonte della cultura nell'interazione umana, comprende la rappresentazione come creativa in un senso primario piuttosto che secondario. Nonostante i suoi eccessi, la rivolta anti-mimetica del modernismo nelle arti plastiche, con la sua parallela ribellione contro la tonalità nella musica, ci ricorda che il segno dell'arte non è mai semplicemente un innesco per l'estetico naturale.

L'oscillazione fra il segno estetico ed il suo referente immaginario è mediatrice fra cultura umana ed estetico naturale. Quest’ultimo ci dice quale paesaggio o quale partner sessuale è probabile che promuova le nostre fortune evolutive; se la nostra percezione include un momento di "giudizio estetico", non può essere staccata dall'uso pratico in cui sarà impiegata. Il referente del segno, in opposizione, è da quello stesso riferimento tagliato fuori dal mondo della realtà pratica. Anche quando il segno ostensivo seleziona un oggetto nel mondo reale, quell'oggetto di conseguenza è staccato dal mondo circostante dei rapporti appetitivi. Qui l'oscillazione fra il segno ed il referente è nella sua condizione più semplice; il referente esiste nella realtà, ma la sua contemplazione dipende dalla funzione che ha il segno di inquadrarlo come oggetto di esperienza estetica, di staccarlo, come significativo esso solo, dal resto del suo ambiente visivo.

Possiamo supporre che un oggetto potenzialmente significativo sarà stato rilevato come tale dal nostro sistema preculturale di percezione, e perfino che avrà ricevuto una valenza estetica, proprio come il paesaggio valutato tramite il nostro giudizio estetico naturale. L'effetto strutturante del segno risulta, secondo l'ipotesi originaria, dalla sacralizzazione dell'oggetto tramite la convergenza dei desideri della comunità; esso è necessario non alla percezione in sé ma alla focalizzazione esclusiva dell'attenzione che è caratteristica della contemplazione estetica. Così il segno fornisce un "supplemento" all'interesse estetico naturale destato dall'oggetto, con la conseguenza che il campo visivo, invece di comporsi di un insieme di oggetti variamente interessanti, è ristrutturato nei termini di un oggetto centrale su cui tutta l'attenzione è concentrata e uno sfondo da cui tutto l'interesse è stato distolto. Ma l'interesse concentrato su questo oggetto non è più semplicemente preliminare ad un’azione appropriativa o esplorativa. La mediazione dal segno è equivalente ad un ritiro dal mondo dell’appetito in quello di una contemplazione "disinteressata". La cultura rinforza le disposizioni relative dell'estetico naturale con la significatività assoluta generata dal segno.

Anche se questa articolazione di estetica naturale e culturale mi colpisce come ragionevole, la domanda che questa discussione suscita nella mia mente, e forse in quella del lettore, è se l'estetica evolutiva realmente abbia aggiunto qualche cosa di nuovo al dialogo fra l'estetica di Kant da una parte e il pensiero originario dall'altra. Perché in The Adapted Mind per illustrare l'estetico naturale è stato scelto proprio il paesaggio? Se, per esempio, fosse stata scelta invece la bellezza femminile (vedi, per esempio, Nancy Etcoff, Survival of the Prettiest , Doubleday, 1999), sarebbe evidente senza alcuna discussione di estetica che gli uomini sono attratti verso quelle donne che sembrano esibire, sempre secondo i criteri del Pleistocene, la maggior idoneità alla riproduzione. (Non mi è stato mai chiaro perché quel vecchio misogino di Schopenhauer sia stato accreditato della quasi tautologica osservazione che i nostri parametri della bellezza femminile corrispondono con tutta evidenza a questa idoneità.) Non ci sarebbe alcuna necessità di supporre un senso estetico indipendente dall'appetito per affermare che il nostro giudizio in tale campo è basato sull' "appercezione" senza l'esigenza di un ragionamento.

Nel caso del paesaggio, tuttavia, la nostra preferenza compare alla nostra intuizione come disinteressata nel senso kantiano perché, diversamente dai nostri antenati nomadi, è improbabile che noi la seguiamo fino ad un compimento pratico. (In questo quadro, la nostra scelta di luoghi "estetici" di vacanza sembrerebbe trovarsi a metà fra una decisione pratica ed una puramente estetica.) Poiché ammiriamo i paesaggi in un modo contemplativo che non sembra fortemente collegato ad una prassi, neppure virtuale, diventa interessante mostrare che questo modo ha radici in un'azione pratica del genere di quella che ha guidato l'evoluzione del nostro genotipo. Ma non trovo alcuna ragione che obblighi a considerare siffatta contemplazione come costituente una categoria "estetica" separata. L'estetico acquista la sua specificità, cioè la sua indipendenza dalla prassi appetitiva, soltanto sulla scena comune della rappresentazione, dove il pericolo del desiderio mimetico ci forza a contemplare il sacro ed il bello. La biologia evolutiva probabilmente è in grado di migliorare la nostra comprensione degli appetiti che si trovano dietro la cultura umana, ma soltanto l'antropologia originaria offre una spiegazione delle forme di desiderio che questa cultura costruisce.

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