Un libro per esistere
Elisabetta Liguori
elisabetta.liguori-lisi@poste.it
Circa un mese fa ho comprato un
libro perché mi lusingava l’idea di avvicinare una coppia di scrittori che
sfornano libri come si trattasse di partorire figli: una coppia di creativi che
confondono la scrittura con la vita, che mescolano le
passioni, che si scambiano tecniche ed idee. Parlo di Nicole
Krauss e Jonathan Safran Foer, parlo di una coppia
giovane e prolifica di narratori
americani, parlo di un accostamento forse editorialmente
costruito, chi può escluderlo; parlo quindi forse solo di una fantasia, ma mi
soffermo in particolare su lei, l’autrice dell’ultimo fortunato “La storia
dell’amore” edito Guanda. Scelgo lei.
Così, per una curiosità puramente
femminile, ho scoperto un libro bellissimo.
Un libro sui libri, che inizia a
New York, ma attraversa i boschi della Polonia e poi
del Cile. Un libro che tratta della cancellazione di un uomo
e della sua lenta ricostruzione attraverso una sorta di viaggio nel tempo.
Un libro con una trama complessa, quindi, poderosa, poggiata
leggiadramente su un linguaggio colloquiale, immediato, delicato.
La struttura dell’opera è
assolutamente accattivante, ottima la tecnica che ammalia il lettore, ma quello
che cattura non è la scuola narrativa, che pure è evidente. Quello che vince è
la scelta di sostenere con forza l’idea che un libro possa
trasportare con sé, ovunque vada, l’uomo che l’ha scritto, in tutte le sue
particelle, e a volte, con un po’ di fortuna o se gli eventi storici lo
consentono, anche qualcuno tra i suoi lettori più sinceri. In altre parole
l’idea che sia probabile, per chi scrive o legge,
confondere il libro con la vita, con l’amore; la vita con una donna; la vita
con le parole che la descrivono.
Il protagonista di questo libro è
Leo Gurski, un scrittore, un
ottuagenario sopra le righe, tenero, poetico, nudo, il cui libro attraversa la
storia oscena dell’olocausto e della stessa infamia porta le stimmate. Leo non
può morire senza aver ritrovato il suo scritto e risposto alle sue domande. E
mi viene voglia, anche adesso, di dirlo, scriverlo in grassetto, ripeterlo il
nome di questo uomo immaginario, tanto profonda e ben
resa è la sua sofferenza connessa alle difficoltà a riemergere da un passato di
fuga obliante, che ha dovuto cancellarlo, considerarlo morto, invisibile.
Il suo libro era ed è lo strumento per esistere, per rendersi finalmente
visibile.
Viene da chiedersi che cosa è un
libro? Un marchio, un occhio, uno scudo, un nome?
Alma è il nome della donna amata
da Leo in gioventù, l’amore irrisolto, l’ossessione di tutta la sua vita, della
sua lingua, ma è anche il nome di una ragazzina di quindici anni che deve la
sua genesi proprio a quel libro e che, per conquistarsi una sua identità, sente
la necessità di ricostruirne il viaggio; è colei che riesce a ritrovare il Leo
scrittore e uomo dopo decenni, colei che ritrova e salva il libro smarrito nei
gangli micidiali della Storia della Germania nazista.
Dall’ideale astratto e perfetto di due esseri umani in coppia: L + A, si snoda il plot del romanzo, per ellissi. Il viaggio è compiuto
a ritroso, alla ricerca di un libro scritto solo per rispondere ad una domanda,
la domanda grande eppure semplice, quella che è alla base di ogni
bisogno e di ogni forma d’amore, nata spontaneamente nel momento in cui un uomo
aveva incontrato una donna che gli piaceva molto. Ecco, tutto qui, a voler far
sintesi.
Per tappe. 1) Leo scrive un
libro per Alma 2) Alma va via per sfuggire alla persecuzione ebraica 3) Leo si
nasconde per sopravvivere, affidando il libro ad un amico fraterno 4) l’amico
lo crede morto e conserva il libro in un cassetto, lo dimentica, poi lo
riprende, traducendolo in lingua spagnola e lo mette in viaggio, 5) il libro
senza alcuna fortuna finisce nella mani di un
viaggiatore poeta che lo compra per donarlo alla sua donna 6) la sua donna
mette al mondo una bambina a cui dà il nome di Alma 7) la seconda Alma, alla
morte del padre poeta viaggiatore, rimane da sola a reggere l’infinita triste
incredulità della propria madre 8) la seconda Alma ritrova Leo, ormai
ottantenne e malato, e restituisce il libro all’autore.
Tra un passaggio e l’altro, vengono descritti, senza disagio o confusione, altri
personaggi di minor rilievo: come la prima Alma, la musa originaria, che vive
la sua esistenza parallela, con un marito, un figlio, il quale diventa a sua
volta scrittore per genetica; e ancora l’amico coetaneo immaginario di Leo, che
gli rimane accanto; o il fratello della seconda Alma convinto di poter salvare
il mondo da solo, a nove anni, perché eletto dall’Alto; e infine il traduttore
del libro di Leo che ne diventa il tormentato custode.
Personaggi miracolosi. Forse
troppo. Personaggi forse iperletterari, ma che, ad
ogni movimento, incantano. Del resto era di certo nella volontà della Krauss, parlare di libri, di parole, di parole per tutto,
non di uomini.
Un libro ottimista, tutt’altro
che nichilista, che scopre valori superiori e se fa ne
portatore materiale; un libro quasi mistico, che vuol parlare di immortalità in
modo nuovo. La mistica delle parole e della mente che le crea, della bocca che le pronuncia, anche casualmente, della penna che le scrive.
Questo libro svela il trucco:
scrivere di sé può essere un ottimo metodo per esistere e resistere, perché la
scrittura preserva quegli infiniti minuscoli pezzettini di sé, quel pensiero libero
che sembra così vicino alla rivelazione ultima e che in genere si perde al
suono odioso e casuale di un citofono qualunque. Un libro ci esprime,
riproduce e tramanda quanto un figlio. Se è un buon libro, ma
forse anche se è un pessimo libro. E la Krauss
riesce anche a far intendere quanto importanti siano i
nostri lettori. Chi lo nega è un bugiardo. Abbiamo bisogno di essere visti
mentre viviamo, è un dato oggettivo. I libri ed il corpo sono
la nostra salvezza.
A volte ho pensato che
l’ultima pagina del mio libro sarebbe coincisa con
l’ultima pagina della mia vita, che quando il mio libro fosse stato terminato,
sarei finito anch’io, un vento impetuoso avrebbe spazzato la stanza portandosi
via le pagine, e che quando si fosse liberata di tutti quei fogli svolazzanti,
la camera sarebbe stata avvolta nel silenzio e la mia sedia sarebbe stata
vuota.
Leo reagisce all’oblio, allo smarrimento
delle sue parole scritte, tenendosi stretto al suo corpo e facendolo parlare.
Cerca con disperata ostinazione di mantenere in vita il suo cuore fino al
ritorno a casa del libro. L’autrice, per questa ragione, elabora una teoria
meravigliosa su come ogni diverso organo del corpo umano s’incarichi
solitamente di esprimere una diversa emozione e la fatica venga così equamente
ripartita. Tutto è monitorabile con un po’ di attenzione.
Qualche esempio: il dolore della dimenticanza s’annida nella spina dorsale; il
senso della morte ti piglia le ginocchia; la solitudine è un fatto di emorroidi. Via così.
Il corpo è fondamentale. Il corpo
produce le parole. La Krauss comincia il suo racconto
facendo parlare il corpo di Leo che lentamente si decompone, un corpo a cui lui
tiene disperatamente, che vuole salvare, restituire alla sua esistenza mancata,
che porta in giro ed espone ovunque, anche come modello per pittori di nudo
maschile. Leo insomma vuol essere notato.
E poi non si sa mai: se ne va in giro con attaccato al collo della
giacca un targhetta che lo identifica, nome e cognome
e indirizzo, così che si sappia sempre e comunque, di chi era quel corpo e dove
s’agitava prima di esalare l’ultimo respiro. Da dove viene e dove dovrà essere
riportato quel corpo, prezioso sempre.
Hanno cancellato le sue parole
d’amore? Peggio per loro. In risposta lui ostenta la
carne che gli rimane ancora. Inventa amici che non esistono, tocca il cielo,
tocca la casa del figlio che non sa della sua esistenza, tocca la sua assenza,
ne indossa la giacca, l’ orologio dal cinturino liso e
confronta le sue misure con quelle di un figlio dal corpo sconosciuto, e nello
stesso momento resiste.
Scrive persino un secondo libro
nell’attesa, perché sente forte il desiderio di riprovarci comunque.
Non tutti sono capaci di certi miracoli della cocciutaggine,
mi rendo conto. Alcuni, molti, si arrendono all’invisibilità, ma
l’abbiamo detto, qui siamo dinanzi a personaggi mitologici, dalla forza
sovradimensionata, personaggi quasi baricchiani,
oserei dire. Ma forse fu l’olocausto ad inventare
certi miracoli da reazione. Non è mera invenzione letteraria. E la Krauss lo sa per storia di
famiglia; la sua, infatti, è una New York piena di brutti ricordi e per questo
curiosamente moderna e crudele e universale, quanto quella di uno scrittore
come Yates.
La Krauss,
ed io con lei, è convinta che ci siano parole per tutto, per raccontare quello
che è accaduto, ma anche per raccontare quello che sarebbe
potuto accadere. Che ci sia una parola per ogni
stagione. Il fantomatico libro sull’Amore scritto per amore da Leo è,
infatti, un libro che parla di stagioni umane appunto: L’era del Vetro, quella
del Silenzio, quella della Pietra; in ciascuna l’uomo tenta strade diverse di
comunicazione, si avvicina alla parola. Quello il senso.
Ma, alla
fine, che cosa è che fa questo povero vecchio? Una cosa solo apparentemente
difficile: compie piccoli gesti quotidiani che messi insieme significano il
contrario dello scomparire. Cerca disperatamente di esserci e racconta. Dopo,
come farebbe un gambero, torna al punto di partenza.
Così Leo cerca Alma e trova
Alma: come a dire che una donna vale l’altra dinanzi all’amore, alle parole. È lei
a farsi trovare, ché, si sa, sono le donne che
decidono tutto. Si danno appuntamento un pomeriggio dopo sessanta anni su una
panchina.
E
in quel momento l’ho vista. Strano quello che può fare la
mente quando è il cuore a dare ordini. Mi è sembrata diversa da come la
ricordavo. Comunque. La stessa. Gli occhi: da quelli
l’ho riconosciuta. Ho pensato: è così che mandano l’angelo. Fermo
all’età che aveva quando ti amava di più.
…
Mi sono
fermata di fronte a lui. Quasi non se ne è
accorto. Gli ho detto: “Mi chiamo Alma.”.
…
Ma
pensa, le ho risposto. Il mio nome preferito.