Il regno di Dio soffre violenza

 

Vedere il Servo Sofferente nella parabola del banchetto nuziale

 

 

William Martin Aiken

 

martyaiken@aya.yale.edu

 

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

 

brottof@libero.it   www.bibliosofia.net

 

Avvertenza del traduttore. William M. Aiken mi ha chiesto di precisare  due punti. Il primo riguarda il fatto che questo è solo il suo primo tentativo di elaborare un’idea nuova della parabola del banchetto nuziale, con tutte le approssimazioni che gli inizi comportano.  Il secondo concerne il silenzio attribuito al re della parabola: una lettura più approfondita del testo greco porta l’autore a scartare l’ipotesi qui da lui stesso formulata a proposito.

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In questo intervento proporrò una nuova lettura del banchetto nuziale in Matteo (Mt 22, 1-14). Secondo me Gesù usa questa parabola per dichiarare ai rappresentanti del potere, e al mondo, che la sua autorità sarà l’autorità del servo sofferente.  Gesù fa questo strutturando la parabola in modo tale da potervi introdurre la figura del servo sofferente da Isaia, specialmente Isaia 52, 13 e 53, 12. La figura del servo nella parabola con la quale Gesù si identifica è l’uomo senza abito nuziale, il quale soffre un’espulsione, e peggio, da parte del re.

La lettura universalmente accettata di questa parabola perviene ad una conclusione esattamente opposta. Il re che viene introdotto all’inizio della parabola viene inteso come un riferimento a Dio, e la violenza che il re scatena sull’uomo non adeguatamente vestito è interpretata come violenza sacra, derivante da un giudizio sull’assoluta resistenza dell’uomo all’invito di Dio ad entrare nel suo regno.

Non farò alcuno sforzo per armonizzare queste due letture, soprattutto perché non vedo alcun modo per cui possano integrarsi. Voglio mettere in guardia il lettore nei confronti dell’enorme forza inerziale della lettura stabilita. La gravità è l’effetto che un corpo esercita su di un altro, e la lettura comunemente accettata ha acquisito una massa tale da trasformare quasi le parole di Gesù e il testo di Matteo in un buco nero che ingoia qualsiasi tentativo di leggere la parabola in un modo differente. Se mi si può perdonare il fatto di farmi coinvolgere nella mia stessa immagine, vorrei mostrare che è possibile far nascere un nuovo sole che possa gettare una nuova, differente luce su questo testo. 

 

La parabola

 

Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: “Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.

Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti. Uil traduttore lo porrà come epigrafe finale. nozze.o, ma gli invitati non ne erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade

 

La prima ragione per cui il re della parabola viene identificato con Dio, il Padre di Gesù, sta nel fatto che essa sembra equipararli in modo molto diretto. Gesù disse:  “Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio.” (22, 2). Vi sono almeno tre elementi a favore di questa equiparazione. Il primo è la forte corrispondenza tra “regno” e “re”. Il secondo è dato dal fatto che il re della parabola ha un figlio cui rende onore: questo determina un forte parallelismo col rapporto tra Gesù e suo Padre. Il terzo elemento sta nella logica verbale della frase, che indica che Gesù sta mostrando un’equivalenza tra il regno ed il re.

È vero che non si può avere un regno senza un re (o una regina), ma è anche vero che “re” e “regno” non sono termini interscambiabili nello stesso modo in cui, per esempio, lo sono “re” e “regina”. Se un re si equipara al suo regno, ciò dice qualcosa su che tipo di re egli sia e su che cosa sia diventato il suo regno, ma ci servono entrambe le parole per descrivere pienamente quello che è lo stato delle cose.

D’altra parte il testo greco presenta un linguaggio che non corrisponde a quello della traduzione inglese [e italiana – nota del trad.]. Il testo greco ha “…he basileia ton ouranon anthropo basilei, letteralmente il regno dei cieli a un uomo re. Mentre anthropo basilei è una forma comunemente tradotta con “re”, a mio parere noi dobbiamo ancora riconoscere che la giustapposizione di “cieli” e “uomo” potrebbe anche essere letta come una fonte potenziale di tensione, e forse di differenza. E l’interpolazione di “uomo” tra “regno dei cieli” e “re” potrebbe ancor più interrompere e indebolire il discutibile legame tra regno e re di cui si è detto.

La cosa che più colpisce nel comportamento del figlio in questa parabola è che non appare mai. Suppongo che se gli invitati si fossero presentati al banchetto come ci si attendeva da loro egli sarebbe stato là ad accoglierli. Vi era una grande aspettativa che Gesù si proclamasse re ora che egli era finalmente giunto al Tempio di Gerusalemme (1). Data una tale aspettativa, sembrerebbe strano che Gesù abbia raccontato una storia su di un regno con un figlio in cui il figlio non compare mai, e la storia che Gesù racconta sul regno appare essere anzi una continuazione dello scontro con i Farisei. Ci si deve chiedere se il contenuto si adatti all’occasione.

L’argomento più forte a favore dell’equiparazione tra “regno dei cieli” e “re” è quella che ho chiamato la logica verbale della frase. Sembra che Gesù identifichi le due identità al fine di usarne una per descrivere l’altra. Potrebbe sembrare che proprio le sue prime parole rendano molto chiara questa duplice intenzione: “Il regno dei cieli è simile a…”. Ma in greco il verbo chiave, non solo di questa frase ma di tutta la parabola, è “homoitha,” terza persona singolare dell’aoristo passivo. Sono costretto a specificare la sua flessione perché la sua forma aoristica passiva è cruciale per una sua traduzione corretta. Secondo quanto è scritto, Gesù comincia la parabola dicendo – in una traduzione corretta – “Il regno dei cieli può essere reso simile a un re…”. Dire che un regno è come un re è semplice; dire che un regno è stato reso simile a un re introduce nella relazione un terzo elemento. Questo apre enormemente  a nuovi significati la frase di Gesù, e l’intera parabola. Ora la parabola potrebbe anche significare che il popolo con la sua renitenza e violenza è responsabile della violenza del re, il che rappresenterebbe nient’altro che un affinamento dell’interpretazione tradizionale. Oppure potrebbe significare che il regno dei cieli corre il rischio di essere corrotto dalla rivalità violenta, e questo potrebbe essere una prospettiva interessante da esplorare.

Il punto più rilevante è che ora la parabola si apre ad un più ampio ventaglio di letture. “Simile” non dovrebbe essere usato nel significato di equivalente. Dovrebbe essere invece letto come un’introduzione alla parabola, un modo di porre davanti a noi la parabola nella sua totalità, e di farci cercare entro la parabola stessa a chi appartengono i nomi e in che cosa consiste la qualità essenziale del “regno dei cieli”. Questa parabola usa un verbo passivo all’inizio, ma il resto presenta un forte carattere di azione. Tuttavia, l’uso retorico delle voci attive e passive e gli assunti filosofici che stavano dietro a quest’uso non erano gli stessi che ci appartengono oggi. Un’azione in apparenza attiva poteva essere resa nel passivo in ragione  della sua motivazione di base (2). Il punto essenziale è che dobbiamo immergerci nella parabola e osservare le relazioni in essa presenti.

 

Regalità

 

Gesù narra la parabola del banchetto nuziale come risposta finale alla domanda che sacerdoti e anziani gli avevano posto: “Con quale autorità fai questo? Chi ti ha dato questa autorità?” (Mt 21, 23). Il discernimento dell’identità del re della parabola deve essere compreso entro il più ampio contesto della risposta di Gesù a questa domanda circa la sua autorità. Gesù ha già avanzato una pretesa di autorità – contrapposta ad un’altra autorità – con la sua “purificazione” del Tempio. Il Tempio “possedeva un enorme significato politico” (3).  Con la sua entrata trionfale in Gerusalemme, Gesù aveva  già destato delle aspettative messianiche (4). La sua prima azione dopo essere entrato nella città regale fu quella di recarsi al tempio, ove “L’azione di Gesù … fu egualmente ‘regale’” (5). Le azioni di Gesù “avrebbero parlato non solo di religione ma anche di regalità” (6).

Erode il Grande aveva impiegato nella ricostruzione del Tempio un’enorme quantità di risorse perché esso aveva una grandissimo significato politico. “La grandiosa ricostruzione del Tempio da parte di Erode rappresentava un elemento cruciale nella sua pretesa di essere il re dei Giudei”. Tra tutti i simboli dell’identità di Israele, il primo simbolo di connotazione regale era il Tempio (8). Ma lo stretto legame di Erode e dei suoi discendenti al tempio faceva correre a Gesù un rischio maggiore. Attaccando il tempio, egli attaccava non tanto un’entità politica astratta, ma un uomo al potere che aveva l’autorità di farlo arrestare, e peggio: “Non si poteva sfidare direttamente, neppure in modo allusivo, un figlio di Erode il Grande”(9). Penso che ora sia chiaro come l’intero incontro con i sacerdoti stesse avvenendo in un contesto regale, e come l’uso da parte di Gesù di un re nella parabola potesse solo rendere più pregnante quel contesto per i suoi ascoltatori.

Nel nostro approccio alla parabola abbiamo incontrato un altro re, molto esplicito, molto reale, e suo figlio altrettanto reale. Le preoccupazioni del pubblico di Gesù sono molto reali e molto immediate. Essi sospettano che Gesù stia sfidando direttamente un governante al potere e si stia preparando per una rivoluzione su vasta scala. Senza dubbio la prima tendenza dei sacerdoti deve essere stata quella di identificare il re della parabola con quello che allora regnava a Gerusalemme (10). Essi non seguono la parabola per ascoltare delle riflessioni astratte sulla regalità o l’escatologia. Si preoccupano di ciò che accadrà oggi o al massimo domani, e di ciò che Gesù dirà ora per mettere in moto gli eventi: nel frattempo il re in carne ed ossa si sta preoccupando a sua volta, non molto lontano di lì. Il giorno seguente, non appena Gesù fa il suo ingresso nel Tempio, i sacerdoti lo interrogano. Proponendo le sue parabole, Gesù non si limita a commentare le sue azioni precedenti, ma si impegna in un’azione da successore nello steso luogo simbolico. Egli esprime l’autorità circa la quale i sacerdoti lo stanno interrogando. Nelle glosse di Gesù sulla parabola del re vi è qualcosa che potrebbe suggerire agli ascoltatori l’idea che Gesù si riferisca al re che i sacerdoti riconoscono e servono? Il banchetto nuziale è chiaramente il motivo centrale dell’intera parabola. È così importante da diventare quasi a sua volta un personaggio. A volte sembra quasi che il re sia al servizio del banchetto, e non il contrario, come dovrebbe essere. Nella storia della dinastia erodiana vi è forse stato un matrimonio di una tale importanza reale e/o simbolica da continuare a venire associato a tutti i membri della dinastia, fino a questo giorno al Tempio di cui stiamo parlando? Se vi è stato, non sarebbe fulmineamente richiamato alla memoria degli ascoltatori?

Erode il Grande fu il fondatore della dinastia erodiana. Egli fu nominato re dai Romani mentre si trovava in esilio, perché Antonio aveva spiegato al senato che “anche ai fini della guerra contro i Parti era conveniente che Erode fosse re”(11). Erode fu sorpreso di essere lui il prescelto dai Romani, perché riteneva assai più probabile che essi avrebbero conferito il regno al fratello della sua futura moglie, che era non soltanto giudeo, ma anche di sangue regale asmoneo (divenuto re, Erode “lo avrebbe fatto uccidere”  [14, 388]). Se non fosse stato un protetto dei Romani, Erode sarebbe stato soltanto, secondo le parole di Antigono, che governava Gerusalemme un “privato e idumeo, cioè giudeo solo a metà”(14, 403).

A questo punto della storia, la regalità di Erode appare alquanto strana. Egli è stato proclamato re di Giudea a Roma, ma non ha ancora regnato a Gerusalemme neppure per un giorno. Ad Erode non manca mai lo spirito di iniziativa, così dà il via ad una campagna militare che lo porta fino alle mura di Gerusalemme. Incontra opposizione, ma invece di lanciare il suo esercito sulla città lancia un appello, affermando

 

…di essere venuto per il bene del popolo e la salvezza della città, e di non essere mal disposto neppure con i suoi nemici dichiarati, intenzionato com’era a passare sopra anche alle offese ricevute da chi gli era più ostile  (14, 402)

 

L’appello di Erode al popolo suona notevolmente simile nello spirito all’invito esteso dal re nella parabola: “Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze”.

La situazione di Erode davanti alle mura di Gerusalemme in effetti presenta un’analogia ancora maggiore, anzi inizia a diventare identica alla situazione del re della parabola. Erode è fidanzato alla nipote del sommo sacerdote Ircano, ma non l’ha ancora sposata (12). Se Erode potesse consumare questo matrimonio, assumerebbe su di sé e farebbe ricadere sul figlio la legittimità e il prestigio della casa reale asmonea. Per lo stesso motivo, egli è stato proclamato re ma non si è mai seduto sul suo trono, lasciando la sua regalità altrettanto incompiuta.

Erode ha una regalità divisa che da sé stesso non può unificare. Sta davanti a Gerusalemme con una grande armata sostenuta dalla potenza del più grande impero della terra. Sarebbe stato concepibile un suo attacco alla città col conseguente matrimonio con la sua fidanzata asmonea. Ma il matrimonio sarebbe stato una farsa e solo un altro passo nella presa del potere. La legittimazione, con la sicurezza conseguente di cui lui andava in cerca, avrebbe potuto sfuggirgli per sempre. Il regno di Erode e la sua dinastia sarebbero rimasti perennemente vulnerabili alle vicissitudini del potere politico e militare in un mondo pieno di rischi. L’unica eredità sicura di suo figlio, ammesso che fosse vissuto abbastanza a lungo, sarebbe stata rappresentata dai capricci e dai rischi del potere (13). Il figlio avrebbe goduto di una sicurezza ancora minore di quella del padre.

Molto meglio allora mettere da parte l’attacco almeno per il momento, e rivolgere al popolo un invito ad accoglierlo come re. Se il popolo lo avesse accettato, allora la natura della sua regalità sarebbe mutata, ed Erode avrebbe potuto legittimamente dire che invitando i suoi ospiti alle proprie nozze egli lo invitava nello stesso tempo a quelle di suo figlio. Quello che è sottaciuto è che entrambe le parti, Erode e il popolo di Gerusalemme, stanno creando la possibilità per i figlioli degli ospiti invitati di essere ricevuti come ospiti ad un matrimonio in quello che sarà un futuro di maggior sicurezza.

Erode e il popolo si trovano in una situazione di reciproco bisogno. Non importa quanto grandi siano le loro differenze e quanto diverse le loro motivazioni individuali, essi ora si trovano in una posizione di mutua uguaglianza fondata sul bisogno reciproco. Si potrebbe dire che essi si trovano nel regno dei cieli, o sulla sua infinitesima soglia. Poche cose potrebbero simboleggiare questa mutualità quanto un banchetto nuziale. “Coloro con cui uno condivideva cibo e servizi, e quelli che si scambiavano benefici e favori, erano come fratelli, e ci si riferiva loro in quei termini” (14). I primi favori che ci si sarebbe scambiati erano chiari: Erode avrebbe evitato l’intervento di un esercito imperiale, e i cittadini gli avrebbero dato il benvenuto e avrebbero partecipato come ospiti al banchetto nuziale.

Sebbene Erode disponesse della forza militare, sarebbe stato il popolo a determinare l’esito dell’incontro. In realtà, Erode avrebbe imitato il loro comportamento, qualunque fosse stato: se di opposizione, allora conflitto aperto; se di accoglienza, allora un primo passo verso la pace. Erode è il ritratto stesso del desiderio impetuoso, un fatto di cui i Giudei sono ben consapevoli. Giuseppe riferisce come, a soli quindici anni, Erode fosse “valente di spirito” e cercasse un “modo di mettere in evidenza la sua capacità” (14, 159), proprio come davanti a Gerusalemme cercherà un’opportunità per dimostrare che egli è un re. Oggi noi potremmo dire che egli era dominato dall’imitazione, spinto dal suo desiderio di essere “grande” e alla ricerca di un “modo di mettere in evidenza la sua capacità” al fine di soddisfare il suo desiderio.

L’occasione che questo ragazzo di quindici anni trovò per segnalare il suo coraggio gli si offrì quando egli udì che Ezechia, che era un archilestes, il capo di un gruppo di briganti, si trovava in un’area di confine in Siria. I briganti erano zeloti, guerriglieri che “nell’immaginario popolare erano visti come uomini … che avevano agito animati da zelo per il loro Dio” (15). Abbiamo un giovane con la passione tipica di un adolescente che agisce animato da zelo per la propria grandezza, che va a scontrarsi con un ladrone che è spinto dallo zelo per il suo dio. Essi fuoriescono da sé per incontrarsi nell’altro.

Erode è vittorioso sopra Ezechia e i suoi seguaci, e giunge a trucidarlo di propria mano. Questo produce l’effetto desiderato. I Siriani, felici di essere stati liberati dagli zeloti, che consideravano ladroni, “inneggiavano a lui per villaggi e città, come a colui che li aveva messi in condizione di godersi in pace e sicurezza i propri beni” (14, 160). Naturalmente Erode non agì per portare la pace ai Siriani, bensì per udire qualcuno cantare canti di lode in suo onore.

Il successo di Erode ha una conseguenza mimetica ben prevedibile: produce un emulatore mimetico. Fasael, fratello di Erode, era stato fatto governatore di Gerusalemme dal padre. Giuseppe scrive di Fasael come se fosse intento ad illustrare la mimesi: Fasael  “sollecitato da questa glorificazione ambiva a non restare indietro nell’acquisizione di pari fama” (14, 161). Secondo quella che doveva dimostrarsi una delle grandi ironie della storia erodiana, Fasael si avviò a guadagnarsi questa fama governando Gerusalemme in un modo tale che “si accattivò gli animi” dei cittadini, ed ebbe successo, non abusando della sua autorità né trattando gli affari in modo inadeguato (14, 161-162). Sarebbe stato prudente correre il rischio, nella speranza che le forze mimetiche operanti su Erode lo conducessero a governare con la stessa saggezza del fratello, qualora i governanti di Gerusalemme avessero risposto favorevolmente alla sua esortazione?

I “capi dei Giudei” hanno sulla personalità di Erode una prospettiva differente. Laddove noi abbiamo concluso che il suo comportamento era il prevedibile risultato di un eccesso di desiderio appassionato senza limiti e disciplina, gli anziani conclusero che Erode era un uomo violento e desideroso di tirannide. Io direi che Erode era molto desideroso di soddisfare qualsiasi desiderio avesse mutuato allora.

Ora possiamo svolgere un’analisi più accurata della situazione dei cittadini di Gerusalemme nel momento in cui considerano l’offerta di Erode. Essi non sono solo i guardiani di Gerusalemme, sono anche i custodi del desiderio di Erode, e i due ruoli si sono intrecciati in modo inestricabile. Erode è ambiguo. Viene davanti a Gerusalemme con un esercito, ma desidera essere ricevuto come un pacificatore. Egli può soddisfare il suo desiderio con le armi o con la diplomazia: a maggior ragione ha bisogno che un altro scelga per lui.

I cittadini di Gerusalemme fanno la loro scelta. Essi respingono l’offerta di Erode, a cui ci si può riferire simbolicamente dicendo che essi rifiutano l’opportunità di andare al suo matrimonio e alla relativa propria pace. Cosa interessante, Erode appare rifiutare il matrimonio proprio come loro: egli non sposa ancora la sua promessa asmonea con la sua promessa di legittimazione. Il rifiuto da parte dei cittadini assume la forma di un rifiuto di Erode come inadatto al governo, secondo i loro propri criteri interni. Antigono, citato sopra, parla per quel che appare essere il popolo dei cittadini, ma potrebbe anche essere per se stesso: “ …era contro il loro senso di giustizia dare il regno a Erode, che era privato e idumeo, cioè giudeo solo a metà, mentre era tradizione presso i Giudei darlo a quelli della sua famiglia”. (14, 403). Si potrebbe pensare, dato che Erode aveva un esercito dietro di sé, che Antigono avrebbe potuto chiedere se in termini di giudaicità Erode fosse mezzo vuoto o mezzo pieno. Nella parabola, gli ospiti rigettano l’invito del re alle nozze. La traduzione normale recita: “Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero” (22,5). Tradotto così, sembra che la massa degli invitati semplicemente ignori il re: la loro partenza appare una continuazione della grossolanità manifestata inizialmente col rifiuto dell’invito. È come se essi non volessero essere infastiditi, se ne vanno perché non vi è nulla che li interessi. “Non se ne curarono e andarono” non fa pensare che gli invitati potrebbero trovarsi in una situazione critica, nella quale la loro risposta è cruciale e decisiva. Probabilmente la miglior analogia che abbiamo a disposizione per il “non se ne curarono e andarono” di questi invitati è quella con un uomo che non si cura delle ammonizioni che un predicatore evangelico da marciapiede gli rivolge mentre si sta affrettando verso casa, ma poi risulta che il predicatore ha ragione, e l’uomo deve realmente prendere una decisione.

“Non se ne curarono e andarono” è la normale traduzione di amelesantes apelthon [lett.: non curandosene se ne andarono – nota del traduttore]. Il verbo ameleo ha anche i possibili significati di “essere negligente, essere indifferente, trascurare”. Tutte queste traduzioni suggeriscono un crollo della responsabilità, una tendenza ad ignorare l’ovvio in un modo tale che alla fin fine la responsabilità di tutto ricade sulle spalle di ciascuno. Suggeriscono che si sarebbe potuto e dovuto fare qualcosa di diverso. Non si tratta di un giudizio basato sul senno di poi: la prudenza avrebbe dovuto anticiparlo e agire di conseguenza.

Se la traduzione corretta delle parole di Gesù è questa, allora il senso delle parole di Gesù non è che questi invitati sono semplicemente pigri e ingrati. Egli mostra come abbiano la precisa responsabilità, che si gioca tra la presenza o l’assenza di una attiva tensione al futuro, di influenzare ciò che verrà dopo. Gli invitati finiscono per occupare il centro della parabola.

Ho sottolineato la presenza di un esercito in attesa alle spalle di Erode, ed ho tratteggiato il carattere di Erode quel tanto che basta per comprendere come sia un personaggio che è pericoloso ignorare. Certamente non prendere in considerazione né il re né il suo esercito sarebbe un atto di “negligenza” inescusabile. Fino a quel punto la risposta storica del popolo ad Erode è coerente con la narrazione di Gesù nella parabola. Ma Gesù aggiunge un’altra sfumatura al pericolo in cui il popolo si sta mettendo. Alcuni ritornano ai propri campi o agli affari, senza dubbio sperando che la vita torni normale. Ma questa è una speranza incredibilmente ingenua. Essi hanno, in effetti, una mentalità isolazionista. Tenteranno di rifugiarsi nel podere o negli affari, come se il lavoro agricolo o il commercio rendessero loro possibile un controllo del loro contatto con il mondo. Ma Gesù lascia intendere che in mezzo a loro, fuso nel gruppo, ci sia un terzo gruppo, che non dipende dalla campagna o dagli affari per controllare il suo mondo. I membri di questo gruppo “presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò” (22, 6-7). Tutti, re e popolo, perdono l’opportunità di assumere il controllo delle passioni che sono ovunque nel mondo, di dominarle invece che esserne governati. L’opportunità svanisce quando gli invitati volgono le spalle al banchetto, e il re fa lo stesso. È verosimile che gli invitati della parabola pensino di poter lasciare dietro di sé il re e qualsiasi pericolo da parte sua. Ma questo costituisce il loro atto di negligenza supremo. Col trascurare i pericoli che si annidano in mezzo a loro, gli invitati renderanno molto pericoloso il loro isolazionismo. Gesù si riferisce a quelli che non tornano a casa o agli affari semplicemente come ad “altri”. Essi sono quelli che danno inizio alla violenza visibile della parabola, ma è improbabile che si distinguano in qualche modo per il loro grado di violenza da coloro che ricercano l’inviolabilità nei campi o negli affari. Essi sono semplicemente meno coperti, meno differenziati nella loro identità, cioè non hanno poderi o affari che li possano definire, così la loro violenza è maggiormente visibile. Siccome gli sforzi di pace falliscono, la violenza è l’ultima cosa che gli rimane.

Ben presto nella parabola l’unica cosa che rimane a ciascuno è la violenza. Gli invitati-banditi esercitano grande violenza sopra i servi del re. Questo fa “indignare” il re. E l’indignazione del re appare giustificata. Ma se noi ripensiamo ad Erode che fa le sue profferte davanti a Gerusalemme con il suo esercito a rimorchio, cominciamo a vedere che il re non aspetta altro che di essere “indignato”. La violenza del re è la sua risposta all’allontanamento degli invitati. Il banditismo è un sottoinsieme incluso entro l’allontanamento che segna l’abbandono della possibilità di pace. La seconda ragione è che il re è un motore mimetico. Se non può prendere una strada prenderà l’altra, e questo rifiuto determina la sua direzione. Anche la violenza che vediamo provenire da lui nella parabola è fuorviante: anch’essa è parte di una totalità più vasta, il cui fato è “determinato” dall’allontanamento dalla pace, ovvero dall’allontanamento dalla possibilità di relazioni reciproche. Ora, invece di vivere nelle relazioni reciproche proposte, il re e gli invitati sono divenuti due parti, ciascuna il doppio violento dell’altra.

Il re non si accontenta di una “giusta” rappresaglia. Egli è ricaduto nella sua violenza, che attendeva dietro le quinte. La violenza non si preoccupa della giustizia. Gesù ci dice che il re “uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”. Il senso che ricaviamo dalla parabola è quello di uno scatenamento della violenza, che lascia dietro di sé uno scenario di totale devastazione. Per cogliere il senso pieno di questa scena dobbiamo ripensare all’alternativa che entrambe le parti avevano avuto prima a disposizione: un banchetto nuziale che attendeva un re e i suoi invitati. Essi non sono riusciti ad arrivarvi insieme. Ora essi si ritrovano di nuovo qui in una comune scena di distruzione. Il re è vittorioso, ma può essere soddisfatto?

Se ritorniamo ora alla storia di Erode il Grande, troviamo una storia notevolmente simile agli eventi descritti nella parabola, e sicuramente simile alla sua logica. Troviamo quasi subito una traccia di tensione mimetica tra i governanti di Gerusalemme. Antigono, che abbiamo citato, non si limita a descrivere i difetti di Erode. Egli insiste sul fatto che il governo di Gerusalemme debba rimanere alla famiglia reale, alla quale lui appartiene. Ma qualora si preferisca che egli non abbia il regno, allora c’erano “…molti della sua famiglia che avrebbero potuto ricevere il regno in modo conforme alla tradizione … ed essendo sacerdoti, avrebbero patito offesa se fossero stati privati di quella carica” (14, 404). Antigono non consiglia di respingere Erode perché pensi che respingere Erode offra maggior sicurezza, o in base ad un’idea di giustizia per la quale si può andare incontro alla morte. No: egli sostiene che un Erode al governo sarebbe un insulto all’onore della sua famiglia. Nei suoi rilievi noi possiamo anche sentire che la sua valutazione di Erode non riesce ad andare oltre la percezione di Erode come suo rivale mimetico potenziale. Poiché quando c’è di mezzo la mimesi la percezione rappresenta i nove decimi della faccenda, questo significa che i due sono divenuti rivali mimetici.

Per dare una rappresentazione concisa della forma mentis del popolo di Gerusalemme a questo punto, sarebbe difficile trovare qualcosa di meglio che dire che esso esprime una versione “da fortezza” di una mentalità isolazionista. I cittadini non hanno perso del tutto la fiducia nell’iniziativa militare. A proposito della parabola, essi cominciano a disturbare le forze di Erode quasi immediatamente dopo la rottura “ufficiale” da parte di Antigono. Tuttavia, essi non evidenziano alcuna tendenza a difendersi muovendo contro Erode in battaglia aperta. Non sono realmente interessati a quello che vi è “là fuori”. È del loro stesso “interno” che essi sono affascinati.

I rilievi di Antigono ci hanno già consentito di cogliere quello che vi è di tanto prezioso all’interno delle loro mura. Egli parla di quanto “avrebbero patito offesa” i “sacerdoti” “se fossero stati privati di quella carica” (16).  Nella parabola gli invitati sottovalutano la realtà della loro situazione. Le persone tendono a sottovalutare l’ovvio perché i loro occhi sono puntati su qualcosa d’altro, e non perché siano incapaci di vedere lontano. Chiaramente la gente di Gerusalemme è così ossessionata dall’idea di dover proteggere l’integrità della propria relazione al sacro che finisce per trascurare ciò che è richiesto per la pura e semplice protezione di sé. Essi sono disposti a sacrificare ogni cosa nel loro mondo pur di preservare la loro capacità di sacrificare sui loro altari.

Si potrebbe pensare che io sia stato eccessivo nel fornire questo ritratto della gente di Gerusalemme come presa da fanatismo sacrificale. Non si tratta però di un mio punto di vista, ma di una descrizione degli eventi sulla falsariga di quel che narra Giuseppe. Erode si ritira da Gerusalemme dopo essere stato rifiutato. Quando vi ritorna, non cerca più alcun contatto col popolo. Al contrario, egli senza indugio inizia a costruire la sua muraglia, opposta a quella della città, dalla quale poter lanciare il suo attacco. Le mura della città cadono una dopo l’altra. Quando non resta più alcuna speranza

…i Giudei si rifugiarono nella parte interna del tempio e nella città alta; temendo che i Romani impedissero loro di offrire i sacrifici quotidiani a Dio, chiesero per tramite di messaggeri che fosse loro permesso di portare dentro soltanto animali da sacrificare. Erode lo concesse nella speranza che si sarebbero arresi. (14, 477)

V’è una qualche ironia nel fatto che l’unica volta che Erode e la gente di Gerusalemme sembrano raggiungere una qualche forma di accordo, questo ha a che fare col sacrificio. Tuttavia, perfino quest’accordo si dimostra illusorio. V’è dell’ironia supplementare nel fatto che i cittadini siano pronti a “portare dentro animali da sacrificare” nel momento in cui vi è appena stato un così tremendo sacrificio fuori dalle mura del tempio. Nondimeno, emerge che i cittadini non hanno alcun interesse ad arrendersi ad Erode come questi sperava. Anzi, essi sono addirittura più risoluti nel loro appoggio ad Antigono. Questo rifiuto di fronte ad un tale desiderio immediato ha su di Erode un effetto prevedibile. È come se parabola e storia si fossero fuse insieme.

Quando però vide che  non facevano nulla di ciò che da loro si attendeva ma insistevano con forza a combattere a favore del regno di Antigono, attaccò e prese a viva forza la città. E subito cominciò dovunque il massacro, perché i Romani si erano inferociti per la lunghezza dell’assedio e i Giudei che erano dalla parte di Erode non intendevano lasciar vivo neppure uno solo degli avversari. Venivano scannati a mucchi nelle strade anguste, nelle case dove si erano accalcati insieme, nel tempio dove si erano rifugiati; non c’era pietà  né per bambini né per vecchi, né riguardo per la debolezza femminile… (14, 478-480)

Antigono, che apparentemente era ossessionato dall’onore sacro, ora compie un atto di sacrificio di sé davvero onorevole. Scende dalla cittadella e si getta ai piedi di Sossio, il generale romano che accompagna Erode, e lo scongiura di risparmiare il popolo. Sossio non prova alcuna pietà per lui, lo chiama Antigone insultandolo, e lo getta “in catene”.

E qual è la prima azione di Erode, ora che egli è re in Gerusalemme?

Fu cura di Erode, come aveva avuto ragione dei nemici, averla anche degli alleati stranieri, dato che essi in massa si spingevano a osservare il tempio e le cose sante in esso custodite. Il re li trattenne, alcuni scongiurando, altri minacciando, altri ancora con le armi, perché riteneva la vittoria più nociva della sconfitta se quelli avessero gettato gli occhi su qualcosa di ciò che era vietato vedere. (14, 482-483)

 

Non è un’ulteriore ironia il fatto che la prima cosa che Erode si affretta a proteggere sia proprio quel fattore che chiaramente ha portato alla distruzione del popolo di Gerusalemme, ovvero l’economia sacerdotale e il sistema del Tempio? Nello stesso tempo, non possiamo fare a meno di notare che la prima cosa che Gesù fa per inaugurare il suo regno è l’esatto opposto di quel che fanno il conquistatore Erode e i Giudei residenti a Gerusalemme: Gesù deliberatamente scardina il funzionamento dell’apparato sacrificale del Tempio.

Parabola e storia si sono fuse in una scena di distruzione indifferenziata di massa. Erode si era preoccupato di mantenere la santità del sacrificio in una città disseminata di cadaveri e devastata. Gesù ci narra di un re ossessionato dal portare a compimento un matrimonio in una sala piena di persone che sono prigionieri-invitati, mentre una città è in fiamme alle loro spalle. Parabola e storia da un iniziale parallelismo sono giunte ad intersecarsi in un denominatore comune finale di violenza indifferenziata, che tuttavia cerca un modo per contenersi. I trionfatori hanno vinto con la spada, ma ogni vittoria offre come frutto immediato soltanto una crisi sacrificale. Ora i vincitori cercano un modo per rimettere le loro spade nel fodero. Una possibile soluzione è deporle su di un altare.

René Girard ha osservato quanto sia difficile per il linguaggio dar conto di una crisi sacrificale. Noi subiamo la tentazione di manipolare la nostra comprensione della crisi travestendola da “storia aneddotica” da un lato, oppure producendo una mitologia piena di mostruosità dall’altro (17). Gesù nella parabola non si arrende a nessuna delle due tentazioni, ed è alla parabola che dobbiamo rivolgerci per trovare una chiara visione della crisi che la “storia aneddotica” riconosce ma non può nominare.

Gesù nella parabola segue un percorso chiaramente definito. Le due parti, re e invitati, hanno cominciato la loro relazione con un invito che rappresenta la possibilità di una relazione di reciproco vantaggio. La semplice accettazione dell’invito potrà introdurre in questa realtà. Si potrebbe veramente definire questa realtà come “simile” al regno dei cieli. Gli invitati respingono l’invito, ma questo loro rifiuto è più di un semplice atto di scortesia nel declinare un invito. Il loro rifiuto è un atto di negligenza: nel caso migliore un atto di ingenuità, nel peggiore di egoismo. Una diagnosi mimetica sottolineerebbe l’ingenuità degli invitati nel pensare di poter mantenere il loro stato di differenziazione – reso tangibile in faccia al re – distogliendosi dal re e volgendosi invece verso il loro interno. Gli invitati hanno in mezzo a loro una forza indifferenziata, chiamata semplicemente e naturalmente “gli altri”, che sarà pronta a cogliere l’occasione dell’allontanamento e a cercare rivalità col re invece che relazione.

Il re non è affatto immune al contagio mimetico. Anzi, posto di fronte alla minaccia da parte di un rivale mimetico, il re entra volentieri in rivalità e amplia il conflitto. Gesù ci dice: “Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città” (22, 7). Forse l’esecuzione degli assassini sarebbe una cosa opportuna e giusta, ma è un senso della Giustizia o la rabbia scatenata del re che lo induce a permettere alle sue truppe di dare la città alle fiamme? Il fuoco è peggio della battaglia, perché consuma ogni cosa in modo indiscriminato. Il riferimento di Gesù al fuoco è il riferimento ad un mondo consumato dal furore e unificato dalla devastazione.

La parabola comincia con un mondo differenziato ma vulnerabile. Gli invitati, che nella parabola appaiono gli agenti principali, dipendono dalla differenziazione e la sfruttano, perfino nel loro rifiuto dell’invito che rappresenta la possibilità di mantenere un mondo stabile in futuro. Essi sono liberi di andare e venire, hanno diverse alternative con mete differenti, ed il re è abbastanza sicuro da offrirsi un’alternativa, una meta. Ovviamente gli invitati se ne “andarono”, ed ora quella che era la loro casa è questa scena di devastazione che è diventata il comune destino di ognuno. Ma nella parabola si può percepire il suggerimento, non in una parola singola ma nell’effetto cumulativo, che la città che il re ha ordinato di dare alle fiamme sia proprio la sua, come è di Erode in Gerusalemme. Il furore mimetico non favorisce nessuno, nemmeno colui che ne è posseduto.

Il mondo del re è caduto in un disordine estremo, che richiede misure estreme. E il re prende la misura straordinaria che consiste nel ricominciare il processo di allestimento della cerimonia nuziale. Ma non si tratta della stessa cerimonia che egli aveva proposto prima. La prima era stata contrassegnata dall’invito e dalla reciprocità. Gli invitati a questo secondo banchetto sono prelevati dalle strade. Il lettore è portato a sospettare che gli “invitati” si trovino per le strade perché le loro case stanno bruciando, ed essi non hanno altro luogo ove rifugiarsi.

La rappresentazione che Gesù fornisce di questo banchetto illustra un singolo punto con due tratti. Il primo mostra esplicitamente la crisi cui il mondo è giunto. È, ovviamente, lo stato di crisi indifferenziata. Il re dice ai suoi servi di “chiamare”, ma è chiaro che essi lo interpretano nel senso di “prendere”. “Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali” (22, 10). Il secondo tratto è la determinazione del re ad utilizzare il matrimonio per riordinare il suo mondo. Il bene e il male significheranno ora qualcosa di nuovo. Prima della crisi, bene e male significavano bene e male come distinti in un mondo differenziato. Bene e male sono ora stati messi insieme, perché servano al nuovo fine cui lo stesso banchetto nuziale è finalizzato: “…e la sala si riempì di commensali” (22, 10). Bene e male saranno ora il bene e il male determinati dal nuovo ordine che emergerà dal matrimonio. Il primo banchetto nuziale era un invito alla relazione e un’opportunità di vita senza meccanismi sacrificali. Questo secondo banchetto nuziale definirà le relazioni come subordinate all’ordine che esso serve, e strutturerà le relazioni in base alla necessità di gestire le crisi sacrificali.

La parabola ha adempiuto entrambe le promesse che noi vogliamo che essa faccia circa l’“essere simile” al regno dei cieli. Essa comincia con uno sguardo su ciò cui l’opportunità di entrare nel regno dei cieli “è simile”, e quindi segue una logica implacabile per mostrarci come invece può diventare il regno dei cieli, ovvero a che cosa può essere “reso simile”. È notevole come la parabola possa iniziare in modo così favorevole per giungere poi ad una situazione così devastante senza mai sbandare. Le fonti di un cambiamento così incredibile sono gli stessi personaggi che prendono decisioni a un dipresso sulla stessa cosa . Nella parabola nessuno può pretendere di essere la vittima di un altro, mentre ciascuno fallisce nel riconoscere la propria responsabilità. Forse è questo il modo in cui la parabola rimane fedele al regno dei cieli che si ripromette di descrivere.

Una delle mie idee fondamentali è che la parabola è anche fedele ad una “storia aneddotica”, e che negli eventi della parabola i suoi uditori dovevano fare l’esperienza di riconoscere degli aneddoti. A mio parere l’uditorio doveva anche essere predisposto a cercare dei riferimenti ad Erode in ogni riferimento ad un re, soprattutto dal momento che gli eventi che precedono il discorso di Gesù appaiono la premessa ad un duro confronto. Ho suggerito una similarità strutturale e spirituale tra la profferta di Erode ai governanti di Gerusalemme e il banchetto di nozze che il re propone nella parabola. Il lettore fondamentalista potrebbe ancora insistere nel dire che, se io mi voglio allontanare così radicalmente dalla lettura tradizionale della parabola, dovrei fornire un matrimonio letterale, appropriato e ben conosciuto dalla vita di Erode, se propongo di introdurlo nella parabola.

Ho richiamato il fatto che, quando si avvicinò a Gerusalemme per la prima volta, Erode aveva una fidanzata in attesa dietro le quinte. Egli aveva scelto come propria fidanzata la nipote di Ircano, il sommo sacerdote del Tempio, appartenente alla stirpe degli Asmonei, la più prestigiosa della Giudea. Ho proposto di figurarci il loro matrimonio come il culmine e il simbolo della riconciliazione politica che si sarebbe potuta verificare se l’offerta di Erode fosse stata accolta. L’offerta di Erode fu respinta, ed egli tornò presso Gerusalemme. Questa volta egli non fece alcun tentativo di negoziato con la popolazione. Invece si preparò ad un’operazione militare, portando il suo esercito “…più vicino alle mura, dalla parte dove esse, davanti al tempio, apparivano più facilmente espugnabili…” (14, 466). A quel punto, essendo chiaramente deciso alla battaglia, che cosa fece Erode? …mentre l’esercito era ancora accampato, egli andò a Samaria per sposarsi con la figlia di Alessandro [la nipote di Ircano] … , che gli era stata promessa…” (14, 467). Mi pare dunque piuttosto probabile che all’uditorio di Gesù venisse in mente Erode, e penso anche che sia altrettanto probabile che il suo matrimonio nell’imminenza della battaglia facesse parte dell’immaginario popolare. In effetti, dato l’immediato riferimento della parabola a un re e ad un banchetto nuziale, è davvero molto probabile che il pensiero del matrimonio di Erode prima della battaglia abbia costituito la prima associazione fatta da ognuno con il banchetto di nozze, che è il fulcro della parabola. Questo fa sì che sia quanto mai rilevante e comprensibile l’incentrarsi della parabola sugli invitati in quanto attori fondamentali, e in particolare l’uso del verbo ameleo in rapporto ad essi. Si può presumere che nel suo uditorio Gesù abbia non soltanto un gruppo di coloro che temono la sua sfida all’ordine stabilito, ma anche un gruppo che è in attesa di una sfida a quell’ordine.  Entrambi si aspettano una conferma della propria posizione, e Gesù non consente a nessuno dei due di trovarla a spese dell’altro.

Perché Erode dovrebbe lasciare un esercito in prossimità della battaglia per portare a termine un matrimonio? Ho sottolineato come il re della parabola non sia immune al contagio mimetico. Erode il Grande era un uomo dalla mente acuta, sebbene fosse anche impetuoso, tirannico, ecc. Era abbastanza acuto da rendersi conto di come fosse saggio acquisire legittimità prima della conquista di Gerusalemme. In questo egli rimase coerente con la logica delle sue azioni espressa dal precedente tentativo diplomatico. Il matrimonio lo avrebbe messo al riparo dalle passioni mimetiche che avrebbero inevitabilmente permeato la città, e in una certa misura lo avrebbe elevato al di sopra di esse. Se si fosse sposato dentro la città subito dopo la battaglia, il matrimonio sarebbe apparso una preda di guerra. Era cosa migliore sposarsi prima e fuori scena, al fine di mantenere l’incipiente dinastia il più possibile separata dagli eventi collegati che l’avevano resa possibile. Una buona parte dell’uditorio di Gesù deve essersi chiesto se Gesù avrebbe riportato alla ribalta quei collegamenti. Gesù poteva scegliere di usare il riferimento al matrimonio come un riferimento attentamente cifrato, ma generalmente compreso, a ciò che egli percepiva essere l’illegittimità del regime erodiano.  Ovviamente questo sarebbe stato il preludio ad una ribellione che avrebbe rimpiazzato l’illegittima dinastia erodiana con i legittimi governanti di Israele. Sarebbe stato anche un ritorno a quel mondo del conflitto che la parabola rappresenta così chiaramente. Una parte dell’uditorio si aspettava solo che Gesù mediante la parabola si ponesse come suo patrono, l’altra parte che la sua opposizione a lui fosse giustificata dalla parabola stessa: nessuno poteva realmente ascoltare quel che davvero Gesù diceva nella parabola, e cioè che una volta che noi abbiamo dimenticato il regno dei cieli, il conflitto ci rende indistinguibili gli uni dagli altri.

 

I re davanti a lui si chiuderanno la bocca…

e noi lo giudicavamo castigato (19)

 

Ora la parabola pare subire un radicale cambio di prospettiva. Fino a questo punto la parabola ha narrato un’azione su ampia scala. Il fallimento dell’azione diplomatica porta ad una grande battaglia che coinvolge un’intera città e sfocia nella sua totale distruzione. Poi, all’improvviso, – il re potrebbe dire “finalmente” – ecco che ci troviamo nella sala di un banchetto nuziale, e il re si preoccupa di un singolo uomo isolato. Questo cambiamento di scena è così repentino e drammatico che si può facilmente comprendere perché sia ampiamente condivisa l’idea che questo secondo atto, per così dire, sia in effetti una seconda parabola innestata nella prima da un primitivo redattore.

Un’indicazione per decidere se questa nuova scena rappresenti o no una redazione successiva a Gesù si può ottenere guardando all’antecedente storico che Gesù aveva in mente nel narrare la parabola, e l’uditorio nell’ascoltarla, secondo l’opinione che precedentemente ho espressa. Tra i ricordi storici vi è un evento che avrebbe potuto indurre Gesù ad includere questo secondo atto nella sua parabola originale, quella narrata quel giorno là al Tempio? In realtà, un simile antecedente esiste, e io mi sono già riferito ad esso: la subitanea resa di Antigono al generale romano Sossio, con la invocazione di pietà per il popolo di Gerusalemme. Si tratta dello stesso Antigono che proprio all’inizio del nostro racconto aveva  consigliato di respingere la proposta di Erode, perché il suo accoglimento avrebbe rappresentato un insulto alle famiglie di sangue reale e sacerdotale. Ho sottolineato come questo rifiuto sia equivalente al rifiuto dell’invito al banchetto nuziale nella parabola. Ora Antigono si offre, secondo Giuseppe, “…senza far conto né della sua precedente condizione né di quella attuale” (14, 481), il che significa che egli attua una conversione completa rispetto al suo precedente atteggiamento.

La sua supplica è del tutto inefficace. Sossio “lo custodì in catene” (14, 481). Dopo la presa di Gerusalemme, Sossio intendeva condurre Antigono a Roma come prigioniero. Ma questo mise Erode in grande ansietà, poiché egli “temeva che… avrebbe potuto perorare la sua causa davanti al senato, dimostrando che egli era di stirpe regale mentre Erode era un privato, e che… il regno sarebbe dovuto passare, per diritto di famiglia, ai suoi figli…” (14, 489). Pertanto, Erode con donativi ad Antonio lo convinse a sopprimere Antigono:

Antonio fa decapitare il giudeo Antigono, che era stato portato ad Antiochia. Egli fu il primo dei Romani che decise di far decapitare un re, perché riteneva che in nessun altro modo avrebbe potuto far cambiare idea ai Giudei, in modo che accettassero che al posto suo fosse innalzato al trono Erode. Infatti neppure sotto tortura accettavano di proclamarlo re, a tal punto avevano stima del re precedente. Antonio perciò credette che l’infamia dell’esecuzione avrebbe fatto diminuire il buon ricordo di lui, e così sarebbe diminuito anche l’odio per Erode (15, 9-10).

Balzano in evidenza i punti seguenti, ciascuno dei quali trova corrispondenza nella parabola. Il primo è che la morte di Antigono è chiaramente parte di un insieme più vasto che include non solo la battaglia ma l’intera disputa sulla regalità. Questo potrebbe costituire un argomento a favore dell’unità testuale tra la prima e la seconda sezione della parabola. Secondo punto, la disputa circa la legittimità dei regnanti era diffusa ovunque. Terzo punto, estremamente importante per la mia interpretazione della parabola, la questione della legittimità è situata nel contesto dei figli, cioè Erode temeva che i figli di Antigono fossero riconosciuti come gli eredi legittimi. Ciò significa probabilmente che Erode aveva capito che i Romani concepivano il loro governo in modo assai più pratico che ideologico, e che se avessero percepito che la Giudea, ora che essa era più sicuramente nelle loro mani, sarebbe stata più facile da governare e il popolo più contento se il governo fosse stato di un legittimo discendente degli Asmonei, allora avrebbero scelto costui. In ogni caso, proprio come ho suggerito nella mia interpretazione della parabola, Erode si sarebbe concentrato sul matrimonio di suo figlio perché il fatto che suo figlio fosse in grado di avere un matrimonio aveva delle vistose ricadute sulla sicurezza dello stesso Erode (21). Quarto punto, ad Erode non basta neppure la pura e semplice morte di Antigono. Antigono deve anche essere disonorato. Egli è gettato in catene, portato a Roma, e messo a morte con un’esecuzione clamorosa, tanto da richiamare l’attenzione anche di commentatori pagani. La parabola presenta la sua analogia con la morte di Antigono nell’ordine del re di gettare l’uomo senza veste “fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Questa non è soltanto una morte; questa è una morte che sembra avere il volto dell’oblio. L’oblio è sicuramente quello che Erode si augura per Antigono. Quinto punto, abbiamo visto in Erode un re che oscilla tra un estremo e l’altro, da diplomatico alla ricerca della pace a tiranno paranoico. Anche questo ha il suo analogo nella parabola. E infine, come punto a sé stante, per quanto non possa essere incluso alla leggera nella nostra interpretazione della parabola, non possiamo fare a meno di notare come dietro la morte di Antigono e quella di Gesù stiano delle realtà politiche condivise.

Ma noi dobbiamo anche rimarcare la fondamentale differenza che intercorre tra la morte di Antigono e quella di Gesù. La vita di Antigono, e specialmente la sua morte, seguono il classico contorno della tragedia. L’eredità della sua morte, come quella delle morti di tanti altri martiri, e probabilmente contro le intenzioni dello stesso Antigono, servì anzitutto a incitare e mantenere la passione. La reverenza nutrita dai partigiani di Antigono nei suoi confronti è direttamente proporzionale alla loro convinzione di militare per la causa giusta. Le circostanze effettive della sua morte si eclissano, rimpiazzate dal simbolismo di quella morte. Più precisamente, la sua morte poteva essere utilizzata come un simbolo intorno al quale mobilitarsi.

Gesù rende l’introduzione e la morte dell’uomo senza veste l’atto più appariscente della parabola. L’uomo senza veste diventa sicuramente il centro dell’attenzione del re, e la nostra attenzione segue naturalmente le preoccupazioni del re. L’uomo senza veste ha una tale presa sull’attenzione del re per il fatto che egli appare unificare e sfidare da solo tutte le sue ossessioni: il banchetto nuziale, e ospiti desiderosi di partecipare alla festa nuziale. La lettura tradizionale manifesta comprensione per l’ossessione del re e giustifica il modo in cui il re reagisce a quest’uomo. L’uomo senza veste viene visto come il più dannato di una lunga sequenza di dannati. Una cosa ben diversa era opporsi al re sul proprio terreno, come avevano fatto molti di coloro che sono adesso riuniti nella sala, ma quest’uomo ha osato portare la sua opposizione al re proprio dentro la sala, ove egli minaccia di corrompere il banchetto regale. Anche se fosse stata la negligenza a fargli dimenticare la veste – un concetto di cui abbiamo già esplorato la rilevanza – questo non lo può scusare, per il fatto che la sua presenza senza veste potrebbe istigare gli invitati, che probabilmente sono abbastanza instabili, proprio come lui.

La potenzialità di istigazione della folla ci pone davanti un’altra sfumatura di questa parte della parabola, ed un altro ruolo che l’uomo senza veste potrebbe giocare. Si può facilmente pensare che questa folla che è stata raccolta nella sala del banchetto sia una folla instabile. Fino a poco prima essi erano tra i promotori di una vasta crisi di indifferenziazione, ed ora ne sono le vittime. A prescindere da quale sia la lettura che ne facciamo, il banchetto rappresenta uno sforzo di differenziare nuovamente la folla, facendone un gruppo compatto. Il re probabilmente avverte questa necessità più acutamente di chiunque altro. E il sacrificio è il modo migliore per conseguire il risultato desiderato. Se noi leggessimo questa storia come un mito invece che come una parabola, non esiteremmo a identificare l’improvvisa fissazione del re sull’uomo senza veste come la scelta di una vittima sacrificale. Il re scorge l’uomo quasi immediatamente, non appena è entrato nella sala, dando l’impressione di essere in attesa proprio di quell’uomo senza veste, o di un altro in condizioni analoghe. Ed è anche possibile, addirittura probabile, che Gesù abbia disegnato l’identità dei personaggi delle sue parabole su modelli di comportamento mitico e sacrificale. Certamente il comportamento susseguente del re può essere descritto come sacrificale. Ai servi viene ordinato: “Legatelo mani e piedi”. Questo è come minimo un’approssimazione molto stretta al modo in cui si legano le vittime sacrificali. L’ordine seguente di gettarlo nelle tenebre esteriori assomiglia fortemente all’espulsione del capro espiatorio, che deve essere totale se si vuole che il rimedio che esso rappresenta sia effettivo.

La parabola sembra indurci nella tentazione di assumere un atteggiamento sacrificale verso la vittima del re. La vittima appare muta. La vittima sembra personificare l’apoteosi del “mutismo” che i primi invitati hanno manifestato nel lasciarsi alle spalle il re e il suo invito. L’uomo sembra anche essere muto nel senso di passivo. Egli in apparenza è così passivo che non è nemmeno in grado di parlare in propria difesa. Può essere che l’uomo senza veste sia senza veste per sfida, ma perfino se si tratta di una sfida essa assume una forma stranamente passiva. Ci rimane l’immagine di un re in preda alla passione, che ha a che fare con l’ultimo e più frustrante rimasuglio di un popolo negligente e ostinato.

Dal canto mio, propongo solo una piccola modifica della raffigurazione che tendiamo a farci di questa parabola. In effetti, la raffigurazione di per sé può rimanere la stessa. Ciò che dobbiamo cambiare è soltanto un assunto. Ho descritto la vittima come personificazione della “apoteosi”, cioè dell’estremo, del mutismo. Suggerisco di accreditare alla vittima l’intenzionalità e di prenderla alla lettera, se non per quel che riguarda le sue parole, che non udiamo, almeno nelle sue azioni. Propongo di vedere l’incontro della vittima col re come intenzionale e operato con preveggenza, e non come un fatto accidentale e di negligenza. Dire che la vittima “personifica” l’ “apoteosi” del “mutismo” ora significa che la vittima intenzionalmente ha assunto la personificazione del “mutismo” del popolo, e porta su di sé questa personificazione volontaria davanti al re nel modo di un’apoteosi, cioè in un modo divino. Se la si guarda in quest’ottica, possiamo interpretare la nostra vittima nei termini del “servo sofferente”. Sono almeno tre i filoni della tradizione del “servo sofferente” dai quali Gesù può avere attinto: la tradizione dei martiri Maccabei; le visioni strettamente connesse di Daniele; infine, fonte principale di questi e probabilmente di tutti gli altri riferimenti al “servo sofferente”, i canti del servo in Isaia, soprattutto in Isaia 52 e 53. Tutti condividono quale comune denominatore la credenza che Israele avrà dei servi le cui “…sofferenze avranno l’effetto di accumulare su di sé le sofferenze della nazione intera, in maniera che la nazione possa in qualche modo salvarsi” (22). Nei versetti del servo sofferente di Isaia il servo assume su di sé la fragilità e il male che stanno nel cuore della sofferenza del popolo, e sono questi i versetti che noi useremo per comprendere la rappresentazione dell’invitato senza veste fatta da Gesù.

L’atto finale della parabola presenta degli uomini in grande sofferenza. Essi hanno chiaramente sofferto per la morte di familiari e amici, e per la perdita di case e beni. La causa prossima delle loro sofferenze è stata la loro cattiva gestione del loro rapporto con il re, e specificamente la loro mancata partecipazione al banchetto nuziale. Ora essi sono messi ulteriormente in pericolo dalla grandissima instabilità che li circonda e che accresce il rischio già rappresentato da un re quasi tirannico. Se qualcuno volesse per amore del popolo accollarsi e portare su di sé le infermità e le sofferenze del popolo stesso, che cosa farebbe ora? Egli si recherebbe insieme alla gente al banchetto che si tiene nella sala nuziale, ma nello stesso tempo non vi parteciperebbe. Egli imiterebbe la mancata risposta del popolo all’invito a nozze del re, e mediante quest’imitazione farebbe di sé il punto focale dell’ira del re. Egli verrebbe, ma verrebbe senza indossare un abito nuziale… Ora, nel mezzo di tutti questi uomini che stanno soffrendo qui e ora perché hanno mancato di venire prima, l’uomo senza veste viene fra loro e prende su di sé la loro sofferenza diventando “l’unico che non è là”. L’ira del re, che come ben vediamo non si è ancora consumata, cadrà sull’uomo senza veste. Inevitabilmente l’uomo senza veste diventerà la vittima.

C’è una parola molto semplice per descrivere ciò che ha fatto la vittima presentandosi al matrimonio senza veste. Egli ha imitato il peccato del popolo, col che intendo che egli ha imitato quel passo falso che ha tenuto il popolo fuori dal regno dei cieli. Tutti coloro che sono nella sala del banchetto sono incappati nella stessa imitazione mimetica. Questa spirale mimetica è quello che è andato fuori controllo, al punto che il re è stato risucchiato nello stesso ciclo di imitazione. La posizione del re appare differente solo perché egli dispone di molti servi, la cui imitazione egli può controllare, e che gli conferiscono una maggior concentrazione di potere. L’uomo senza veste imita il loro peccato, la loro imitazione mal diretta, ma imita in un modo che garantisce soltanto la sua imitazione della loro qualità di vittime. Egli resta separato dal loro imitare incontrollato, nonostante il fatto che ciò che egli imita sia proprio il loro soffrire a causa del peccato. Egli si mette al loro posto nel momento stesso in cui stanno soffrendo come vittime, ed egli interrompe il loro essere vittime col fare di se stesso la vittima in favore di tutti, sia del re che del popolo.

In Isaia troviamo due passi che vorrei considerare alla luce della mia interpretazione. Il primo è semplicemente un riassunto conciso ed eloquente dell’immagine che Isaia ha del servo sofferente:

Disprezzato e reietto dagli uomini, / uomo dei dolori che ben conosce il patire, / come uno davanti al quale ci si copre la faccia, / era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. / Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, / si è addossato i nostri dolori / e noi lo giudicavamo castigato, / percosso da Dio e umiliato. / Egli è stato trafitto per i nostri delitti, / schiacciato per le nostre iniquità. / Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; / per le sue piaghe noi siamo stati guariti./ Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, / ognuno di noi seguiva la sua strada; / il Signore fece ricadere su di lui / l’iniquità di noi tutti. (53, 3-6)

 

Non c’è nulla che possa obbligare il lettore ad accettare l’idea che questa descrizione del servo sofferente si applichi all’uomo senza veste della parabola di Gesù. Vi è un punto sul quale tutte le interpretazioni dell’uomo senza veste ironicamente concordano con Isaia: “era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”. Vorrei anche suggerire che le parole “ognuno di noi seguiva la sua strada” descrivono un fenomeno eminentemente mimetico, compresa l’illusione che la nostra scelta sia spontanea. Nella parabola v’è un’allusione molto esplicita e tuttavia molto sottile al passo di Isaia sul servo sofferente, ma per coglierla dobbiamo modificare il nostro modo di leggere la parabola. Il re entra nella sala per vedere gli invitati, e poi quasi immediatamente nota l’uomo che non indossa la veste nuziale: “gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì”. Generalmente si intende che questo egli che ammutolisce sia l’uomo senza veste. Sembra infatti che il contesto renda chiaro che la risposta che l’uomo senza veste fornisce sia il suo “ammutolire”. A sostegno di questa lettura c’è anche il fatto che appare non esser data all’uomo senza veste alcun’altra opportunità di rispondere alla domanda. Senza dubbio questa lettura è fortemente coerente.

Tuttavia, nella parabola troviamo un’altra formula egualmente compatibile, che è rilevante per una corretta comprensione dello scambio tra il re e l’uomo senza veste. Ogni volta che nella parabola compare egli [ma ciò avviene nella traduzione inglese, non c’è nel testo originario greco – nota di F.B.] o suo, eccetto che in questo singolo caso, se questo è un’eccezione, questi termini si riferiscono al re. “Egli” riferito al re è usato in modo rilevante fino al punto in questione: “egli scorse”, “egli disse”, e poi “ed egli ammutolì”. Il passo è ugualmente coerente anche nel caso che noi attribuiamo l’ammutolire al re. L’ammutolire del re nel momento in cui vede l’uomo senza veste è strutturalmente parallelo alla sua indignazione quando i suoi servi sono assassinati. L’ammutolire è un approfondimento dell’effetto che l’uomo senza veste ha esercitato sul re. Da questo punto di vista, non possiamo più guardare al re come se egli tenesse la situazione perfettamente sotto controllo. L’uomo senza veste lo ha sorpreso al punto di fargli perdere per un momento il suo equilibrio. Il re lo recupera subito nel modo stabilito da millenni: ordina un sacrificio.

Questa lettura merita attenzione per i suoi meriti, ma è ancora più significativa se tentiamo di mettere in relazione questa parabola con il servo sofferente di Isaia. In Isaia 52, che è il cuore della sezione del servo sofferente, presenta il seguente passo:

Come molti si stupirono di lui … così si meraviglieranno di lui molte genti; / i re davanti a lui si chiuderanno la bocca … (52, 14-15).

Ciò che questo significa per la parabola è ovvio se siamo disposti ad accettare che quando parla di ammutolire si riferisca al re. Ma anche qualora noi vogliamo riconoscere come ammutolito l’invitato senza veste, troveremo conferma del motivo del servo sofferente. In Isaia l’accento è posto con grande enfasi sul silenzio del servo sofferente. “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca” (53,7) è solo un esempio tra i molti che potrebbero essere citati. Tutti descrivono la situazione e il comportamento dell’uomo che nella parabola diventa la vittima del re.

Penso che a questo punto dobbiamo ricordarci che stiamo interpretando una parabola. Le parabole hanno una loro complessità e seguono regole loro proprie, se non altro perché Gesù sostiene tesi inusuali in luoghi dove normalmente non vengono esposte. Date le circostanze, penso che sia ragionevole accettare l’idea che l’ “ammutolire” si riferisca sia al re che all’uomo senza veste. Che questi due siano stati congiunti in modo straordinario  in una delle relazioni più straordinarie è un dato fondamentale della parabola che nessuno può contestare.

Se l’uomo senza abito nuziale è realmente un riferimento al servo sofferente, allora il servo sofferente ci colloca in una posizione dalla quale possiamo capire la risposta che Gesù dà ai sacerdoti e agli anziani. Il sommo sacerdote in realtà fa due domande a Gesù.  La prima è “Con quale autorità fai questo?”. La risposta, probabilmente diversa da qualunque risposta essi hanno concepito, è l’autorità del servo sofferente. I sacerdoti, e moltissimi altri, si attendono che Gesù si ponga a capo di una rivoluzione. Gesù dice loro che invece che condurre una rivoluzione egli prenderà su di sé la violenza da cui le loro vite sono governate. La risposta di Gesù che egli “patirà la loro violenza”, conduce logicamente alla loro successiva domanda, come i loro ansiosi calcoli hanno portato i sacerdoti a porla. Chiedono: “Chi ti ha dato questa autorità?”. La risposta costituisce una delle grandi intuizioni e una delle grandi ironie del vangelo. La risposta è : voi me l’avete data, in virtù del persistere della violenza che voi avete praticato “sin dalla fondazione del mondo” e che voi intendete usare su di me, Gesù, ora. Il servo sofferente riceve la sua autorità dal suo prendere su di sé la violenza, i peccati, e la sofferenza degli altri. Egli è chiamato all’essere da un mondo frantumato.

In Matteo troviamo almeno due altri passi precedenti che richiamano questa parabola. Qui non posso rendere giustizia a entrambi, se non commentando brevemente la loro rilevanza per la mia lettura di questa parabola. Il primo è Matteo 11, 12: “Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono”. Questa non è una parabola ma un’ aperta proclamazione del fatto che “il regno dei cieli soffre violenza”. Il re è implicato nel prendere con la violenza tanto quanto lo è nel soffrirla. Alla fine, solo la vittima “soffre” la violenza.

Il secondo passo di Matteo è molto più sorprendente. Mi sono dilungato a mostrare come fosse possibile che l’uditorio di questa parabola nel suo insieme la comprendesse come un riferimento ad Erode il Grande. Tra gli elementi che avranno impressionato la gente deve esservi stata la sicurezza del suo regno, la capacità di imporsi, e la prontezza nel far ricorso alla violenza. Dei lettori scettici potrebbero mettere in questione il fatto che questi fossero temi sviluppati nella Palestina del primo secolo (o dire che sono così diffusi da non significare alcunché). Risponderei indicando come il racconto matteano della nascita di Gesù presenti delle straordinarie corrispondenze con la parabola del banchetto nuziale. I Magi, uomini saggi, vogliono celebrare una nascita regale, proprio come il re vuole celebrare le nozze di suo figlio, destinato ad essere re. Il re si chiama Erode. Erode segnala di voler celebrare la nascita di un re, quando invece egli vuole eliminare un competitore. I Magi non fraintendono le reali intenzioni del re, così non ritornano dal re con informazioni sul bambino. Gli uomini della parabola, che saggi non sono, con la loro negligenza fraintendono ciò che l’invito del re rappresenta in realtà. E la somiglianza più amara e più vistosa di tutte è rappresentata dal fatto che quando le istruzioni del re vengono ignorate e i suoi desideri frustrati, egli ordina un’incredibile orgia di violenza.

Ho evidenziato più volte come Gesù avesse un uditorio formato da almeno due gruppi, ciascuno in contrasto con l’altro. Il primo era composto dagli anziani e dai sacerdoti, rappresentativi dei poteri dominanti. Questi poteri temevano che Gesù intendesse guidare una rivolta. Il secondo gruppo era quell’ampia fascia di persone che ansiosamente attendevano quella insurrezione di cui si aspettavano la guida da parte di Gesù.

Vi era anche un terzo gruppo: i discepoli di Gesù. Essi non erano per niente immuni all’attrazione gravitazionale da parte di ciascuno degli altri due gruppi in generale, o all’attrazione esercitata dal conflitto tra i gruppi in particolare. Ma alla fine, come all’inizio, essi non vennero fagocitati da alcun gruppo e parlarono liberamente ad entrambi. Gli apostoli sostennero sempre di parlare solo di ciò che avevano visto e udito. Negli Atti Pietro ritorna molto presto al Tempio, al Portico di Salomone, e dice alla folla quello che secondo me aveva udito per la prima volta da Gesù poco tempo prima, quando Gesù aveva dichiarato nel Tempio la sua autorità:

Ora,fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i vostri capi. Dio però ha adempiuto così ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo sarebbe morto. (Atti 3, 17-18)

 

 

NOTE

[1]  N. T. Wright, Jesus and the Victory of God,   Fortress Press, Minneapolis 1996, p. 491.

2  Matt. 6, 7 - 8 è un ottimo e conciso esempio di questo fenomeno. (Questa sottigliezza con la voce si potrebbe chiamare voce girardiana).

3  Wright, op.cit., p. 411.

4  Ivi, p. 491

5  Ibidem.

6  Ivi, p. 411

7  Ibidem

8  Ivi, p. 483

9  Ivi, p. 482

10 Il figlio di Erode il Grande che era al potere in quel tempo non era un re ma un tetrarca, un governante che nel sistema romano ricopriva un ruolo subordinato.  Egli era il successore di suo padre Erode il Grande, e il centro del mio interesse, come anche della vita politica nella Palestina del primo secolo, è la dinastia reale erodiana.  “Re” è una parola più facile, e semplifica la mia storia.  Penso che il suo uso sia appropriato nello spirito, se non nella lettera.

11 Flavio Giuseppe,  Storia dei Giudei (Antichità giudaiche, libri XII-XX, 14, 385. Introduzione , traduzione e note a cura di M. Simonetti, Mondadori, Milano 2002.  Utilizzerò Giuseppe come mia principale fonte storica per la vita di Erode il Grande.  Mentre riconosco che Giuseppe aveva i suoi pregiudizi e i suoi scopi nello scrivere le sue storie, penso anche che la sua prossimità a Gesù nel tempo e nello spazio  ci offra un’ampia e dettagliata prospettiva sugli Ebrei della Palestina del primo secolo. Si dovrebbe anche notare che Giuseppe dipende in modo significativo dalle opere del segretario di Erode, Nicola di Damasco, per la sua storia della dinastia erodiana, e ciò rende probabile che altri conoscessero bene le stesse storie che Giuseppe ha narrato.

12 Flavio Giuseppe, op. cit., 14, 300.

13 Di fatto, Erode farà assassinare alcuni dei suoi figli.

14J. Duncan M.  Derrett, Jesus Audience.  The Social and Psychological Environment in Which He Worked,  Seabury , New York 1973, p.39.

15 N. T.  W right, The New Testament and the People of God. Fortress Press, Minneapolis 1992, p. 171.

16 Lo stesso Giuseppe proviene da una famiglia sacerdotale, così che si può pensare che probabilmente nel suo racconto egli stia dalla parte delle famiglie (Flavio Giuseppe, Autobiografia, 1, 1 - a cura di E. Migliario, Rizzoli, Milano 1994.

17 René Girard, La violenza e il sacro, trad. O Fatica ed E. Czerkl, Adelphi, Milano 1980, p. 92.

18  Gli ascoltatori si saranno  probabilmente ricordati che in seguito Erode aveva ucciso sua moglie e i figli di lei perché li percepiva come possibili rivali per il trono. Avranno colto del sarcasmo nelle parole di Gesù.

19 Isaia 52,15 e 53,4.

20 Non è senza significato il fatto che Antigono rivolga la sua supplica a Sossio piuttosto che a Erode, che è visibilmente al comando.

21Come si è già notato, la stessa preoccupazione per i figli  condusse Erode a liquidare quelli tra loro che avevano sangue asmoneo.

22 N. T. Wright, Jesus and the Victory of God,  cit., p. 583

23 Dedico questo lavoro alla memoria di mia madre, Betty Jean Aiken, morta l’8 marzo 2003.  Lei non nascendo ebrea ha mancato la sua vocazione, e apprezzerebbe questa mia celia “mezzo ebrea”; ma sebbene abbia dovuto accontentarsi di essere una metodista del Tennessee dell’Est, lei viveva la reciprocità con Dio:  Essa nella sua povertà vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.