DUE LIBRI, UNA PAGINA (15)

Letture di Fabio Brotto

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Ogni tanto leggo qualche libro appartenente alla sfera tradizionale-iniziatica. Pierre Ponsoye ne L'Islam e il Graal (1976, trad. M. Murelli, SE, Milano 1998) cerca di mostrare l'esistenza di un Ordine (discendente da Melki-Tsedeq) in cui le tre Grandi Tradizioni monoteistiche trovano il senso di una pacifica e reciprocamente benefica convivenza.

La Lancia appare in tutti i romanzi del Graal, ma, rivestendo pur sempre un carattere soprannaturale, essa ha un'importanza molto ineguale nelle varie versioni, e nessuna di esse le conferisce lo sviluppo che ha in Wolfram. Strumento del castigo divino, essa ferisce il re del Graal non solo nel suo corpo, ma anche nella sua funzione sovrana e nella vita del suo stesso reame, che è colpito da un male misterioso. La ferita diventa più cruenta per l'influenza degli astri. Tutti i rimedi sono tentati invano, poiché " è Dio stesso che impedisce loro di agire ". Solo il ferro che l'ha causata è in grado di alleviarla. Da questo ferro stillano incessantemente gocce di sangue. Essa appare alla testa del corteo del Graal portata da un valletto che percorre i quattro lati della sala prima di allontanarsi con essa.

Secondo un simbolismo tradizionale molto generale, la lancia è una rappresentazione dell'Asse del mondo, analoga alla Montagna, all'Albero del Mondo o, ancora, al " pilastro assiale " del simbolismo architettonico. I brevi cenni esposti sopra sottolineano questo ruolo assiale: la ferita soprannaturale inferta al Re per l'abbandono della sua posizione centrale; l'espiazione cosmica che l'accompagna, modulata dalla rotazione degli astri; l'ambiguità dei suoi poteri; il sangue che cola dal suo ferro, analogo alla rugiada che cola dall'Albero del Mondo; il rito di qualificazione dello spazio. Essa è l'aspetto distruttore o riduttore della Legge divina, di cui il Graal, Centro del Mondo, è l'aspetto dispensatore e conservatore. E' per questo che essa non appare se non come sanzione di una decadenza o come giudizio di un ciclo.

Ora, il portatore di questa lancia, " colui che combatteva contro Anfortas... era un pagano nato nel paese di Ethnise, che è quello in cui il Tigri esce dal Paradiso. Questo pagano si riteneva certo di conquistare il Graal con la sua audacia; egli ne aveva fatto incidere il nome sulla sua lancia. Egli cercava la cavalleria lontana; unicamente spinto dalla forza del Graal (niht wan durch des grâles kraft), percorreva i mari e le terre " .

La lancia viene dunque dai confini del Paradiso, vale a dire dal Centro supremo, dove la Tradizione primordiale è conservata. Il nome del Graal inciso sul suo ferro ne indica l'identità essenziale. E il suo detentore, incaricato della sanzione divina, e venuto anch'egli dai suoi confini, è un cavaliere " pagano " mosso unicamente dalla forza del Graal. Qui ancora si verifica un intervento " pagano " in un momento cruciale dell'Avventura; intervento benefico, anch'esso, malgrado le apparenze, poiché la sospensione dell'attività di un Centro iniziatico è sempre preferibile alla sua deviazione. Sarebbe vano, beninteso, cercare di sapere se questa circostanza corrisponda a qualche evento preciso. Essa comporta tuttavia un indizio, la cui importanza apparirà più avanti, giacché la lancia, sotto forma di vexillum, era nel Medio Evo il simbolo per eccellenza dell'Impero.

Importa notare che tutto questo simbolismo non ha alcun rapporto apparente, qui come in Chrétien, con il Calice della Cena e la Lancia di Longino. Questa indipendenza non è il minore degli enigmi che si pongono a proposito del Graal, se si tiene conto delle risonanze profonde che risvegliava nella Cristianità la leggenda del Santo Vaso e di quelle suscitate, particolarmente in Provenza, patria di Raimond de Saint-Gilles, dalle circostanze misteriose che accompagnarono l'Invenzione della Santa Lancia, alla quale la prima Crociata deve principalmente il suo successo. Nelle sue Notes sur le Messianisme médiéval latin, P. Alphandéry credeva un tempo che Kyot potesse essere " un agente di trasmissione della leggenda raimondiana " e che, " nella misura in cui l'influenza gallese non predomina, l'eroe messianico Raimond de Saint-Gilles fosse stato, più ancora di Giuseppe d'Arimatea, il prototipo dei re del Graal ". Per la verità, non si trova in Wolfram, l'unico portavoce conosciuto di Kyot, alcun elemento di somiglianza con questa leggenda, non più di quanti se ne trovino fra il lapsit exillis e il Vaso del Santo Sangue. Sta qui, a nostro avviso, una delle più forti prove, a contrario, dell'originalità e dell'indipendenza della trasmissione di Wolfram-Kyot, e della sua fonte d'ispirazione autenticamente islamica; prova che viene singolarmente rafforzata dal fatto che, con questo rilevante silenzio riguardo ai simboli della Passione corporale, il Parzival si ricollega tacitamente ai temi islamici, che, almeno nella loro accezione ordinaria, escludono la crocifissione personale e la morte effettiva del Cristo. Il ruolo ciclico assegnato al Venerdì Santo non contraddice questa osservazione; si tratta, probabilmente, di un fattore della formulazione cristiana che, in ogni caso, non tocca assolutamente la struttura del simbolismo propriamente detto. Questa riserva farà naturalmente pensare al principale capo d'accusa contro il Tempio, ossia lo sputo rituale sulla croce e, nella misura in cui può avere qualche apparenza di fondamento, all'imputazione fatta ai grandi Maestri di avere, su istigazione dei Musulmani, aperto la Regola a dottrine straniere. Essa richiamerà anche il Catarismo, e soprattutto il Docetismo, per lungo tempo diffuso negli ambienti cristiani del Vicino Oriente, come testimoniano gli Acta Johannis, e che, nel suo fondo, è molto vicino a certe concezioni islamiche. Ma non bisogna per questo affrettarsi a concludere sull'eterodossia del Parzival. Si tratta comunque di una posizione dottrinale più intuita che constatata, la quale non mette per nulla in questione i dogmi scritturali e la tradizione della Chiesa su questo punto. La prospettiva che qui si indica è, come quella che ispirava il rito templare dell'accoglimento, di ordine puramente esoterico (" il Tempio è morto per un simbolo non compreso ", diceva giustamente Michelet), e si riferisce al problema delle due nature del Cristo, sul quale non possiamo qui insistere. Vi è, fra le eresie suddette e quel che si lascia discernere del pensiero di Wolfram, una differenza radicale: quella che separa una corrente originariamente iniziatica, ma snaturata a causa dell'esteriorizzazione e divenuta eterodossa per questo stesso fatto (processo ordinario nella Formazione delle eresie nel Medio Evo), e una tradizione esoterica rimasta regolare. Le affinità che possono sussistere fra le due, ad esempio il possesso comune di certi simboli, non autorizzano a concludere che la seconda è eretica, ma piuttosto che questi elementi costituiscono, innanzitutto, la parte di verità intrinseca che essa ancora conserva della sua regolarità primitiva, senza la quale non vi sarebbe del resto nessuna specie di realtà. (pp. 66-69)

 

Gustaw Herling è stato poco conosciuto e letto in Italia. Nel secondo dopoguerra, e poi per decenni, chi si è distinto per indipendenza di pensiero e scarsa propensione alla mitologia di sinistra non ha trovato molto ascolto da noi, nel paese degli ideologismi e degli intellettuali militanti. Come per Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, e qualche altro, così anche per Herling, autore con Un mondo a parte (1951) di uno dei migliori libri sui lager sovietici. La lettura del suo Diario scritto di notte (Feltrinelli, Milano 1992, trad. D. Tozzetti - ma è solo una scelta di brani) rivela un intelletto fine e una grande qualità di scrittura. Riporto un pezzo su Nicola Chiaromonte. 

 

19gennaio

Lo conobbi nel 1956, quando, con Silone, fondò "Tempo Presente". Parlava di sé malvolentieri, tuttavia ne avevo già sentito parlare molto dagli altri. All'inizio degli anni trenta aveva deciso di andarsene dall'Italia. Nell'ambiente dell'emigrazione antifascista a Parigi entrò in contatto con l'uomo che poi avrebbe considerato come il suo maestro per tutta la vita. Questo maestro era Andrea Caffi, nato a Pietroburgo, figlio di un italiano e di una russa, menscevico, e perciò rinchiuso in una prigione di Mosca dopo la rivoluzione, viaggiatore solitario ed erudito poco propenso a scrivere, un po' nello stile del nostro Stempowski. Nicola imparò da lui il rispetto per il socialismo libertario, l'avversione all'arroganza del potere e dello stato, e un concetto così elevato dell'amicizia che faceva pensare alle regole delle sette o delle comunità religiose. Combatté in Spagna nella squadriglia di Malraux. Dopo la disfatta dei repubblicani tornò in Francia. Fu costretto a fuggire da un momento all'altro perché ricercato dai tedeschi. Ad Algeri trovò un anima gemella, Albert Camus. Andò in America nel '41: vi passò sei anni insegnando letteratura inglese nelle scuole e collaborando con "Politics" e "Partisan Review". Finalmente poteva di nuovo scrivere e pubblicare: era passato un bel po' di tempo da quando i suoi testi uscivano su "Giustizia e Libertà" dei fratelli Rosselli a Parigi.

Ogni nuovo colloquio, ogni nuovo saggio, persino ogni noterella politica o recensione teatrale mi rivelavano uno scrittore non comune in Italia, paese di letterati tradizionali, di virtuosi dei ghirigori aggraziati e futili al servizio delle ultime mode intellettuali. Scrivere in modo che la frase sia non solo l'espressione di un pensiero chiaro e libero, ma anche di una continua tensione morale, in modo che nella parola palpiti con tutto se stesso colui che la pronuncia come una sua verità, a lungo meditata e sofferta: è una cosa che mi ha sempre attirato. Ed è così che scriveva Nicola. Non si fece mai prendere nelle reti dei "grandi sistemi" e delle "interpretazioni generali", guardava con sfiducia ai "giochetti dialettici" che storpiano la vita e alle "ombre ideologiche" che coprono la realtà: disprezzava lo psicologismo e lo storicismo, lo interessava l'uomo concreto dinanzi ad avvenimenti concreti, l'uomo capace di formulare un giudizio etico, alla maniera di Tolstoj, ma allo stesso tempo cosciente di qualcosa di impenetrabile che esiste oltre a lui. Questo "umanesimo" circoscritto come avrebbe potuto trovare una più larga risonanza in un mondo stregato dalla retorica delle false ideologie "universali", in un clima di ipocrisia mescolata al fanatismo, in una "civiltà consumistica" fatta di cuori aridi e di menti sterili? Nicola era sempre più consapevole del suo isolamento. Aveva intitolato il suo ultimo libro Credere e non credere. In cosa credere, in cosa non credere? "Il nostro secolo non è un secolo di fede, ma non è neppure un secolo di miscredenza. E' il secolo della malafede, delle credenze imposte con la forza, per mancanza di altre, vere." Qual è il rimedio contro la malafede, la terribile malattia dei nostri tempi? Cercava questo rimedio disperatamente. Lui, ateo, o quantomeno agnostico, un giorno confessò: "Credere in Dio è difficile come non crederci".

Nell'aprile dello scorso anno, se ben ricordo, venne a visitare Maisons-Laffitte: da molto tempo desiderava vedere come si vivesse e si lavorasse alla redazione di "Kultura". Lo accompagnai alla stazione: mentre saliva sul treno a un tratto si chinò verso di me e mi sussurrò: "Vi invidio". In bocca a Nicola, un pessimista fermamente convinto che solo all'Est si cercasse ancora di lottare per il valore dell'esistenza umana (vedi il nostro dialogo su Solženicyn in "Kultura"), queste parole avevano un significato molto preciso. (pp.44-46)

30 marzo 2002