DUE LIBRI, UNA PAGINA (13)

Letture di Fabio Brotto

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Quattro casolari isolati (i Masi Bianchi) e una piccola comunità di agricoltori, su cui incombe la collina: lo scenario del romanzo di Jean Giono Collina (1929, pubblicato in Italia nel 1998 da Guanda) è piccolo e insieme grandioso, non solo per lo straordinario linguaggio, di strepitosa ricchezza, che è proprio dell'autore provenzale, ma per il potente senso di rivelazione sacrificale che si impone al lettore non ottuso.

C'è un vecchio ottantenne che giace in fin di vita (Janet) per molti giorni nel suo letto, in una sorta di delirio lucido e malvagio, da cui traspare un fortissimo risentimento nei confronti del piccolo gruppo umano che lo circonda. Una volta ancora: l'odio non nasce dalla non-conoscenza reciproca, benedette creature! E' qui il risentimento del malato verso i sani.

"Che cosa ti abbiamo fatto?"

"Ve ne state sempre lì davanti ai miei occhi, con le gambe che si muovono, con le braccia come rami, con le pance piene; non vi è nemmeno passato per la testa di darmi un po' della vostra vita. Un briciolo, non ne chiedevo molta, giusto per caricare la pipa e andarmi a sedere sotto l'albero" (p.71).

Lui, il padre della comunità, appare, anche agli occhi degli altri, come dotato di un'arcana sapienza. "Lui sa, davvero, e tutto ciò che era oscuro si chiarisce; le cose che non si capivano si spiegano. Ma quello che in tal modo viene in luce è terribile" (p.76). Tutto si può riassumere in questo: la collina è viva ed è maligna.

Si susseguono incidenti sempre più gravi, che alla fine vengono interpretati come derivanti dal desiderio del vecchio morente di trascinare tutti con sé nella morte. La fontana non dà più acqua, la bambina si ammala, appare un misterioso gatto apportatore di sventura, una ragazza disonora il padre concedendosi all'idiota del villaggio. Dopo l'incendio, che ha minacciato di disintegrare e cancellare la comunità, la crisi sacrificale tocca il suo punto finale: tutti decidono di uccidere il responsabile della rivolta della collina, emblema del caos che minaccia la sopravvivenza del gruppo. Viene scelto un esecutore dell'omicidio destinato a risolvere la situazione, ma prima che il gesto sacrificale si compia Janet muore nel suo letto. Che non sia stato ucciso da mano d'uomo non è rilevante per il senso della vicenda, l'importante è che vi sia stata l'unanime decisione di uccidere. E, miracolo, appena il vecchio è morto la fontana torna a dare acqua, tutto si rasserena, la collina non è più una minaccia. L'ultima scena del romanzo è quella dell'uccisione di un cinghiale e della spartizione delle sue carni tra i membri del gruppo.

 

I grandi cimiteri sotto la luna (1937), da cui traggo il sottostante passo nella traduzione di G.Spagnoletti, edizione Il Saggiatore del 1996, è un libro di denuncia della micidiale fusione tra fanatismo, idiozia, falsa coscienza che produce le grandi catastrofi della storia. Il cattolicissimo Georges Bernanos vi denuncia il comportamento dei franchisti e delle gerarchie ecclesiastiche colluse con esso. Alle pagine 32-35:

L'ira degli imbecilli riempie il mondo. Essa è meno temibile, senza dubbio, della loro pietà. L'atteggiamento più inoffensivo dell'imbecille di fronte al dolore o alla miseria è quello dell'indifferenza stupida. Guai a voi se, con la cassetta degli strumenti in spalla, egli rivolge le sue mani impacciate, le sue mani crudeli verso queste cerniere del mondo! Ma, appena finito di tastare, tira fuori ora dalla cassetta un paio di forbici enormi. Da uomo pratico, accetta facilmente l'idea che il dolore, come la povertà, non sia che un vuoto, una deficienza, insomma un nulla. Si sbalordisce di trovare in loro resistenza. Il povero, per esempio, non è dunque soltanto il cittadino che si differenzia dagli altri perché privo di conto in banca. Certo, esistono poveri di questa specie. Molto meno numerosi però di quel che uno non immagina, perché la vita economica del mondo è per l'appunto adulterata dalla presenza di poveri divenuti ricchi, i quali sono falsi ricchi e conservano in seno alla ricchezza i vizi della povertà. Inoltre quei poveri non erano veri poveri, senza dubbio, come ora non sono veri ricchi: sono una razza bastarda. Ma quale credito volete che accordi a tali sottigliezze il medesimo imbecille, la cui più cara illusione è che gli individui si distinguano tra loro, da popolo a popolo, solo in ragione del tiro malvagio per cui hanno imparato differenti lingue, e che attendono la riconciliazione universale dallo sviluppo delle istituzioni democratiche e dall'insegnamento dell'esperanto? In che modo fareste capire che esiste un popolo dei poveri e che la tradizione di quel popolo è la più antica di tutte le tradizioni del mondo? Un popolo di poveri, non meno irriducibile, certo, del popolo ebreo? Si può trattare con esso, non fonderlo con il resto. Sia quel che sia, bisognerà lasciargli le sue leggi, le sue usanze e quell'esperienza così originale della vita, contro la quale non potete far niente, voi altri. Un'esperienza che rassomiglia a quella dell'infanzia, insieme semplice e complicata, una goffa saggezza, pura quanto l'arte dei vecchi miniatori.

Insomma non si tratta di arricchire i poveri, perché l'oro di tutte le vostre miniere non basterebbe. Non riuscireste, d'altronde, che a moltiplicare i falsi ricchi. Nessuna forza al mondo arresterà l'oro nel suo perpetuo flusso, e raccoglierà in un sol lago i milioni di ruscelli da cui si sprigiona, più inafferrabile del mercurio, il vostro metallo fatato. Non si tratta di arricchire il povero, si tratta di onorarlo, o piuttosto di restituirgli l'onore. Né il forte né il debole possono evidentemente vivere privi di onore, ma il debole ha più bisogno d'ogni altro di onore. D'altra parte, questa massima non è per niente strana. E' pericoloso lasciare i deboli nell'avvilimento, la corruzione dei deboli è un veleno per i forti. Sin dove sarebbero rotolate le donne - le vostre donne - se di comune accordo, lungo il corso dei secoli, disponendo dei mezzi per asservirle corpo e anima, non aveste prudentemente deciso di rispettarle? Voi rispettate la donna o il fanciullo e non verrebbe in mente a nessuno di voi di considerare la loro debolezza come un infermità un po' vergognosa, appena confessabile. Se la violenza ha ceduto ai costumi, perché non si dovrebbe vedere vinto a sua volta l'ignobile prestigio del danaro? Sì, l'onore del danaro sarebbe poca cosa se non vi aggiungeste la vostra cauta complicità.

" Ma non è sempre stato lo stesso nel corso dei secoli? " Dite piuttosto che, se i capitalisti hanno spesso disposto dei vantaggi del potere, questo potere non è mai parso legittimo a nessuno, non c'è mai stata e non ci sarà mai una legittimità del danaro. Posto sotto inchiesta, esso si nasconde, si rintana, sparisce sotto terra. Anche oggi la sua situazione, rispetto alla società da esso controllata, non differisce molto da quella del famiglio che dorme con la padrona, vedova e matura. Egli ne riscuote i benefici, ma in pubblico chiama la sua amante " signora ", e le parla col berretto in mano. Alle regine di bellezza e alle dive del cinema si tributano trionfi; non riuscirete invece a immaginarvi un Rockefeller accolto alla Gare du Nord dagli applausi delle stesse ardenti persone che si accalcano attorno a Tino Rossi. Per queste ultime non conta dimostrare tanto calorosamente l'ammirazione e l'invidia verso il piccolo corso dalla voce d'ambra. Ma arrossirebbero di mostrare tale premura al signor Ford, fosse anche bello come Robert Taylor. Il danaro è signore, va bene. Tuttavia non ha un titolare che lo rappresenti, come una semplice potenza di terz'ordine non figura nei cortei in grande uniforme. Qui ci trovate il giudice in uniforme rossa e pelliccia di coniglio, il militare fregiato in modo ridicolo come uno svizzero da cattedrale, lo svizzero stesso che apre la strada al prelato in viola, il gendarme, il prefetto, l'accademico che gli rassomiglia, i deputati in abito nero. Non ci vedete il ricco, benché egli faccia le spese della festa e abbia i mezzi per mettersi molte più piume sul cappello. Charles Maurras ha trovato un giorno un'espressione colma di grandezza e dignità umana: " Ciò che mi sorprende non è il disordine, è l'ordine. " Dovremmo anche meravigliarci che in questo mondo, che pure gli appartiene, il danaro sembri sempre vergognarsi di sé. Roosevelt ricordava recentemente che un quarto della ricchezza americana si trova in mano a sessanta famiglie, le quali, del resto, per il gioco delle alleanze si riducono a una ventina. Alcuni di questi individui, senza alcun grado sulle maniche, dispongono di otto miliardi. Oh, lo so bene... I nostri giovani realisti francesi di destra sghignazzeranno: " Le duecento famiglie! ih, ih, ih! " Ebbene sì, caruccio. Non so se esista un paese reale, come vogliono farci credere i dottori che spargono la vostra semenza, ma esiste, sicuramente, un patrimonio reale della Francia. Questo patrimonio dovrebbe assicurare il nostro credito. Ora, voi sapete bene che non è così. Cinquanta miliardi divisi in pezzi da cinque franchi messi a dormire in fondo alle calze di lana sono assolutamente impotenti a bilanciare l'influenza di un solo miliardo mobilitabile, col quale vengono manovrati i cambi secondo i principi della guerra napoleonica. "Che importa il numero dei reggimenti che può opporvi il nemico, se voi vi dimostrate sempre più forti laddove esso è più debole?" E se gli scudi da cinque franchi sono di difficile mobilitazione, figuriamoci i campi e le foreste!

[4 marzo 2002]