DUE LIBRI, UNA PAGINA (98)

Letture di Fabio Brotto

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Credo che il fenomeno antropologicamente più significativo dei nostri anni sia l’emergere, all’interno del mondo islamico, del massacro suicida come forma di guerra santa. Si tratta di una novità assoluta, sulla quale si è ragionato finora molto poco e in modo superficiale. Probabilmente perché ci si rifiuta di vedere qualcosa che non si è in grado di sostenere.
La stragrande maggioranza degli intellettuali occidentali si preoccupa degli abusi americani nelle carceri speciali, ma rimane sostanzialmente indifferente alle esplosioni nei mercati di Baghdad o di Karachi. Questo per pavidità intellettuale, perché i “crimini” americani rientrano nelle nostre categorie, sono violazioni di codici che ci sono chiari e cui siamo abituati da sempre, mentre non conosciamo l’Islam e tanto meno la sua componente religiosa fondamentalista. Perciò non ci chiediamo neppure come possa accadere che nel mondo islamico la condanna di una pratica così abominevole sotto ogni profilo e in particolare in rapporto alla tradizione, quale è il massacro suicida, riceva condanne così deboli e parziali. Del resto, non ci chiediamo neppure come mai la proiezione del film di Benigni La vita è bella sia stata proibita in tutti i Paesi musulmani. La tendenza è sempre quella di farsi un’immagine del mondo comoda, in cui la nostra mente possa abitare tranquilla.

Nel libro curato da Robert Hamerton-Kelly Politics and Apocalypse (Michigan State University Press, 2007), nel saggio introduttivo dello stesso autore, trovo queste interessanti considerazioni girardiane sull’argomento.

L’effetto della predicazione del Vangelo nella cultura occidentale è stato quello di svelare il segreto della sopravvivenza della società mediante il rituale della vittima, e di mettere così in pericolo quella stessa sopravvivenza. Quanto meglio noi conosciamo l’inganno, tanto peggio esso funziona nel sostenere le strutture del sacro entro le quali in qualche modo noi ci proteggiamo dal disordine violento. Attualmente la globalizzazione sta erodendo le distinzioni culturali, l’auto-vittimizzazione sta diventando un’industria culturale e, cosa più significativa di tutte, la violenza sta cancellando anche la distinzione esistenziale tra la vita e la morte. Nel culto dei massacratori suicidi, il desiderio della distruzione di massa, che durante la Guerra Fredda veniva contenuto entro la struttura sacra della deterrenza, sta ora diffondendosi tra un numero crescente di soggetti minori. Il combattente suicida cancella le linee della deterrenza che mappano un mondo comune in cui ognuno può dare un valore alla propria vita. L’antagonista suicida non è soggetto alla deterrenza sulla base dei vecchi presupposti: la distinzione cruciale per il controllo culturale della violenza, quella tra i linciatori e le vittime (tra i vivi e i morti), sta infine essendo totalmente erosa, e ancora una volta la crisi sacrificale sta radunando i suoi mostri.
L’assassinio suicida è un sintomo avanzato del collasso del sistema della vittima sostitutiva ed è ora una componente della nostra cultura globale. L’inganno della vittima sacrificale funziona mediante l’uccisione di qualcun altro: l’assassinio suicida funziona uccidendo il soggetto stesso oltre a qualcun altro, e in questo modo cancella la distinzione tra vittima e uccisore e confonde quella che nella cultura è la distinzione principale, propriamente quella tra il sacro e il profano, tra la vittima morta da un lato e gli uccisori vivi dall’altro, la distinzione da cui emergono rito, mito e legge come generatori di ulteriori distinzioni e stabilizzatori di tutte le altre distinzioni culturali. I musulmani radicali probabilmente credono che le loro morti servano a far vivere gli altri del loro gruppo, e rafforzano questa credenza sottolineando le distinzioni tra chi è dentro e chi è fuori del gruppo, ma in realtà essi rompono il sistema delle distinzioni, che riposa sulla differenza tra vita e morte, e richiamano il mondo dei mostri, il mondo dei morti viventi e dei non-morti, e il demoniaco che vive tra le tombe.
Ironicamente, la violenza sacra dell’Islam jhadista, che crede di operare un rafforzamento del suo fondamento sacro, sta in realtà segando il ramo su cui la siede la religione. La violenza suicida non conferma più la distinzione fondativa ma piuttosto la cancella, e infligge colpi tremendi al sistema della violenza buona che si suppone controlli la violenza cattiva. La violenza che ignora la distinzione tra la vita e la morte potrebbe essere davvero fatale al meccanismo sacrificale, che come una vecchia automobile sta sfasciandosi su strade sassose. Forse l’inizio della fine apocalittica è sopra di noi, e una gigantesca crisi sacrificale sta esplodendo. (pp. 18 -19)

Tra i vari saggi di cui si compone Politics and Apocalypse, di cui ho già detto qualcosa, uno, The Straussian Moment, mi ha colpito per il suo autore. E’ Peter Thiel, grande capitalista tecnologico, creatore del sistema di pagamento Pay Pal e iniziatore di altre grandi imprese. E’ un saggio che mette a confronto il pensiero di Leo Strauss e di René Girard, e ne riporto un passaggio.

Le armi nucleari pongono un dilemma orribile, ma si può (a fatica) immaginare una condizione di immobilità in cui un pugno di stati rimangono bloccati in una guerra fredda. Ma cosa capiterà se la mimesi trascinerà altri a tentare di acquisire le medesime armi per il prestigio mimetico che esse conferiscono, così che la situazione tecnologica non sia mai statica, ma esprima invece una potente dinamica di accrescimento?

Potremmo definire il “progressista” come uno che non conosce nulla del passato e della sua storia di violenza, ed è ancora attaccato alla visione illuministica della naturale bontà del genere umano. E potremmo definire il “conservatore” come uno che non conosce nulla del futuro e del mondo globale che è destinato ad essere, e pertanto crede che lo stato nazionale o altre istituzioni radicate nella violenza sacra possano contenere una violenza umana illimitata. Il presente rischia una terribile sintesi dei punti ciechi di questo pensiero dottrinario, una sintesi di violenza e globalizzazione in cui sono aboliti tutti i confini della violenza, che siano geografici, professionali (per esempio i civili non combattenti), o demografici (per esempio i bambini). Agli estremi, perfino la distinzione tra violenza inflitta a se stessi e violenza inflitta agli altri sta dissolvendosi nel nuovo perturbante fenomeno dei massacratori suicidi. La parola che descrive meglio questa violenza sconfinata e apocalittica è “terrorismo”.
Invero, ci si potrebbe chiedere se per l’eccezionale generazione che per la prima volta ha appreso la verità della storia umana rimarrà possibile un qualche tipo di politica. E’ in questo contesto che si deve ricordare che originariamente la parola apocalisse significava svelamento. Per Girard, lo svelamento di questa terribile conoscenza apre una catastrofica faglia sotto la città dell’uomo. “E’ veramente la fine del mondo, l’apocalisse cristiana, l’abisso senza fondo della vittima indimenticabile”. (p. 212)

 

 

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Il narratore del romanzo Neve di Orhan Pamuk (Kar, 2002, trad. it. di M. Bertolini e Şemsa Gezgin, Einaudi 2004, riedito quest’anno) è un romanziere che si chiama Orhan e ripercorre la vicenda del suo amico poeta, Ka (pseudonimo, e neve in turco si dice kar, e la città in cui i fatti si svolgono si chiama Kars). Ka, già emigrato in Germania, dove mena stenta vita di esule, torna in Turchia per raggiungere questa città di confine, Kars, misera e depressa, e contesa tra le forze kemaliste laiche e il montante integralismo religioso.

I moventi di Ka non sono chiari nemmeno a lui: vuol conoscere, sembra addirittura cercare Dio, e l’amore della bella Ipek, ma in tutto è incerto, non riesce a decidere, sembra infine una ennesima variante del tipico protagonista intellettuale della narrativa occidentale dell’ultimo secolo: debole, privo di volontà, incapace di azione, umanamente immaturo. Ma qui il discorso è reso complesso dall’ambientazione culturale: una nazione dilaniata tra Oriente islamico tradizionale e Occidente tecnologico e irreligioso, che si rispecchia nel poeta Ka. Arriva a Kars, dove nevica al punto che la città resta isolata. In questa città isolata avviene un teatrale (in senso letterale, durante uno spettacolo teatrale) golpe anti-islamico. Ka viene coinvolto nelle trame, che vedono al centro l’affascinante terrorista Blu, e nello stesso tempo vive una storia d’amore con Ipek, che vuol persuadere a venire in Germania con lui. E mentre vive (drammaticamente) l’amore e partecipa alle trame, scrive poesie a getto continuo. Naturalmente, la storia non può finir bene, in alcun senso.

Questo libro di Pamuk è senza dubbio una meditazione sul difficile rapporto tra la poesia e la vita, ma è anche una storia di doppi. Infatti, Ka si innamora a priori di Ipek, che è stata la moglie di un suo amico (che all’inizio lo prega di ricordare alla ex-moglie il suo amore che ancora dura). Sviluppa poi un rapporto di odio-amore con Blu (che si scoprirà essere stato amante della stessa Ipek). Infine si costituisce come doppio del narratore in tutti i sensi: anche in quello erotico, perché anche il narratore si innamora di Ipek.

L’amore romanzesco ha due presupposti: la donna bella e il rivale. Questo può anche essere celato, ma qui è apertissimo, anzi è plurimo. La bellezza femminile è un motore fondamentale del romanzo, perché il romanzo è legato al disvelamento della dinamica del desiderio. Davanti ad una donna straorinariamente bella l’uomo è preso da disperazione (p. 369).

Sulla poesia trovo bellissimo questo passo:

Ka mi aveva già detto molto tempo prima che un bravo poeta deve soltanto girare intorno alle verità forti che trova giuste e a cui ha paura di credere, perché possono rovinare la sua poesia, e la musica segreta di questo volteggio diventa la sua arte. (p. 242)

Si può anche ragionare sulla proliferazione metastatica dei poeti: evidentemente il flagello colpisce anche la Turchia.

Quando era giovane, Ka prendeva in giro i poeti che, considerandosi troppo importanti, credevano che ogni assurdità da loro scritta sarebbe stata in futuro argomento di ricerca e perciò vivevano vantandosi e trasformandosi, già in vita, in un monumento che nessuno ammirava. (p. 406)

11 aprile 2008

 

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