DUE LIBRI, UNA PAGINA (93)

Letture di Fabio Brotto

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È un’anima semplice Mattis, il protagonista del romanzo di Tarjei Vesaas Gli uccelli (Fuglane, 1957, trad. it. di S. Epifani De Cesaris, Iperborea 2002). Un uomo che si avvicina alla quarantina, ma è rimasto bambino, una persona con ritardo mentale, incapace di qualsiasi lavoro, in difficoltà nelle relazioni sociali perché non è in grado di capire gli altri, che a loro volta stentano a capirlo. Vive in una casetta isolata dal villaggio, vicina ad un grande lago, con la sorella Hege che mantiene lui e se stessa facendo maglioni di lana. Ci sarebbero tutti i presupposti per la narrazione di un classico caso di capro espiatorio (fratello e sorella isolati, lui strano, due diversi - mettiamoci un sospetto di incesto, e la minestra solita sarebbe pronta). Qui non è così. Nessuno, nella comunità del villaggio, è cattivo col povero Mattis. È vero che viene chiamato l’Idiota (non lui presente), ma senza malevolenza. Cercano anche di dargli lavoro, e di essere amichevoli con lui, ma la sua povera mente non ce la fa. Anche il tardivo innamorato della sorella, che fa il boscaiolo, vorrebbe fare qualcosa per lui, metterlo in grado di provvedere a se stesso, ma il lavoro è oltre le possibilità di Mattis . Lui è uno che riesce a vedere cose che gli altri non vedono, come le scie luminose del volo notturno della beccaccia, con la quale crede di intraprendere una relazione significativa. I buchi fatti dal becco dell’uccello sul molle terreno e le tracce delle sue zampe diventano per lui una scrittura segreta, cui egli risponde con altri segni. Ma i segni che non sorgono da un rapporto sociale tra umani non hanno alcuna possibilità di acquisire un significato duraturo e scambiabile con altri umani. Per questo la fantasia poetica di  Mattis rimane improduttiva, non viene compresa dagli altri, rimane uno sterile idioletto. E questo per lui è una tragedia. Dunque questo romanzo non è una denuncia della meschinità dei normali nei confronti dei diversi, ma una melanconica riflessione sul destino degli umani, creature fragili, e spesso fragilissime, che sovente neppure la buona volontà e l’affetto dei propri simili riesce a salvare.

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La chiave di lettura dell’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, The Road (Vintage Books, New York 2006), ci è data alla fine. Nell’ultimo paragrafo. Poiché questo è un libro sulla bellezza del mondo, e la bellezza per McCarthy si dà solo nella perdita, si rivela solo nella contemplazione di ciò che non è più. Come i salmerini nelle acque cristalline.

Once there were brook trout in the streams in the mountains. You could see them standing in the amber current where the white edges of their fins wimpled softly in the flow. They smelled of moss in your hand. Polished and muscular and torsional. On their backs were vermiculate patterns that were maps of the world in its becoming. Maps and mazes. Of a thing which could not be put back. Not be made right again. In the deep glens where they lived all things were older than man and they hummed of mystery.

Quest’idea di bellezza-perdita, che è ben presente in tutta l’opera di McCarthy e soprattutto nella Border Trilogy, viene qui portata fino in fondo: perché la bellezza del mondo possa manifestarsi pienamente, occorre che il mondo intero sia perduto, e che essa non ci sia più. E qui il mondo è davvero perduto, perché della sua bellezza e dei suoi colori non rimane più nulla: un cataclisma immane (certamente non naturale) lo ha letteralmente ridotto in cenere. Vi è cenere dovunque. Tutto è coperto di cenere, e una spessa nube grigia copre anche il sole, rendendo freddo e inospitale il pianeta. Gli unici esseri viventi sembrano essere gli sparuti e degenerati gruppi di umani che sono sopravvissuti, ma che per nutrirsi hanno a disposizione solo i cibi in scatola che si possono ancora trovare qua e là, e le carni di altri umani. Il cannibalismo dilaga. Gli animali sono scomparsi, pesci compresi. Le piante e le erbe non hanno resistito all’assenza della luce del sole. C’è un crepuscolo perenne. Gli umani che si vedono sono gli ultimi umani.

In questo scenario post-apocalittico, l’odissea del padre e del figlio che percorrono un lungo estenuante itinerario per raggiungere la costa e il mare, un’odissea o meglio un’anabasi in cui si esprime una solidarietà totale, un legame forte come la morte, ha ricevuto l’attenzione dei commentatori, focalizzata sul rapporto affettivo e sul suo significato di messaggio. I commentatori hanno voluto vedere in questo legame una novità positiva per quel che riguarda la visione del mondo dello scrittore americano, che sarebbe stata fino a questo punto dura e spietata, e, per dirla tutta, alquanto machista. Invece, bisogna ricordare che nell’opera di McCarthy non sono mai mancate figure di tenerezza e di amore generoso e gratuito. Come alcune figure femminili, ad esempio nella Border Trilogy, come ho rilevato altrove, e la tragica madre de Il buio fuori. Ma soprattutto occorre tener presente che McCarthy non dice apertamente e non nasconde, ma accenna, o, per dirla più chiaramente alla greca, semainei.

Poiché questo, oltre ad essere un libro sulla bellezza del mondo, è anche un libro sul segno. Come lo era già, in particolare, Meridiano di sangue, incentrato sulla violenza e la sua significazione. L’umano è scambio di segni, il circuito di produzione e ricezione continua di segni che origina un contesto significativo e sensato, che si allarga dal piccolo gruppo all’universo intero. Dato che la nostra specie ha come principale caratteristica quella di rappresentare il maggior pericolo per se stessa, quando due individui si incontrano la prima cosa è comprendere se l’altro sia amichevole od ostile, se rappresenta una risorsa o un pericolo. E gli incontri (rari) che capitano al padre e al figlio sono molto pericolosi: l’umanità qui è riportata ad una condizione di homo homini lupus. La società si è dissolta. Il contesto-mondo è stato distrutto, e anche il piccolo gruppo è privato di un orizzonte di senso. Ciò che si mostra all’altro è sottratto ad ogni criterio di verità. Il segno fondamentale è quello che dice “sono armato e posso ucciderti”. Ma la pistola a sei colpi del padre rimane con un solo proiettile nel tamburo, e lui ne carica cinque finti, fabbricati da lui, per ingannare i possibili nemici. E una pistola spara-razzi di segnalazione luminosi, che il padre trova in un relitto, diviene un’arma di offesa. Non deve più segnalare (cioè emettere un segno di relazione) ma deve colpire e uccidere.

Poiché questo, oltre ad essere un libro sulla bellezza e sul segno, è un libro sull’incubo eterno degli umani: l’autodistruzione del gruppo, della società, dell’umanità intera a causa della violenza. Qui l’evento c’è stato. Quel che resta sono residui di umanità, che non potranno resistere a lungo in un mondo privo di ogni forma di vita animale e vegetale. Il dissolvimento dell’intera umanità trascina nell’insignificanza e nel nulla l’intero mondo. Qui anche è palpabile la differenza essenziale tra l’umano e l’animale, tra natura e cultura, tra sfera mondana e sfera trascendentale del segno, tra appetito e desiderio. Non vederla fa parte della follia essenziale del nostro tempo.

Poiché questo, oltre ad essere un libro sulla bellezza del mondo, sul segno e sulla dissoluzione violenta, è anche un libro sull’irriducibilità dell’uomo alla dimensione animale. E qui io scrivo come uno che ha sperimentato quello cui McCarthy si riferisce nell’ultimo paragrafo. Infatti, anch’io ho colto nei salmerini di fonte (brook trout) una delle espressioni supreme della bellezza del mondo. Li ho pescati nei torrenti alpini e li ho tenuti in mano contemplando la loro magnifica livrea (prefazio al sapore delle carni rosa-arancio accompagnate dal vino Sylvaner). Ma i segni sul dorso dei salmerini, “maps of the world in its becoming”, sono anche labirinti, luoghi in cui il senso si perde. E tuttavia l’essere umano, l’unico che attribuisce alle cose un significato, non può non avvertire il mistero delle cose più antiche di lui. La fine di tutto richiama l’inizio, la dissoluzione dell’ordine interpella la sua origine.

9 gennaio 2008

DUE LIBRI, UNA PAGINA

 

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