DUE LIBRI, UNA PAGINA (85)

Letture di Fabio Brotto

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Il signor figlio di Alessandro Zaccuri (Mondadori, Milano 2007) è un romanzo interessante e coraggioso. Ci vuole coraggio, infatti, nel mondo della narrativa italiana contemporanea, per affrontare temi alti. E scegliere Giacomo Leopardi come protagonista di una narrazione significa necessariamente porre dei temi alti, essere in un certo modo inattuale. Il Leopardi che sopravvive al colera di Napoli, e sotto mentite spoglie (il conte Rossi) si rifugia a Londra per condurvi una vita nascosta e invisibile, è un personaggio romanzesco riuscito, e bella è l'idea di una corrispondenza col padre sotto un altro falso nome. Si tratta di una corrispondenza in cui Giacomo, che si finge un erudito suo coetaneo (l'irlandese William Bishop), chiede a Monaldo testimonianze e informazioni circa la presenza degli Egizi in Italia in epoca preromana, e in particolare circa il culto della Grande Madre (Cibele). La Madre, il principio materno, è esattamente ciò che più gravemente è mancato nella vita di Giacomo, ma qui in Zaccuri il gioco letterario si fa anch'esso troppo erudito, complesso e intricato per avvincere veramente un lettore che non sia, per così dire, un alessandrino.

Meno riusciti i personaggi di contorno, che, con il continuo saltellare di breve scena in breve scena cui il romanzo degli ultimi decenni sembra condannato, sviluppano storie parallele che dovrebbero confluire, partendo da tempi differenti, in una sorta di punto di vista eterno. E in particolare non riuscita (e non necessaria) giudico la madre del grande compositore cattolico Olivier Messiaen. Zaccuri ha forse preteso troppo dalle proprie penne, e voluto sfidare in un troppo ardito volo cielo e terra, e anche il tempo. Ma sfidare il tempo nei romanzi è sommamente pericoloso. Come è pericolosissima, anche, la volontà di dire molto. Qui, infatti, oltre al rapporto tra Leopardi e i genitori ci sono quelli tra il poeta e i Rossetti, tra Rudyard Kipling e suo figlio e suo padre, della poetessa Cécile Sauvage col figlio Olivier Messiaen, due guerre mondiali e i campi di concentramento, il ventre di Londra e lo Zend-Avesta...

Ma, per tornare a Leopardi, diciamo che nel romanzo vive molti anni in un misero appartamento a Londra, tutto occupato in un'Opera, che è una sorta di Megazibaldone protoinformatico, il cui contenuto ci sfugge. Leopardi in quanto poeta, poi, è nullificato. Non scrive un verso. E ciò è inspiegato, ed è, a mio parere, un evento impossibile anche in una finzione letteraria. Il poeta-filosofo sembra un fantasma, un morto vivente, una pallida ombra di sé. Ma forse qui v'è, al di sotto delle parvenze, una coerenza profonda. Se per il Leopardi storico la poesia era la vita e la filosofia la morte, questo non-poeta operosissimo con foglietti coperti di scrittura e un congegno di spaghi che anticipa l'ipertesto, non può che essere ultramorto. Il suo vero mondo, infatti, un mondo in cui si muove con competenza e familiarità,  si vede essere il sottosuolo di Londra, sorta di inferi nei quali la modernità, che fa il suo ingresso con la metropolitana, non sembra portare la vita ma una nuova declinazione della morte.

 

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Mi viene in mente il vecchio Gysors de La condizione umana di Malraux leggendo i racconti di Francesco Pecoraro. Mi ricordo il passo in cui Gysors dice che per fare un uomo ci vogliono sessant'anni, e una volta raggiunti l'uomo è pronto per la morte. Dirò subito che è un libro che si legge volentieri, e in alcuni punti avvince il lettore. Dove credi di andare, prima prova narrativa del sessantenne Pecoraro (Mondadori, Milano 2007), è un libro di racconti che ha il carattere della serietà. Sono sette storie di sette uomini della classe medio-alta italiana postmillenniale, sette uomini tutti appartenenti ad una fascia d'età tanto influente nella realtà quanto poco presente nella narrativa.

I cinquanta-sessantenni di Pecoraro sono, in verità tutti uomini irrisolti. Giunti ad una età in cui nella società occidentale moderna si deve aver afferrato ciò che gli umani desiderano più di ogni altra cosa, il potere, e un saldo riconoscimento sociale, e possibilmente una certa presenza nei media, oppure non si è nessuno, essi compiono un ultimo sforzo di autodefinizione (nell'arte, nel lavoro, nel coraggio), uno sforzo che fallisce quasi totalmente. Non sono, però, né inetti nel senso della letteratura primonovecentesca, né dei falliti totali secondo la misura di tanta narrativa dell'ultimo secolo. E nemmeno dei saggi rinunciatari dediti all'oppio come il vecchio Gysors di Malraux. Sono persone, piuttosto, che possono in qualche senso ricordare il protagonista de La carriola di Pirandello, l'avvocato di successo che improvvisamente, per una sorta di illuminazione, avverte il non senso della vita che conduce. Gente che nella propria professione è riuscita abbastanza bene o anche molto bene, ma che percepisce il vuoto intorno a sé. Naturalmente, e qui siamo nell'ovvietà della narrativa di oggi, non ve n'è uno che viva in una famiglia solida. Il loro rapporto con le donne è in sostanza null'altro che un passato, in ogni caso non costituisce il problema immanente. Ma che vuoto percepiscono? Mi pare che né i personaggi né l'autore pensino o almeno si sforzino di pensare la natura e il carattere di questo vuoto. Questi racconti non hanno certo un intento di analisi sociologica della classe medio-alta italiana, e tuttavia non si può scorgere qui neppure un afflato metafisico. La crisi di senso è evidente, ma non è riportata ad una qualche causa. E  la realtà in più punti sembra diventare evanescente, sospesa tra improbabilità (il grande manager che si fa tatuare il volto a rischio di perdere la prestigiosa posizione che stava per conquistare) e allucinazione (la casa del professore universitario che durante una festa viene invasa da una folla di sconosciuti che la mettono a sacco). Appare chiaro che, se il tentativo di autodefinirsi viene fatto contro un vuoto, esso non può che fallire se il vuoto non è a sua volta preliminarmente definito. Ma questi uomini non sanno, sono non-sapienti, ovvero insipienti. Proprio per questo sono significativi. Sono espressione di un tipo umano diffuso, che chiunque può incontrare: in questa Italia che non sa dove andare la classe sociale e di età che dovrebbe rappresentare la spina dorsale di un paese moderno appare perduta tra i soldi e il nulla. Così che la domanda dove credi di andare non può che avere la risposta: non lo so.

 

12 luglio 2007

 

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