DUE LIBRI, UNA PAGINA (84)

Letture di Fabio Brotto

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Nell'attuale panorama letterario italiano sono pochi, pochissimi, i romanzi che richiedono, anzi che pretendono assolutamente una lettura lenta. Nella maggior parte di essi c'è poco da capire, da meditare, da scavare. Un libro che fa eccezione, quindi un libro eccezionale (di cui si parla poco, ovviamente) è I confini dell'ombra di Alessandro Spina (Morcelliana, Brescia 2006). È un megaromanzo (o ciclo di romanzi e racconti, o romanzo a più tomi) che l'autore ha costruito ordinando in un tutto alcuni romanzi e molti racconti scritti in un arco temporale che va dal 1954 al 1999, in modo tale che ne risulta uno sviluppo cronologico che si dipana dal 1911, anno della conquista italiana della Libia, ai primi anni Sessanta, all'inizio dell'era del petrolio. Dal canto mio, ho dedicato due mesi alla lettura di quest'opera, che considero in tutti i sensi monumentale. Per le sue proporzioni, per la grandezza e la sprezzatura dello stile, per la sua capacità di guardare nell'Altro e nel Medesimo, per la sovranità della scrittura, che si confronta solo con modelli alti, da Musil a Conrad a Thomas Mann. Leggendo questo libro, e pensando contemporaneamente agli editor che infestano le patrie lettere, l'uomo di senno è preso da un amaro riso incontenibile. Consiglio la lettura della postfazione, dello stesso Spina, a chiunque voglia farsi un'idea di cosa significhi un lavoro letterario serio.

La scrittura di Spina è molto teatrale. L'azione è scarna, i dialoghi e i pensieri molti e ricchi. Che l'azione si svolga in Italia o In Libia, il tema fondamentale è l'incontro con l'Altro, il conflitto e il proliferare dei doppi che ne consegue. Non c'è esotismo, né idealizzazione terzomondista del colonizzato. Lo sguardo di Spina è lucido, penetrante, e sotto quello sguardo emergono le spaventose contraddizioni dell'Italia e della Libia, così che alla fine si ha l'impressione di una relazione tra due grandi vuoti.

Ecco un passo che rimanda a Cuore di tenebra.

 

ROMANINO: Se l'ufficiale considera gli avversari automi che si muovono ingegnosamente e risibile il connettere a quei cosi concetti come diritto e responsabilità, coscienza e anima... il giuoco è piacevole: come a caccia, la strage passa leggera. Ma se ha l'imprudenza di connettere i due campi sotto un cielo solo, un'unica legge, le luci e le ombre si dispongono in modo così misterioso che persino uccidendo egli interroga - trema - e l'inquietudine lo può portare in qualunque direzione. È recisa la connessione con l'alto comando e con i camerati. In guerra, l'isolamento è fatale: i nemici diventano cavalieri soprannaturali, i camerati complici demoniaci, cessano le deformazioni consolatorie e il cuore di un ufficiale difficilmente regge la prova: un eroe può diventare un santo; se non ci riesce, la colpa lo schiaccia e il guerriero teme di essere un assassino. Le due scappatoie più facili diventano la crudeltà e il suicidio. Come c'è un area in cui si parla una lingua e fuori di essa la lingua è inservibile, così ce n'è una adesso per la morale liberale europea, che il Mediterraneo limita a sud. Raggiunta l'altra costa i comandamenti si leggono all'inverso: uccidere, rubare, nominare il nome di Dio invano, è prescritto... Vinta la guarnigione turca e occupati alcuni importanti punti sulla costa, abbiamo trovato dinanzi a noi un immenso paese oscuro nel quale abbiamo paura ad avventurarci. Perciò ci siamo chiusi nelle città, aspettando il giorno. E invece la notte si fa sempre più fonda, pericolosa e gremita di diavoli. (pp. 33 - 34)

 

Leggendo questo libro, non si può fare a meno di chiedersi quale sia oggi il rapporto tra la coscienza degli Italiani e i popoli che il colonialismo italiano ha conquistato e oppresso. La risposta è semplice, la coscienza italiana è assolutamente vuota, la relazione è nulla. Nessun senso di colpa, gli Italiani preferiscono ricordare le sofferenze patite, dimenticare quelle fatte patire ad altri. In questo senso è esemplare il dialogo tra il libico Ezzeddin e la sua amante italiana, alle pagine 802 – 803, un dialogo in cui dopo la visione di un film sulla Resistenza italiana, l'arabo dice:

 

« In questi film bugiardi gli eroi hanno difficoltà, passano prove leggendarie, ma non hanno colpe... – come se il loro passato fosse già dalla parte giusta. Testimone oltremarino, sono esterrefatto da questa manipolazione del mio passato».

 

E poi:

 

« Il passaggio dal fascismo alla resistenza raccontato come scelta eroica e consapevole; nessuno fa cenno al ruolo della sconfitta: legittimo pensare che abbia aperto i cuori, ma come tacere che la svolta era imposta dalle circostanze e che l'eroismo si accompagnava a una scaltra scelta mondana? I giusti, all'alba della resistenza, erano già i vincitori; il rovesciamento delle alleanze, così improvviso e corale, venne in mente persino al re».

 

Se è infine vero quello che scrive Spina nella postfazione, ovvero che "ogni romanzo rappresenta una metamorfosi, non comunica una formula", allora bisogna pensare che solo un grande romanzo può liberarti dalle formule e trascinarti nella metamorfosi che rappresenta.

 

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È bello seguire lo sguardo acuto di Ernst Jünger: anche quando non si è d'accordo con le sue affermazioni, il loro stile, la loro particolare coloritura le rende interessanti e godibili. Anche Al muro del tempo (An der Zeitmauer 1981, trad. it. di A. La Rocca e A. Grieco, Adelphi, Milano 1980) ci rende lettori felici. Anche in quest'opera l'argomentare di Jünger mi ricorda una piovra dai molti tentacoli pieni di ventose. In molti passi si tocca il tema del sacrificio. Ad esempio:

 

In ogni caso, mai sulla terra è avvenuta una trasformazione che non abbia richiesto spargimento di sangue. Non sappiamo se, e in quale senso, vengano compiuti sacrifici di sicura efficacia. Di un fatto, però, non possiamo dubitare: si esige sangue. Che tutto ciò possa non avere il senso attribuitogli da quanti il sangue lo spargono, non solo è verosimile, ma è al tempo stesso l'unico pensiero in grado di promettere redenzione, riconciliazione.

Non vediamo sacrificio alcuno, ma paghiamo un tributo. (p. 94)

 

 

Magnifiche le pagine dedicate alla caccia, di cui Jünger mostra di aver colto il senso più profondo. Essa è oggi "il ricordo di epoche in cui ognuno era re e cacciatore" (p. 110).

 

Si può d'altro canto rammentare che vi sono state epoche in cui l'economia, intesa in senso moderno, non ha svolto ruolo alcuno. Si pensi all'apogeo delle civiltà dei cacciatori, di cui rimangono tracce nel nostro modo di vedere. Erano epoche, quelle, in cui gli uomini seguivano, a piccoli gruppi, le peste di masse imponenti d'animali, muovendosi fra di esse come nel «turbine della selvaggina» di hölderliniana memoria, e considerandole come mandrie di loro proprietà. Così il Pellerossa seguiva il bisonte e il nomade asiatico la renna semiselvaggia.

Non conta, invece, il fatto che le loro armi, paragonate alle nostre, fossero primitive. Allo scopo di uccidere la selvaggina, di gran lunga meno diffidente, erano del tutto adeguate. A quel tempo l'arco centrava a grande distanza. D'altra parte, a che cosa servono mai i migliori fucili se non si incontra più selvaggina? Fra le due cose esiste un nesso. Nel corso della storia umana l'importanza delle armi da caccia è costantemente diminuita rispetto a quella delle armi da guerra. Sempre più inequivocabilmente l'uomo si trasforma in selvaggina, il bottino di caccia in bottino di guerra. Una delle fonti principali della nostra paura, la paura della guerra, a quell'epoca, quindi, non esisteva ancora, o esisteva soltanto in misura assai ridotta.

 

La vita intatta nelle terre delle origini non conosceva né paura né economia. Ancora cent'anni fa l'uomo europeo spingendosi nelle terre vergini, poteva percepire un riflesso di quell'abbondanza e dell'agio che l'accompagnava. Questo ci dicono molti racconti, come le Avventure di caccia e di viaggio in America di Armand, un libro a suo tempo assai letto e oggi caduto nell'oblio. In esso si constata inoltre come da subito fosse iniziato lo sterminio non solo degli animali ma anche degli uomini. Armand rileva altresì come la salute stessa andasse scemando. Malattie in precedenza sconosciute fecero seguito all'introduzione dell'aratro - quasi spuntassero dalla terra, sostiene l'autore.

Anche l'idea che la vita allora fosse più faticosa, più faticosa perfino della nostra, non è altro che un pregiudizio. L'attività venatoria nei vasti territori di caccia era il piacere libero di un uomo libero, quale in seguito nobiltà e principi riservarono a se stessi, e il sommo desiderio era quello di essere, al pari di Orione - il prediletto di Eos - cacciatori in eterno. Il cacciatore è l'unico essere che, anche dopo la morte, voglia continuare a condurre, nei pascoli celesti, la vita condotta in precedenza. In nessun'altra epoca ciò accade. (pp. 141 – 143)

 

Il piacere libero di un uomo libero, di un uomo-re. Questa è l'essenza della caccia.

 

 

29 giugno 2007

 

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