DUE LIBRI, UNA PAGINA (82)

Letture di Fabio Brotto

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La prima cosa che mi viene in mente dopo aver letto il romanzo di Elisabetta Liguori Il correttore (peQuod, Ancona 2007)  è una domanda: perché il protagonista, il magistrato che ricorda la sua prima indagine, non è una donna?  Certo l'autrice avrà avuto le sue ragioni, avrà voluto mantenere una distanza, limitare il rischio dell'identificazione, tuttavia una donna sarebbe stata più interessante, per me. Mi sembra infatti un buon campo d'indagine quello delle differenti o analoghe reazioni nei due generi di fronte alla violenza.


Il romanzo è costruito molto bene, direi, con professionalità per quanto riguarda il taglio delle scene, e anche per il linguaggio con cui l'io narrante ricorda a se stesso un passato non passato. Mi pare un romanzo essenzialmente novecentesco, nel senso che ad una pochezza di azione del soggetto corrisponde una grande quantità di parole, in cui il soggetto stesso si avvolge nel suo sforzo di ricordare (correggendo con memoria volontaria), e che nella sostanza hanno la funzione di giustificarlo e di obnubilare il suo risentimento (per esempio verso il padre). Mi viene in mente quello che per me è stato uno dei testi critici fondamentali per la comprensione della letteratura contemporanea, cioè Il fallimento della parola di Richard Weisberg, in cui si mette in luce la frattura tra parola e azione nel soggetto, che contraddistingue tutta la letteratura alta degli ultimi due secoli. Il correttore infatti parla e parla, ma il suo correggere resta un fatto verbale-coscienziale (cui il lettore non sa mai quanta realtà corrisponda), che non produce alcuna azione significativa. A questa improduttività, ben significata dal suo decennale inclinare verso un modo di fare la giustizia meramente impiegatizio - burocratico, corrisponde sul piano privato un matrimonio senza scosse esterne ma anch'esso inclinante ad una routine improduttiva (e ovviamente senza figli). Questa corrispondenza mi sembra uno degli elementi più belli di questo libro. In cui, tra l'altro, si respira a pieni polmoni l'aria asfissiante di una piccola Italia che sprofonda nell'inedia, incapace di afferrare i lati buoni della modernità. E l'altra relazione, che si affianca a quella con la moglie, cioè il rapporto maestro-allievo col procuratore, anch'essa tende all'appiattimento, e invece di generare un positivo conflitto, si adagia nel quieto vivere: estremamente significativa di un modo di vivere pusillanime-italiota oggi onnipervasivo, di cui ciascuno può fare esperienza. Alla fine, tutto si quieta e si sopisce (ah, quel padre provinciale manzoniano!), le inchieste si addormentano, i conflitti debbono rimanere latenti. Ecco: Il correttore è il romanzo della latenza: non un giallo inutile, come reca il sottotitolo, ma un'autentica rappresentazione dell'Italia di oggi.

Esemplari queste righe:

 

Lessi anch'io il primo verbale, come mi chiese di fare il capo. Non volevo sembrare invadente, ma me lo chiese il capo e io lessi ogni parola con scrupolo. Verbali come quelli, sono sempre il frutto della collaborazione tra il chierichetto e il parroco. Mi spiego meglio: è il parroco, cioè il magistrato, che detta le regole per la stesura dei verbali, perché la verità ha la sua sintassi, proprio come ogni credo. Il chierichetto, cioè i carabinieri o chi per loro, devono celebrare il rito nelle sue giuste forme, collaborare, portare il calice e suonare il campanello. Se un elemento, un evento, un dettaglio, uno sguardo significativo, un inciampo, una titubanza, non viene adeguatamente incartata nel verbale, non entrerà mai nel processo. Sarà una verità che non esiste. Un'occasione sprecata. Il chierichetto è importante quanto il parroco, anche se il vestito è diverso. (p. 22)

 

 

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Libro affascinante e terribile, La conquista del Messico di Bernal Díaz del Castillo (Historia verdadera de la conquista de la Nueva España, 1568, trad. it. di E. de Zuani, TEA, Milano 2002) è la relazione di un soldato di Cortés, che da vecchio descrisse gli eventi cui aveva partecipato dal 1517 al 1521, tutte le fasi e le peripezie della conquista del Messico, dell'abbattimento del potere azteco e della distruzione di Tenochtitlan. Eventi inimmaginabili oggi come allora, e capitali per la storia del mondo. Nessun romanzo d'avventure può stargli alla pari, anche perché ciò che appare favoloso è invece realissimo. E, nonostante l'evidente semplicità dell'uomo scrittore, e proprio per questa, il lettore rimane smarrito di fronte alla smisurata audacia di pochi avventurieri valorosissimi e avidissimi, e alla potenza del fato. E si commuove per il destino dell'infelice Montezuma, che pur aveva fatto massacrare innumerevoli persone, e molte volte aveva assaporato la carne umana.

 

Partimmo l'indomani mattina da Iztapalapa. L'argine su cui correva la strada era largo otto passi, e tracciava una linea assolutamente retta tra Iztapalapa e Messico. Benché così largo, non riusciva a tenere tutta la gente che andava e veniva da Messico e quelli che erano venuti apposta per vederci; tra tanta folla ci era difficile aprirci un varco. Le torri e i cues erano gremiti di gente, e da tutte le parti del lago accorrevano canoe. Nessuno aveva mai visto cavalli, né uomini come noi.

Noi eravamo ammutoliti tutti, per lo spettacolo che avevamo davanti, e non credevamo ai nostri occhi: grandi città sorgevano sulla terra, e più grandi ancora sul lago. Il lago stesso formicolava di canoe. Ponti e ponti interrompevano l'argine; davanti a noi la grande città di Messico. E noi, meno di quattrocento uomini, pensavamo alle parole della gente di Guaxocingo, di Tlaxcala, di Tamanalco, e agli avvertimenti che avevamo ricevuto. Consideri il lettore se il mio racconto non sia degno di riflessioni: quali uomini al mondo hanno mai mostrato tanto ardire?  (p. 157)

 

Ci sono pagine che direi abbacinanti.

 

Il giorno appresso ci mettemmo per una strada molto ampia su un argine che conduceva a Iztapalapa, e passavamo di meraviglia in meraviglia vedendo tanti paesi e città, alcune costruite sull'acqua e altre in terraferma, e quel grande argine che portava a Messico, così dritto e piano. Vaste città, edifici, e templi smisurati sorgevano dall'acqua, tutti fatti di pietra, come negli incantesimi della storia di Amadigi. I soldati si domandavano se quello non fosse tutto un sogno. Non sorprenda che io scriva in questo tono: tutto era così meraviglioso che mi mancano le parole per descrivere questa prima visione di cose che non avremmo potuto figurarci neanche in sogno.

Anche i cacicchi di Iztapalapa ci vennero incontro, ci ossequiarono con grande deferenza e ci ospitarono in sontuosi palazzi. Non ne avevamo mai visti d'uguali, costruiti di magnifica pietra, di cedro e di altri legni odorosi, con grandi sale e cortili, tutti ricoperti di belle tende di cotone per il sole: una scena stupenda a vedersi.

Visitato tutto questo, fummo introdotti in un giardino con frutteto, un sito stupendo. Non mi stancavo di ammirare gli alberi diversi, odorare i loro mille profumi, osservare i sentieri persi fra i roseti e gli alberi da frutto locali. Il giardino aveva anche un ingresso sul lago, attraverso cui potevano entrare grandi canoe. Sulla calce bianca e risplendente dei muri intorno risaltavano decorazioni di pietra lavorata, e dipinti, meravigliosi a vedersi. C'erano uccelli di varie specie e varietà, che volavano intorno a un laghetto d'acqua dolce. Ripeto che stetti a lungo in ammirazione, convinto che non si sarebbe mai più scoperta una terra più bella (allora il Perù non si conosceva ancora). E dire che di tutto questo non resta ormai pietra su pietra: tutto è andato distrutto, tutto perduto. (p. 156)

 

La bellezza nasce dal sacrificio, sempre. Nel caso degli Aztechi questo è particolarmente evidente. Ma ogni bellezza fondata sulla violenza, cioè quasi ogni bellezza umana, è caduca. E di essa non rimarrà pietra su pietra.

 

25 marzo 2007

 

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