DUE LIBRI, UNA PAGINA (76)

Letture di Fabio Brotto

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Thor Vilhjálmsson, Cantilena mattutina nell’erba ( Morgunþula í stráum, 1998, Trad. it di P. Turchi, Iperborea, Milano 2002). Thor Vilhjálmsson si ispira alla Sturlunga saga per questo romanzo, che ha come protagonista un islandese medievale che vive alla ricerca del senso della vita e del potere in un mondo estremamente violento (ma con qualche parvenza di democrazia, quella nordica dell’Althing, a testimonianza del fatto che democrazia e pace sono due cose ben distinte). Sturla, l’eroe di questa narrazione, vive nella brama del potere, cui non rinuncia pur provandone tormento. Come sempre in Vilhjálmsson la prosa è lirica e potente. Forse però non è del tutto corretto dire che l’autore si ispiri al mondo della saga. Egli la rivive. Ne esce qualcosa di piuttosto differente dal tipico romanzo ambientato nel passato—in cui solitamente lo scrittore dà prova di conoscenze archeologiche e gusto antiquario, oppure rifà l’antico sulla forma dell’uomo moderno. Sturla non è per niente un personaggio accattivante, ma è duro e, in un certo senso, antipatico. Si legga il seguente passo, dove vediamo uno Sturla quasi-Macbeth nordico.

 

Era come se un silenzio mortale incom­besse su di lui. Non sapeva né il tempo stabilito né quale sarebbe stata la posta in gioco. Nessuno sareb­be sfuggito al giudizio supremo, quando a ciascuno sarà assegnato un posto nel fuoco o nella beatitudine eterna. La resa dei conti.

E la coscienza, lucidamente, si chiede:Com'è ac­caduto tutto quanto?’ E allora, nella sua piccola cella spoglia, si domanda se tutto quel viaggio non fosse che una penitenza per essere purificato dai peccati commessi. Non si doveva essere troppo sicuri che tutto sarebbe stato cancellato in un istante, che potes­se riempire il sacco dei suoi misfatti all’infinito per poi gettarlo in un burrone. La resa dei conti. Uomini che aveva fatto uccidere. Dirigendo tutto da lontano. Alza lo sguardo sulla parete bianca, senza rendersene conto aveva sollevato la mano, e ora la vede là dove il soffit­to bianco incontra il muro bianco, turbato da quel che vedeva dentro di sé, non sulla parete.

Il giovane capo era seduto sul recinto di pietra. Sturla non partecipava personalmente, ma faceva ai suoi uomini un segno col dito. Lasciando che il boia avanzasse e abbattesse la sua ascia sul giovinetto tanto da staccargli quasi il piede. E non poteva evitare di rivedere ancora tutto davanti ai suoi occhi: l’uomo che cadeva col piede tagliato sotto di sé e che rimaneva accanto al recinto, finché Sturla non l’aveva fatto de­capitare come gli altri. E ne aveva riso. Si sentì ridere alle implorazioni di clemenza che gli rivolgevano i suoi uomini più pietosi. E incitare i più malvagi.

Quando tese la mano alla candela diventata un moccolo e la cera ondeggiò nella ciotola, era come se si aspettasse che fosse tutta insanguinata e che gron­dasse del sangue di altri uomini sulla cera sciolta.

Si stese sul suo giaciglio, mentre la fiamma consu­mava il mozzicone di candela e affogava nella pozza di cera nella ciotola. E fu buio. (p. 158)

 

Ma, giunti alla fine della lettura, il romanzo lascia perplessi circa il suo stesso senso.

 

 

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Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza di Ernst Jünger (Annäherungen. Drogen und Rausch, 1970, trad. it. di C. Sandrin e U. Ugazio, Guanda, Parma 2006) è un libro sull’ampiamento della coscienza ed il superamento della condizione normale, nel senso dell’eccitazione e/o dello stordimento, che lo stesso autore in vari momenti della sua vita ha voluto sperimentare. In realtà, si tratta di una ricerca antropologica, entro la quale mi sembra che si possano cogliere, più che in altri testi, il fondamentale paganesimo jungeriano e i suoi legami essenziali con la visione romantico-tedesca della Natura e della Totalità. Si veda questo passo sul suolo e la notte.

 

È singolare che vi sia più vita sottoterra che alla luce del giorno, vita più delicata, più fine. Tutti questi germi, fibre, miceli, uova, nematodi appaiono solo quando un colpo di vanga li porta alla luce, che rapidamente li distrugge. Eppure è la radice ad alimentare il fogliame, il mito ad alimentare la storia, il poeta ad alimentare il pensatore, il sogno ad alimentare i nostri giorni e le nostre opere.

“La notte è fonda, più fonda di quanto pensi il giorno. “Più luce”—queste parole contengono anche un riferimento segreto all’oscurità. Chiunque sia la donna con cui dividiamo il letto, in lei vogliamo tornare alla madre. A lei, non ad Afrodite, appartiene l’altare su cui celebriamo il sacrificio. Afrodite dà solo la forma, come tutti gli dèi danno la forma. C’è chi la prende troppo sul serio, e chi la sottovaluta. Su questo si concentra ogni disputa degna di questo nome. (p. 190)

 

Che l’umano abbia origine dalla caccia è una mia profonda convinzione. Per questo la connessione originaria tra caccia e poesia, che qui viene individuata, mi risulta particolarmente suggestiva.

 

Ancora a questo proposito, dice Raffaello: « Comprendere si­gnifica farsi uguale ». Si può qui includere l’animale; i vecchi cacciatori l’hanno sempre saputo. Questo vale tanto per le forme cruente della caccia, quanto per quelle più elevate, dove il possesso ­cercato è spirituale e definitivo. Anche in questo le religioni dell’Estremo Oriente si distinguono da quelle del Vicino Oriente. Molte epoche, anche le più antiche, sono state più vicine all’ani­male della nostra; l’hanno compreso più profondamente, nono­stante tutta la raffinatezza della moderna zoologia. E mai gli ani­mali hanno subito trattamenti più infami di quelli odierni. Anche il poeta conosce il mistero della caccia superiore. Come il cacciatore arcaico evocava l’animale con la danza e le maschere, il poeta lo evoca con la parola, che non si limita a impressioni di movimento e a macchie di colore. Che tra fratelli non ci si debba lodare, non significa che io debba tenere nascosto che a mio fratello Friedrich Georg quest’evocazione sia riuscita, con il pavo­ne, la civetta, il serpente, la lepre e altri animali. Risaliamo qui a tempi remoti, anteriori al mito—ai tempi della metamorfosi di cui è capace la Grande Madre. Le sue vesti seguono ­tante fogge, tante pieghe, eppure sono fatte di una sola stoffa. Quest’unità diventa visibile nella fiaba; sono i poeti a ricordarcela, in generale gli artisti. Più importante di quel che ci fanno udire vedere è quel che ci fanno dimenticare. Se solo riescono in questo loro intento, tutto il resto rimane sullo sfondo: il partico­lare, il controverso, l’oggetto—il tempo con le sue sfumature. (p. 97)

 

26 settembre 2006

 

DUE LIBRI, UNA PAGINA

 

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