DUE LIBRI, UNA PAGINA (66)

Letture di Fabio Brotto

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Un romanzo le cui proporzioni non corrispondono al valore è senz'altro Caos calmo di Sandro Veronesi (Bompiani, Milano 2005). Quattrocento  pagine lungo le quali si dipana una non-storia, per i personaggi della quale è impossibile alcuna forma di simpatia o di avversione, e che non convincono assolutamente. L'unico  interesse potrebbe essere documentario. Il romanzo documenta in effetti una condizione in cui versa la maggioranza degli scrittori italiani di oggi. Non hanno nulla da raccontare, ma raccontano lo stesso.

Gli eventi sono quasi nulli, ci sono un sacco di inutili conversazioni. All'inizio l'unico fatto: il protagonista (il solito io narrante della narrativa italiana contemporanea) in vacanza al mare salva una donna che rischia di affogare, e di far affogare anche lui il salvatore, la porta a riva a colpi di reni sul di lei posteriore, col risultato di una terribile erezione (!), sulla quale l'autore insiste molto, e che già possiamo intuire sarà replicata eodem more in un successivo fugace e brutale rapporto sessuale con la stessa salvata. Tornato a casa, il protagonista scopre che la sua compagna, con cui vive da molti anni e che sta per sposare, è morta improvvisamente per un aneurisma. Torna quindi in città con la figlia. È settembre, la bambina inizia la scuola e lui, manager, ogni mattina rimane nella sua automobile per tutto il tempo che la bimba sta a scuola, parcheggiato vicino, sì da poterla scorgere ogni tanto alla finestra. Lì lo vanno a visitare colleghi e super-manager, il fratello stilista, la cognata bellissima regolarmente messa incinta e poi lasciata da ogni uomo con cui ha una relazione (ma dove è andato Veronesi a pescare una situazione così bislacca, una ragazza bellissima e intelligente che si fa mettere incinta per tre volte da tre uomini diversi che la mollano subito, e si tiene i tre bambini!) ecc. Lavoricchia stando in macchina. E si meraviglia di non provare alcun dolore per la morte della donna amata.  Si aspetta che il dolore arrivi, e quello non arriva mai. La domanda più radicale che si pone è a pagina 333: “Perché continuo ad arraparmi invece di soffrire?” Qui c’è l’essenza di questo romanzo, la sua cifra stilistica, la sua profondità. Che razza di personaggio! Anche il lettore si aspetta che la storia decolli, ma rimane impantanata. Considerazione finale: la bambina risulta più matura del padre quarantatreenne. Non accade quasi nulla. E lo scavo nell'interiorità del personaggio non c'è proprio. Non c'è alcuna interiorità. Invero, il caos calmo del titolo, che mi aveva attirato all'acquisto e alla lettura, e che nell'intento dell'autore è quello dell'infanzia e di ciò che le ruota intorno, ma poi dovrebbe estendersi ad una comprensione della cifra fondamentale della nostra epoca, non rimane in realtà solo una faccenda interna al libro stesso. Coinvolge purtroppo anche il lettore. Questi resta in effetti calmo, calmissimo, nel senso che il libro non lo commuove, né semplicemente lo muove. Non che la storia sia in sé caotica, no, procede lineare, senza librarsi mai. E lo stile… grigio. Non una frase che venga voglia di sottolineare, non un'espressione che faccia godere. Nulla da citare. Una marea di parole, un caos calmo e placido. L'autore dichiara di aver lavorato quattro anni e mezzo, e ringrazia una valanga di persone (quaranta, o giù di lì). Questa mania dei ringraziamenti in chiusa dei romanzi. Se sapessi scrivere un romanzo, e me lo pubblicassero, farei stampare qualcosa come: questo libro l'ho scritto io, e non ringrazio nessuno.

 

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Ciò che largamente manca nelle opere degli scrittori italiani di oggi (con poche eccezioni), il senso di una calda umanità—di una cura non melensa si potrebbe dire—unito ad una vera capacità di pensare il mondo, lo troviamo copioso nel variegato libro di Antonio Moresco Scritti di viaggio, di combattimento e di sogno (Fanucci Editore, Roma 2005). L’anima di scrittore di Moresco si è forgiata nel fuoco dell’amore per il mondo, e qui dimostra una straordinaria capacità di vedere le cose, gli umani, gli ambienti (bellissimo il racconto dell’esperienza con le suore di clausura), nelle loro estreme differenze: dalla Patagonia all’Appennino questo scrittore, che va in giro vestito miseramente e si accontenta di poveri hotelitos, sa cogliere le molte dimensioni della vita e le vie talora estreme e senza sbocchi che gli umani percorrono (come nelle descrizioni della Russia e soprattutto dell’Argentina). Lo sguardo è totalmente disincantato, ed esige il continuo trapasso dalle forme dell’argomentazione a quelle della rappresentazione.

 

Tutta la massa di illusioni e utopie politiche, artisti­che, scientifiche e spirituali che si sono generate nella co­siddetta modernità sembrano arrivate al capolinea, sono finite nel vicolo cieco postmoderno della ideologia—camuffata da antideologia terminale—della comunicazione generale nel­l’universo reticolare imploso e del labirinto, con la sua fal­sa immobilità generata per rovesciamento dal falso movi­mento della modernità. Che maschera, dietro la demagogia sull’apertura a 360°, la realtà di una crescente chiusura di ogni spazio, tragica in termini umani, politici, geopolitici e persino di prospettiva di specie. Come l’ideologia di ogni altra struttura di potenza che l’ha preceduta, anche quella attualmente dominante ama autodescrivere il proprio domi­nio come quadro ultimo, insuperabile, elabora proprie i­deologie (fine della storia, orizzontalità economica, inter­scambiabilità, superfici come unica dimensione possibile e altre descrizioni della vita e del mondo che—introiettate—sono funzionali al controllo delle vaste masse umane alle­vate di questa epoca). Per esorcizzare il fatto che, come ogni altra che l’ha preceduta, anche questa sarà a sua volta macinata nel frantoio della vita e del tempo, quando la per­sona malata si girerà dall’altra parte nel suo scomodo let­to. Fino a che tutto questo verrà oltrepassato da altre for­me e strutture di dominio con i soliti terribili e prolungati schianti attraverso i quali è crollato ogni altro impero, il tutto drammatizzato oggi dall’enorme numero di individui umani che popolano il pianeta e dalla devastante potenza distruttiva di cui sono adesso in possesso. (p. 27)

 

Moresco vede incombere ovunque l’apocalisse che il trionfo delle pulsioni irrazionali prepara, e coglie i suoi segnali con una forza visionaria che attualmente non trovo in alcun altro scrittore del mio Paese. In Patagonia visita un luogo coperto di alberi, gran parte dei quali sono morti da moltissimi anni, e i morti e i viventi sembrano coesistere in un’atmosfera inquietante. Moresco cita il diario di Darwin, che in quelle terre era passato in altri tempi.

Altri alberi, sebbene ancora eretti, erano decomposti fino al centro e prossimi a cadere. La massa aggrovigliata delle piante vive e di quelle cadute mi ricordava le foreste dei Tropici, ma vi era una differenza,  perché in queste silenziose solitudini la morte invece della vita costituisce il carattere predominante. Tutto il folto della foresta subantartica, per chilometri e chilometri, è un cimitero spettrale di alberi morti in mezzo a quelli vivi, bianchi, lividi, nudi, scortecciati, che emergono dalla terra, dall’acqua, una foresta pietrificata in mezzo a un’altra foresta viva. Come se, nella vita umana, i morti restassero presenti tra i vivi e ci fosse, in mezzo al fiume di carne cerebrata ancora vivente, anche una gran quantità di carne morta fissata nel gesto fi­nale di carpire un po’ d’aria col foro della bocca allargata, tutt’intorno a noi, nelle strade, sulle auto, sui treni, in mezzo agli altri viaggiatori, ai caschi delle autostrade, sugli aerei in volo, tutti pieni di carne morta, asfissiata, nelle piazze, agli incroci, nei grandi magazzini, nelle librerie, colti nell’at­to di sfilare un libro da uno scaffale. Sempre più numerosi, più fitti, foreste di corpi morti in mezzo a quelli vivi lungo le banchine delle metropolitane, all’arrivo dei treni gremiti di corpi stecchiti con la mano ancora aggrappata alla sbarra, in fila alle casse dei supermercati, agli sportelli bancari. E fosse così da migliaia, milioni di anni. E si sedimentassero in mezzo ai vivi anche le antiche sagome di tutte le donne e di tutti gli uomini morti nel corso del tempo, delle orde dei guerrieri mongoli di Temucin in corsa sopra le steppe sui loro cavalli morti, e quelle di Alarico e di Genserico e degli arcieri mesopotamici con le loro lunghe barbe arricciate e le loro tiare, e quelle degli egizi e le orde di guerrieri nomadi dell’Africa e dell’Asia e del Fiume Giallo e dei califfati e dell’impero ottomano e anche quelli dei popoli passati sotto genocidio, tortura, crani inermi, rasati, oppure ricoperti di grandi copricapi notturni, cimieri, e altre orde di uomini in armi con alla testa i loro satrapi e condottieri deliranti, ubria­chi, e quelli morti nelle viscere della terra, dell’acqua, dell’aria, i nuovi eserciti tecnologici morti che portano la distru­zione dall’alto, fin nelle zone più lontane dell’atmosfera che ci protegge dalla voragine buia e fredda del cosmo attraver­sata da bagliori di luci morte, sulle grandi astronavi rallen­tate, le stazioni orbitali piene di carne morta che galleggia nello spazio pieno di corpi morti e di pianeti e di stelle av­volte nelle loro fiamme morte, mentre gli ergastolani morti continuano a sognare sulle loro cuccette e i leoni marini morti sui loro scogli freddi e i pinguini morti a nuotare nel­l’oceano freddo sognando il loro sogno di specie, e anch’io sono morto, sono nel fiume dei guerrieri morti che mi con­tengono, venuti dai lontani deserti arabi, mediorientali e afri­cani e spagnoli, cavalco anch’io in questo fiume di guerrieri semitici morti, eppure non sono ancora da nessuna parte, non ci sono ancora. (pp. 212 – 213 )

 

Se questa non è scrittura…

 

10 febbraio 2006

 

DUE LIBRI, UNA PAGINA

 

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