DUE LIBRI, UNA PAGINA (65)

Letture di Fabio Brotto

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Il romanzo Scirocco di Girolamo de Michele (Einaudi, Torino 2005) mi pare degno di nota per diverse ragioni. Intanto, si presenta come un noir (sub-genere sulla cui natura e funzione sto attualmente cercando di riflettere alla luce dell’antropologia generativa). Poi, è scritto chiaramente da un reduce del 77, che si sente e professa un compagno e vede nello Stato italiano—che gli appare dominato da oscure forze fasciste e consorterie—un nemico.  (E quelle di 77ino e compagno sono categorie da investigare soprattutto per quel che riguarda il concetto della violenza e della sua legittimità all’interno di un contesto di relazioni complesse—modi di vivere, pensare, rapportarsi agli altri, ecc.—che possiamo chiamare paradigma). Infine, si tratta di un romanzone di  circa seicento pagine, che presenta singolarità di struttura ed aspetti letterariamente paradossali, sui quali peraltro qui sorvolo.  I temi sarebbero dunque moltissimi, e questa ricchezza è un merito che va riconosciuto a De Michele. I personaggi principali del romanzo, i suoi eroi combattenti potremmo dire, con i quali il narratore simpatizza fortemente, e che rende simpatici al lettore, sono: un investigatore privato piuttosto scalcinato; un poliziotto suo amico (che è un ribelle coperto); un vecchio partigiano che conserva una cal. 38 della guerra e la usa, e sa dove trovare altre armi; una puttana d’alto bordo che conosce le arti marziali e in un’occasione se ne serve per uccidere; un hacker pirata e ladro genio dell’informatica; un giornalista gay; un barbone alcolizzato. I buoni di questo noir sono tutti, ciascuno a suo modo, irregolari e ribelli. I cattivi sono l’ordine costituito, le forze dello Stato, gli Americani (sullo sfondo ma non tanto). C’è senza dubbio una teoria del complotto all’opera nella costruzione della storia. L’uso privato (seppure da parte di un movimento) delle armi e della violenza, anche in forme piuttosto raccapriccianti, è legittimato dal fine della lotta al nemico fascista.  Ci dobbiamo qui chiedere se questo noir militante (problematicamente) sia conforme all’essenza del sub-genere, che noi abbiamo individuato in precedenti note, o se vi siano delle anomalie. Credo che la funzione del noir rimanga sempre la stessa anche se cambia il paradigma. Questo significa che la funzione permane identica, sia il noir scritto da un compagno o da un camerata:  rendere presente il rischio della dissoluzione della società, saranno solo diverse le forze individuate come responsabili della minaccia, che dunque finiranno per svolgere la funzione di capro espiatorio. Insomma, qui la società buona sarebbe quella che ha espulso i fascisti (intesi in senso lato). In un noir scritto da un fascista, le forze del dissolvimento sarebbero gli antagonisti, i comunisti, ecc. Ma se, come ritengo, il noir ha bisogno che il suo lettore non si identifichi con le forze del dissolvimento ma che esista un paradigma comune tra il libro e il lettore, nel senso che entrambi debbono fondarsi su un’idea di società ben ordinata, governata dal principio del bene comune generale, allora in una società come l’italiana, in cui i paradigmi sono sempre diversi e conflittuali, e il bene comune generale non è percepito come tale, non possono forse darsi che narrative noir di parte, senza possibilità di reciproca comunicazione. Anche in questo senso uno dei passi massimamente interessanti è un colloquio in carcere tra un ex terrorista rosso e un terrorista nero.

 

Milano, San Vittore, mensa carceraria, ore 19.45.

 

— Dici di no perché, per fare un esempio, tu di Helena Hamburg non hai mai sentito parlare, vero?

— No,  — risponde Cristiano, — è un nome che proprio non mi dice niente.

— Te la racconto io,  —dice Vittorio Guerra,  — così ve­drai che ci sono cose che voi compagni non sapete. Era una funzionaria dell’ambasciata argentina a Parigi. Tor­na a casa per le vacanze: all’aereoporto [sic] di Ezeiza un grup­po di uomini l’aspetta, la preleva e la uccide. Cose che po­tevano succedere, in Argentina. Però Helena era una bra­va ragazza, senza grilli per la testa: mai avuto niente a che fare con la izquierda argentina, tantomeno con la guerri­glia. È successo che a Parigi aveva avuto la sfortuna di ve­dere il generale Massera incontrare i capi montoneros. I montoneros per voi erano un mito, vero? Be’, io ti assi­curo che Mario Firmenich, il capo dei montoneros, era un uomo di Villareal, il capo dei Servizi argentini. E nel ‘78 era allo stadio a vedere le partite dell’Argentina. I mili­tanti dell’Erp sono stati trucidati perché erano incontrol­labili, più o meno come i vostri amici dei Nap: l’unico ter­rorismo rosso ammesso dallo Stato è quello gestito e di­retto dallo Stato.

— Sicuro che sia andata così? — chiede Cristiano.

— Sicuro, — risponde il soldato politico. — Vuoi un altro esempio? I primi manifesti filocinesi in Italia li abbiamo attaccati noi. Se ne occupò Avanguardia nazionale, per conto dell’ufficio Affari riservati: cioè del ministero dell’Interno. Il mondo è un grande teatro dei pupi, e noi sgambettiamo sul palco senza vedere né i fili né i pupari.

— Tu vedi troppi complotti, Vittorio. Non c’è niente che mi stupisca in quello che dici: ma non si riducono due generazioni a una battaglia tra marionette. Non sono quei manifesti ad aver fatto la Storia.

— Forse no: però sono serviti a indirizzarla dove vole­vano i signori che la Storia prima la manovrano, poi la scrivono e alla fine la glorificano.

 

E se, come pensa Eric Gans, la differenza fondamentale tra la cultura alta e quella popolare o di massa sta nel fatto che la cultura di massa  asseconda il risentimento mentre quella alta lo differisce, il noir, che individua responsabili e capri espiatori, e tende a non conferire una piena umanità ai personaggi cattivi, appartiene alla cultura di massa. Questa, nonostante le sue velleità, non può mai essere genuinamente critica, ma solo illudersi di esserlo. La sua vocazione è la denuncia, lo smascheramento di nemici della società buona (qualunque essa sia), qualcosa di strettamente legato al risentimento e, alla fine, alla violenza. Del resto, essa è allo stesso tempo sempre inserita—secondo le proprie modalità—nel sistema dello scambio del capitalismo maturo. Come l’hacker Ferodo, di Scirocco, individualista paranoico la cui stessa esistenza è legata all’esistenza del computer, ovvero alla produzione capitalistica avanzata, alla rete internet creata dall’America e, appunto, al sistema dello scambio aperto e senza limiti.

 

 

 

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Dubito che Beyond Illusions sia davvero il titolo originale, come afferma la traduzione italiana di S. Lauzi (Oltre ogni illusione, Garzanti, Milano 2004) del romanzo di Duong Thu Huong, pubblicato per la prima volta in Vietnam nel 1987. Può darsi però che la versione inglese (il copyright è del 2002) sia stata revisionata dall’autrice. Il mio interesse agli aspetti strettamente linguistici essendo scarso, la cosa non è poi così rilevante. Si tratta di un’opera la cui lettura consiglierei a tutti coloro che in Occidente hanno combattuto contro l’imperialismo americano. Che Vietnam è uscito dalla vittoria? Un Paese dominato da una burocrazia comunista, in cui la libertà di espressione è bloccata. Il libro, uscito in un momento in cui sembravano aprirsi degli spiragli per i letterati, è costato a Duong Thu Huong una totale emarginazione che l’ha infine condotta all’esilio. Ciò che sorprende nella lettura di questa storia, che narra di un’insegnante che si separa dal marito, con cui ha vissuto sempre felicissimamente, quando ne scopre la soggezione al regime che lo porta – lui giornalista – a seguirne sempre le direttive, è la totale assenza di risentimento, e la capacità di porre in luce l’umanità anche dei personaggi più negativi e spiacevoli. L’umano è debole, eppure qualcuno tra i molti sa essere forte. La protagonista vive nella convinzione di dover essere moralmente inflessibile, a costo di perdere l’amore e la famiglia, il marito è più debole, ma non gli manca l’autocritica, e certamente sa amare fino in fondo, se pur in modo fallimentare. Il romanzo, che presenta un’ampia galleria di tipi umani, è in effetti anche estremamente problematico. Dunque ha tutte le caratteristiche della grande letteratura.

 

È un momento terribile, quando d’improvviso ti accorgi che la tua casa è un buco miserabile e sudicio; quando il tuo idolo, scaraventato lontano dalla penombra sacrale dell’altare, si rivela, alla luce cruda del giorno, un pezzo di legno ammuffito. (p.11)

 

Il libro di Duong Thu Huong fonde in modo mirabile il pubblico e il privato perché il disamoramento della protagonista Linh è dovuto alla scoperta di quella che le appare essere la viltà ipocrita del marito, che lei aveva sposato per amore assoluto e totale, facendone il proprio idolo, di fronte al potere politico costituito. Potere che le appare, oltretutto, essere nelle mani di persone dall’ingegno modesto. (Cosa che, per la verità, non accade solo in Vietnam, ma in ogni Paese e in ogni ambiente, il che induce a porsi delle drammatiche domande sulla natura originaria del potere).

 

“E come è possibile che degli imbecilli simili, degli opportunisti senza cervello come quest’uomo vadano al potere?” ribatté secca Linh. (…) “È agghiacciante vedere cosa succede quando ambizione e potere sono al lavoro insieme nel cervello di un idiota. Gli effetti distruttivi possono raggiungere dimensioni e intensità tali da superare di gran lunga i disastri causati dai bombardamenti”. (pp. 39-40)

 

4 gennaio 2006

 

DUE LIBRI, UNA PAGINA

 

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