DUE LIBRI, UNA PAGINA (64)

Letture di Fabio Brotto

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È poco più che una sceneggiatura per una fiction televisiva questo Nordest (edizioni e/o, Roma 2005) di Massimo Carlotto e Marco Videtta (che è infatti uno sceneggiatore) e credo voglia esser tale. Pure, e benché io non sia affatto un appassionato di noir, giudico la lettura di questo testo un'esperienza interessante. Esso pone delle questioni gravi, e anche abbastanza angoscianti per chi come me vive nel cuore dello stesso Nordest, a Treviso. Anzitutto propriamente la questione del Nordest, del nome, e del concetto che vi è sotteso. Dirò che questo nome io non l'amo affatto: io sono un veneziano in esilio a Treviso, non un nordestino. Il concetto è socio-economico, ha origine recente, legato all'espansione economica della parte orientale della Pianura Padana, a quella crescita che l'ha arricchita in denaro e impoverita culturalmente, devastando insieme il paesaggio e le anime dei suoi abitatori. La storia narrata da Carlotto e Videtta è quella di un omicidio che scaturisce da un ambiente sociale della borghesia veneta segnato fin nelle midolla dai valori distorti della ricchezza, del piacere e del prestigio acquistati e mantenuti in qualsiasi modo, a qualsiasi costo, a prescindere da ogni etica. Un cinismo sostanziale dietro una facciata di perbenismo: la provincia veneta come in fondo è percepita da decenni, ma con un'accentuazione dei caratteri negativi e violenti, che rispecchia puramente una parte della realtà. Il trinomio benessere-incultura-corruzione innesca circoli viziosi (alla lettera) che a loro volta generano campi di forza che lacerano a fondo il tessuto della società. Tanto che nel libro (come nella realtà) non si capisce come essa potrà stare insieme per molto. Ecco che emerge una questione che trascende quella del Nordest. Riprendiamo dunque qui brevemente il nostro discorso sul noir iniziato nel precedente numero di DUE LIBRI  (http://www.bibliosofia.net/files/DUE_LIBRI_63.htm ): questo sottogenere del romanzo è quello che con più forza attualmente in Italia rende presente il rischio della dissoluzione della società. Per questa sua funzione, il noir ha  bisogno che il suo lettore non si identifichi con le forze del dissolvimento, anche nel caso che nella fabula esse siano prevalenti, ma che esista un punto di vista comune tra il libro (non necessariamente il narratore, che potrebbe anche essere un criminale) e il lettore. Entrambi debbono fondarsi su un’idea di società ben ordinata, una società governata dal principio del bene comune generale, per cui, ad esempio, l’attività economica dell’ecomafia, che ad alcuni reca senz’altro opportunità di denaro e di piacere, è condannata per il fatto che all’universalità arreca grave danno. Sullo sfondo di ogni noir sta sempre, inespresso, l’incubo del trionfo delle pulsioni particolari che porterebbe il gruppo sociale allargato alla violenza caotica indifferenziata. Il terreno di quest’incubo nel romanzo di Carlotto e Videtta è realisticamente, purtroppo per me, il mio Veneto.

 

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Il libro dell’orologio a polvere (Das Sanduhrbuch, 1954, trad. it. di A. La Rocca e G. Russo, Adelphi, Milano 1994) è senz’altro uno dei più suggestivi libri di Ernst Jünger. Richiede lettori meditativi, portati alla contemplazione e ad una certa, moderata, dose di melanconia. In ogni caso, lettori disposti a rileggere le pagine e le singole frasi, perché in Jünger c’è sempre qualcosa che sfugge al primo passaggio, e il lettore veloce non può apprezzare la scrittura di questo tedesco dalla lunga vita. Molte riproduzioni di stampe e immagini varie costellano questo testo, che segue le trasformazioni della misura del tempo nel passare delle civiltà e delle culture e dei variati modi di segnare e concepire il trascorrere. (Nell’iconografia non manca la Melancholia di Dürer, icona di questo sito). L’orologio a polvere è un misuratore del tempo che ha una grande forza di rappresentazione ed una carica simbolica potente. La clessidra sul mio tavolo mi mostra anzitutto un flusso, e intanto mi ricorda che anch’io sono polvere. L’orologio meccanico è altra cosa, legato com’è alla ragione dominatrice e alla potenza, e sul tempo meccanizzato e sulla sua genesi Jünger scrive pagine molto belle. Ovviamente, Jünger non ha potuto riflettere sul tempo digitale.

Anche la misura del tempo ha tuttavia un’origine. E come tutte le origini essa è sacrificale. Impossibile scendere negli abissi del rapporto tra gli umani e il tempo senza imbattersi nelle antiche potenze e nelle pratiche umane da loro governate.

 

L’orologio meccanico non è né un orologio tellurico né un orologio cosmico. È una terza cosa, una creazione dell’intelletto che non indica né il tempo astronomico né il tempo terreno. Quello che ci viene dispensato è tempo astratto, tempo intellettuale. Non è un tempo che ci venga offerto in dono, come la luce del sole o gli elementi naturali, ma un tempo che l’uomo elargisce a se stesso e di cui dispone. Ciò comporta una perdita ma anche un guadagno. E, insieme, suscita nell’uomo il suo dubbio più radicale, se cioè egli dimori in una prigione o in un palazzo. Il quadrante viene privato della sua pregnanza oroscopica. La forza di gravità viene assoggettata. Nel frattempo proliferano nuove opere. Addomesticando e imprigionando il tempo si acquisisce maggior potere. Ma le antiche potenze del tempo sono sempre presenti ed esigono vittime sacrificali. Non dobbiamo dimenticarlo. (p. 75)

 

In effetti, si può essere condotti al sacrificio attraverso le porte di una prigione, ma anche attraverso quelle di un palazzo, edifici sovente tra loro non lontani.

 

Quando sorgono dubbi sulla rotazione e il suo progresso, lo sguardo ritorna a ciò che ruota e che si muove. Quali versetti, quali rune saranno mai incise sulle nostre ruote? O forse la ruota in sé appartiene agli antichi ordinamenti? Allora anche nel nostro lavoro potrebbe nascondersi una vittima sacrificale. (p. 84)

 

14 dicembre 2005

 

DUE LIBRI, UNA PAGINA

 

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