DUE LIBRI, UNA PAGINA (56)

Letture di Fabio Brotto

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Un romanzo da leggere in treno. Letteratura di facile e pronto consumo, certo. E questo l’ho letto in treno, Treviso-Roma. Tuttavia, anche in un romanzo un po’ rozzo (simpaticamente) come Per cosa si uccide di Gianni Biondillo (Guanda, Parma 2004), un libro in cui si incappa in “uno slargo dedito al parcheggio” (p.140) o in un “Ferraro fece il bello e il cattivo tempo per dividerli” (p.189), o in altre espressioni disinvolte, si può trovare qualcosa di interessante. Intanto, il solo fatto delle tre edizioni dice di un gusto diffuso per questo tipo di storie, con questo tipo di personaggi. Ferraro è un poliziotto ovviamente separato dalla moglie, del tutto alla deriva nella vita privata, anche un po’ trash, in fondo. La cosa buona per me, qui, è la conferma di un’idea, cioè dell’idea che ogni protagonista di romanzo – del sub-genere poliziesco italiano nella fattispecie – deve essere irregolare, soprattutto nella sua vita erotica. Insomma, se nella realtà la maggioranza dei poliziotti è sposata con figli, con famiglie regolari (e ciò risalta ogni volta che muore un appartenente alle forze dell’ordine, e se ne nominano e vedono la moglie e i figli), nei romanzi i poliziotti e gli investigatori in genere vivono l’eros in modo problematico.

L’ambiente del romanzo è milanese. E dell’Italia di oggi che si dice qui? Che è un paese allo sbando, col denaro come unico valore sicuro, con un sistema della giustizia che funziona male, con una diffusa demotivazione, e sfiducia circa 1) la capacità degli organi di polizia di individuare i responsabili di reati e delitti; 2) la capacità della magistratura di punire con giustizia i colpevoli catturati.

A p. 56 Biondillo declina questi due punti nel suo modo sbrigativo:

 

 Fra borseggi, pestaggi, rapine, omicidi, ogni giorno il ‘magazzino criminale’ si riem­pie di malefatte di ogni sorta. Lo stoccaggio segue più che la regola del First In First Out quella del Last In First Out. Più aumenta la distanza dall’avvenimento criminoso più è impro­babile che ci si applichi a risolverlo. L’attenzione si sposta a qualche altro atto criminale e il vecchio e polveroso omicidio si fa obsoleto, fuori moda, incapace di stare al passo con i tempi. Solo i serial killer hanno un gran senso del marketing: grazie all’intuizione della serialità (la stessa delle soap opera, a pensarci) ridanno valore di mercato anche a crimini vecchi di anni. Ma quelli più che professionisti del male sono degli artisti invasati. Il vero professionista fa il lavoro pulito pulito, quasi in punta di piedi. L’omicida di professione, a modo suo, è una persona modesta e riservata. Va, uccide, non lascia tracce o al massimo (e solo su esplicita richiesta) fa in modo che qualcun altro paghi per lui. Era proprio questo quello che temeva Ferraro. Trovato Mimmo trovato il colpevole, e ti saluto Ninetta.        -

 

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Molto ambizioso è Malvarosa di Raffaele Nigro (Rizzoli, Milano 2005). Romanzo di formazione la cui vicenda si snoda tra il profondo Sud italiano (dagli anni Settanta già luogo di immigrazione) e la sponda araba del Mediterraneo e gli Stati Uniti, vorrebbe essere un romanzo mediterraneo e globale. C’è dentro di tutto, dall’archeologia alla malavita, dal rapporto uomo-donna a quello tra culture e religioni, dallo sviluppo distorto del Sud al saccheggio del territorio. C’è sapienza di scrittura, ma troppo d’arte rispetto all’ispirazione, che a volte mi sembra cadere, dando luogo a spazi di stanchezza narrativa e a lungaggini fiaccanti. Nigro ha voluto strafare, e dell’insieme che naufraga si salvano alcune pagine, anche molto belle e persuasive. Il protagonista Eustachio Petrocelli, prigioniero di un gruppo fondamentalista nei dintorni dell’antica Tagaste, ripercorre la sua vita per l’amico musulmano segregato con lui. La sua voce narrante mi colpisce per la sua evidente sapienza, che si confonde con quella dello scrittore. Ma l’io narrato Eustachio dovrebbe essere molto ignorante e incolto e non dovrebbe aver capito ciò che invece dei discorsi di persone più colte e intelligenti di lui riporta esattamente, dicendo che quando erano stati fatti non li aveva capiti. C’è qualcosa di non persuasivo in questa specie di onniscienza a posteriori di chi dovrebbe conoscere poco. Sono i paradossi dell’io narrante che molti scrittori vogliono assolutamente usare, pagandone il prezzo.

 

Cito un detto del musulmano El Houssi, da p. 24:

 

“Allah dice: Va’ e racconta. Storie come fiumi. La vita è un fiume. Non piccole paludi, ma fiumi. Se non hai più una storia il tuo compito è finito. Perché credi che Hemingway si sia tolto di mezzo? Ma oggi si raccontano frammenti. Non c’è il fiato dell’Eterno e l’inchiostro dà solo macchie. Noi siamo piccole macchie e non più torrenti e fiumi”.

 

6 maggio 2005

 

DUE LIBRI