DUE LIBRI, UNA PAGINA (53)

Letture di Fabio Brotto

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Saga familiare che veramente ha il diritto di chiamarsi saga, questo Orme nel cielo di Einar Már Gudmundsson (Fótspor á himnum, 1997, trad. it. di Fulvio Ferrari, Iperborea, Milano 2003). Una tipica postmodernità della costruzione (con l’incrociarsi continuo dei piani temporali tra i brevi capitoletti) si unisce ad un linguaggio scarno, con poche concessioni allo psicologismo. Come rileva il traduttore nella sua postfazione, quest’opera si inscrive in quel numero di romanzi nordici che ri-presentano il mondo della fame, che sembra oggi remoto ma è dell’altro ieri: in Islanda, nella Scandinavia, nella campagna padana.

Incastrati nella narrazione troviamo relitti preistorici, come la storia della donna-foca, che ci fa pensare alla fanciulla-cigno del romanzo di Leena Lander La casa del felice ritorno (del quale ho scritto in Due libri 46: http://www.bibliosofia.net/files/DUE_LIBRI_46.htm ). Tutte le storie di uomini-animali che ad un certo punto abbandonano la loro pelle e la riprendono, o la perdono per sempre, rimandano ad un passato sacrificale, in cui il debole confine tra l’umano e l’animale è attraversato e riattraversato, e l’evento di espulsione violenta o di sacrificio è travestito nel mito come accaduto per intervento di forze impersonali o soverchianti (come il fiume, il mare, ecc.).

 

Al sanatorio, Ólafur raccontò a Gudný la storia di suo nonno Magnús Árnason: una bellissima notte d’autunno, quando il chiaro di luna si cullava sulle onde e le stelle del cielo brillavano come lampadine, camminava sulla riva ingioiellata di lava, dove frequentemente si incontravano le foche.

Tutt’a un tratto si trovò davanti all’entrata di una grot­ta e sentì venire da dentro i suoni allegri di una festa, fuori dalla grotta erano distese delle pelli di foca. Ma­gnús raccolse una di quelle pelli e se la portò via, tornò a casa e la chiuse in una cassa, poi andò a letto, ma non riuscì ad addormentarsi.

Ogni volta che stava per prendere sonno si ritrovava all’ingresso della grotta e rabbrividiva al freddo della notte autunnale. Così uscì di nuovo, nell’oscurità. Le stelle erano scomparse, e anche il chiaro di luna. All’ingresso della grotta le pelli di foca non c’erano più, c’era un gran silenzio, una donna nuda stava seduta su un sasso e piangeva. Ma­gnús la accompagnò a casa, la confortò e la scaldò.

Così passarono i giorni.

Così passarono le notti.

Ma­gnús e la donna, che si chiamava Erla, si sposaro­no ed ebbero quattro figli, due femmine e due maschi. A Erla piaceva scendere al mare con i bambini. Nei suoi occhi c’era uno sguardo che guardava lontano, i capelli fluttuavano come onde e il mare le schiumava nelle vene.

Un giorno Erla non si sentiva bene ed era stanca, e Ma­gnús andò in chiesa con i bambini. Quando tornò a casa trovò aperta la cassa, la pelle era scomparsa insieme alla donna. Vennero giorni bui, senza squarci di sereno e senza luce. Un giorno, poco più tardi, i bambini stavano ritornando da Reykjavík0, tutti tranne Haraldur che era in barca con suo padre.

“Conoscevano un punto dove si potevano tirare a riva le barche, nella loro campagna, sul promontorio”, disse Ólafur, “e lì la loro mamma andava a fare il bu­cato.

Un ruscello entrava nella baia e si spingeva in mare. I1 ruscello ora era in piena. Correva veloce, color ruggi­ne, e trascinava con sé pezzi di ghiaccio. Aveva nevicato molto ed era tempo di disgelo. I bambini cercarono di attraversare il ruscello, ma l’impeto della corrente li afferrò e li scaraventò in mare.

Ma­gnús, il proprietario terriero, era fuori di sé. Pian­geva a dirotto, il suo dolore era terribile. Diceva che sua moglie era una balenottera nel mare e i suoi figli tre cuc­cioli di foca. Ma­gnús si lasciò sfuggire la terra dalle mani e si ridusse quasi a chiedere l’elemosina. Allora Haral­dur, suo figlio, raccolse le proprie cose e andò ad abitare nella casa di torba all’approdo di Grandi.

Il nonno raccontava spesso questa storia alla nonna. Ogni volta era più rifinita ed elaborata. Quando stava per morire guardò in direzione della nonna senza vedere altro che contorni confusi, sorrise debolmente e disse:

“Può darsi che mia nonna viva negli abissi del mare, ma non ha nessun senso venirci a dire che abbiamo occhi da foca: le foche hanno occhi umani” (pp. 182-184)

 

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Il velo di Draupadi (Le voile de Draupadi, 1993, trad. it. di M. Ferrara, Edizioni Lavoro, Roma 2004) di Ananda Devi è un romanzo che tiene fede al suo titolo. Sebbene sia scritto da un’autrice mauriziana di oggi (fatte salve le differenze la Mauritius della Devi non può non ricordare la Trinidad di Naipaul: due isole con popolazione mista e molti Indiani immigrati da poche generazioni ), e in francese, esso ha un tema che non mi pare realmente colto dai pochi commenti cui ho potuto accedere, compresa la prefazione di Marie-José Hoyet: la questione del sacrificio della donna, inteso anzitutto nel suo senso più immediato e letterale. Il riferimento al Mahabharata, di cui Draupadi è la principale figura femminile, è anche il riferimento all’intera cultura indù, cui appartiene la pratica del rogo della vedova, il sāti. La storia è qui quella di Anjali, una donna colta e abbastanza emancipata, che viene risucchiata nelle antiche usanze, cui non concede il suo assenso intellettuale, ma che la forzano comunque ad un consenso. Il figlio bambino è mortalmente malato, la medicina moderna impotente, i familiari e i parenti e il marito avvocato—che lei non ama più—la spingono inesorabilmente al sacrificio: dovrà camminare sul fuoco. Poiché, come dice un sacerdote, “…può chiedere a Dio di offrirle la vita di suo figlio. È però suo dovere dare in cambio una parte di sé per meritare quel dono infinito, quel dono divino”(p. 134). E lei ha, tragicamente, nella memoria la figura di una sua giovane amica, la mistica e innamorata Vasanti, considerata dai contadini una strega, e morta nelle fiamme durante un rito sacro. Le due fondamentali valenze del sacrificio, lo scambio e l’espulsione, sono entrambe presenti ad Ananda Devi. Nel brano che qui riporto, emerge da un lato l’alterità di Anjali rispetto al proprio ambiente, dall’altro il senso di tutti i rituali, compresi quelli più quotidiani e gestiti dalle donne, ovvero il differimento della violenza.

 

Sono vissuta accanto a loro, sempre ai margini, né amica né nemica, partecipando talvolta alla loro vita formicolante, ma senza mai condividere la stretta parentela mentale che li univa, soprattutto in occasione delle feste.

Le donne che si affaccendano intorno agli enormi recipienti di stagno dove cuoce il riso, dove gorgogliano i vari curry spandendo il loro profumo forte e penetrante, soleggiato come le spezie messe a essiccare nell’ardore bianco di Port-Louis prima di macinarle; le pentole di smalto dove macera lenta­mente il latte cagliato dalla schiuma bionda; gli uomini eccita­ti dal rum che strappa risate a squarciagola, bestemmie pesan­ti, scherzi lascivi che interrompono solo in mia presenza im­barazzati come bambini colti in fallo.

Non c’è un momento di pausa in questa vita. Anche in tempo normale, bisogna sempre spazzolare, pulire, lucidare, spolve­rare; condividere il piacere di mangiare quei piatti tradizionali la cui esatta e paziente preparazione diventa un punto d’onore, e poi ricominciare la pulizia degli utensili, delle stoviglie, del­la casa, con una sorta di ossessione.

Assoggettarsi a lavori banali e talvolta meschini che diventa­no un rito, una schiavitù quotidiana che non è sentita come ta­le solo perché rafforza i legami, dà un senso a una vita fatta di abitudini, stabilisce l’ordine e il contegno sotto un potere invi­sibile e tutto questo consente di pensare ad altro, di aspirare a una libertà qualsiasi.

In fondo, provo per loro una sorta di affetto impreciso, vago, che si alimenta di solidarietà occasionali, poi si dissolve, e poi, altre volte, si trasforma in una forte sensazione di differenza. Differenza, barriera, strana incomprensione che nasce dalla prossimità, che nasce da fedeltà temporali, incontrollabili. Dif­ferenze, similitudini, stessi lineamenti orientali, stesse abitudini di vestiario, e pensieri, mentalità che si situano a poli opposti. (p. 133)

 

Il romanzo è scritto in prima persona, come moltissimi altri romanzi dell’ultimo secolo: tanto meno certa è la verità sopraindividuale, tanto più risuona, spesso confusa e confondente, la voce dell’io.

 

 

5 marzo 2005

 

DUE LIBRI