DUE LIBRI, UNA PAGINA (52)

Letture di Fabio Brotto

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Il romanzo di W.G. Sebald Austerlitz (Austerlitz, 2001, trad. it. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2002) appare davvero altro rispetto al comune romanzo corrente (che deve anche subire la pressione dell’editing, sovente introiettato dagli autori al punto da diventare un auto-editing preventivo, qualcosa di non molto diverso da quel che accade con la censura nei paesi con regimi totalitari). Non è diviso in capitoli, sono 315 pagine di narrazione continua, inframmezzata da molte immagini, per lo più fotografie, tutte in bianco e nero, col nero che prevale sul bianco, e molto grigio. Le immagini sono intessute alla prosa, per così dire, ne sono dunque parte essenziale. È un racconto di parole e immagini in bianco e nero. Anche la prosa, direi, è in bianco e nero, ma è splendida come una sinfonia di Mahler, al quale irresistibilmente essa mi riconduce. L’io narrante riporta continuamente le parole del suo amico Austerlitz, che ha ricercato le proprie origini, e le ha ritrovate infine, dopo tanti anni, nella voragine vertiginosa del mondo ebraico dell’Europa centrale all’alba dell’orrore nazista. Austerlitz, il secondo è più ampio io, narrato e narrante insieme, sapientissimo conoscitore ed esploratore dell’architettura nei suoi aspetti socialmente più rilevanti e rivelatori (splendide le sue considerazioni sulle fortezze, e sull’insensatezza che ha governato il loro mostruoso e affascinante proliferare e crescere su se stesse a dismisura) è certo una vittima. Una vittima che non odia, ma sperimenta una desolazione infinita, che la porta alle soglie della follia. Vi è in lui un vuoto tale che gli risulta impossibile ricambiare pienamente l’amore della generosa Marie de Vermeuil. Questo è un romanzo senza eros.

La raffinata scrittura di Sebald è ricca di apparenti digressioni, che in realtà sono tutte anelli necessari di una catena: è richiesto un lettore pensante, che sia disposto a procedere con lentezza, a soffermarsi sulle immagini, a mettere in relazione i concetti, che sappia ritornare indietro, a volte, in questo splendido labirinto. Ecco qui, ad esempio, alcune righe sulle fortificazioni. Quello che Sebald qui ci dice, però, come ben può intendere il lettore di questa nota, può benissimo essere applicato ad altri campi della vita degli umani.

 

 

Nella prassi strategica, però, nemmeno le fortezze a stella, costruite e perfezionate dappertutto nel corso del XVIII secolo, raggiunsero il loro obiettivo: tale era la concentrazione su questo schema, infatti, da in­durre a trascurare la circostanza che le fortezze più imponenti attirano, com’è nella natura delle cose, anche le forze nemiche più imponenti; che quanto più ci si trincera, tanto più risolutamente ci si mette sulla difensiva, costretti alla fine ad assistere, da una postazione fortificata con ogni mezzo immaginabile e senza poter fare nulla, a come le truppe nemiche, aprendosi altrove una zona di combattimento scelta da loro, ignorino bellamente le fortificazioni, trasfor­mate in arsenali a regola d’arte, sovraccariche di bocche da fuoco e sovraffollate di uomini. È perciò accaduto più volte che, proprio mentre si intrapren­devano opere di fortificazione, fondamentalmente segnate, disse Austerlitz, da una tendenza allo svi­luppo paranoide, si sia lasciato scoperto un punto decisivo, spalancando così le porte al nemico, per non parlare poi del fatto che, con la crescente com­plessità dei progetti, andava altresì aumentando il tempo di attuazione e quindi la probabilità che, a lavoro appena concluso, se non addirittura prima, le fortificazioni risultassero già superate per via dei nuovi sviluppi prodottisi nell’artiglieria e nei pro­grammi strategici, sempre più consapevoli del fatto che tutto si decide nel movimento e non nella stasi. E se prima o poi la resistenza di una fortezza veniva messa davvero alla prova, la faccenda si chiudeva di regola, dopo uno spaventoso spreco di materiale bellico, per lo più senza risultati.

(p. 23)

 

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Giaceva nel letto in uno stato comatoso, troppo insensi­bile per alzarsi a sedere o anche soltanto per pensare. Il sole calò e nascose il volto dietro l’orizzonte. I corvi gracchiaro­no e volarono via. I passeri tornarono ai loro nidi. La notte si avvicinò in fretta, a grandi passi, lasciando una scia di silenzio, e ricoprì gli imperi del mondo con il suo manto di tenebra e desolazione. (p. 289)

 

Questa sequenza potentemente lirica chiude il romanzo di Ahmed Ali Crepuscolo a Delhi (Twilight in Delhi, 1940, trad. it. e postfazione di V. Mingiardi, Neri Pozza Editore, Vicenza 2004). Si può leggerlo da differenti punti di vista, anche come documento di una fase storica dell’India, come emblema di un incontro di due mondi culturali, della difficoltà di essere un uomo con due matrici, ecc. A me di Ahmed Ali piace la vena elegiaca, la continua evocazione della vanità delle cose, il senso dell’inesorabile tendenza di tutto a finire. Mi piace anche il quadro di una vecchia Delhi in cui fioriscono attività del tutto sottratte alla presa dell’utile, come l’allevamento e l’addestramento di colombi da parte di molti abitanti, con gli stormi che si librano a gara nel cielo sopra la città, seguendo ciascuno gli ordini del proprio addestratore, che cerca di attrarre e inglobare anche uccelli altrui nel proprio stormo, accrescendolo a spese degli altri. Spettacolo mirabile, e conflitto continuo in cui la rivalità si estetizza. Come nelle gare di aquiloni, che anch’essi dai tetti si levano nel cielo, e confliggono, ciascuno guidato ad abbattere gli altri. Ove si vede che le forme più liberamente estetiche di fruizione del tempo tra gli umani si possono sottrarre al dominio dell’economico (in parte), ma mai a quello della mimesi conflittuale.

Le donne del romanzo sono soggette alla legge del parda, ovvero, confinate in una parte della casa, possono mostrarsi solo ai parenti più stretti: è una Delhi islamica nella quale la vita si svolge in un modo che non dispiacerebbe molto ad un fondamentalista odierno. E tuttavia, comandino i mughal o i sayyed o i farangi, il vero signore è l’ineluttabile tempo.

 

Mir Nihal tornò a casa con il cuore colmo di tristezza, consapevole della natura vana ed effimera del mondo. Ma formidabili sono le devastazioni del Tempo, e nessuno può opporsi alla sua forza inarrestabile. I re muoiono, le dina­stie cadono. Passano secoli e millenni, e mai un sorriso illu­mina l’imperscrutabile volto del Tempo. La vita procede con spietata continuità, e, sempre alla ricerca del nuovo, schiaccia mondi e ideali sotto i suoi talloni crudeli; distrug­ge, ricostruisce e demolisce di nuovo con la capricciosità dissennata di un fanciullo che innalza un castello di sabbia solo per raderlo al suolo... (p. 165)

 

25 gennaio 2005

 

DUE LIBRI