DUE LIBRI, UNA PAGINA (50)

Letture di Fabio Brotto

brottof@libero.it

http://www.bibliosofia.net/ 

 

 

Uno dei temi che emergono con più forza dall’ultimo libro di René Girard, La pietra dello scandalo (Celui par qui le scandale arrive, 2001, trad. it. a cura di Giuseppe Fornari, Adelphi, Milano 2004), è, a mio parere, quello del carattere specifico dell’Occidente contemporaneo. Secondo Girard, l’Occidente si differenzia dalle altre culture essenzialmente per la sua tendenza all’autocritica e al relativismo. Quest’ultimo per il pensatore della teoria mimetica è un fattore negativo (e infatti una sezione del libro si intitola Contro il relativismo), mentre l’autocritica è un portato del Cristianesimo, e differenzia in senso positivo gli occidentali dagli altri, se non che tende progressivamente a volgersi in esaltazione aprioristica di tutto quel che occidentale non è, e in accoglimento dell’autoesaltazione propria di tutte le altre culture umane, in cui non è penetrato il tarlo della Rivelazione giudaico-cristiana. Insomma, l’occidentale contemporaneo colto e politicamente corretto è pregiudizialmente ben disposto verso tutto ciò che è altro da sé, e portato alla colpevolizzazione della civiltà occidentale (e cristiana) in quanto tale. Almeno a parole. Una delle conseguenze è stato, secondo Girard, il primitivismo che ha contrassegnato molti momenti dello sviluppo della cultura europea e occidentale.

 

Gli occidentali (…) hanno inventato un nuovo modo di concepire il rapporto fra la loro cul­tura e le culture straniere, un modo contrario al­l’autoesaltazione tipica di ogni civiltà. Per dare rea­lizzazione a questo atteggiamento singolare, coloro che lo condividono si rifanno il più delle volte a un sistema culturale straniero e, confrontandolo con quello occidentale, ne argomentano la superiorità. Per meglio opporsi, in breve, all’autoesaltazione dell’Occidente si adotta, o si finge di adottare, l’au­toesaltazione propria di un’altra cultura.

Ciò spiega come mai, nella civiltà occidentale de­gli ultimi cinque secoli, i mondi arcaici siano così presenti, diventando talvolta l’oggetto, specialmen­te fra pensatori, scrittori e artisti, di infatuazioni straordinarie, benché passeggere. (p. 49)

 

Il primitivismo del buon selvaggio per Girard “è diventato la tradizione essenziale dell’Occidente” e il nucleo concettuale fondante dell’antropologia occidentale (p. 54). Così ci troviamo nel paradosso per cui l’autoadulazione occidentale si fonda sulla condanna di sé e sulla capacità di affermare la superiorità delle culture altre (p. 55).  Ne La pietra dello scandalo ritroviamo evocati e brevemente delineati, oppure anche soltanto accennati, tutti i nodi fondamentali del pensiero girardiano. Anche i punti che l’autore stesso riconosce bisognosi di perfezionamento, o di cui si riconosce debitore ad altri (come a Giuseppe Fornari per l’idea di una “mediazione buona”, a p. 169). Penso che senz’altro sul valore delle religioni estranee alla tradizione giudaico-cristiana ci sia ancora molto da riflettere per il maestro francese e per i suoi discepoli ( e per tutti). Nel libro vedo anche qualche debolezza, o qualche giudizio affrettato, soprattutto nel colloquio con Maria Stella Barberi, come la singolare valorizzazione dell’Inquisizione secentesca alle pp. 112-113, in quanto sarebbe stata fondata sulla comprensione “che è necessario far prevalere le decisioni della legalità sullo scatenamento della folla”: l’idea che la decisione debba essere sottratta alla folla e affidata alla legge non è certo cristiana, e rimanda alle origini dello stato, e in particolare a Roma. Peraltro, mi pare che occorra ancora riflettere a fondo sulla relazione tra sacrificio, linciaggio, sterminio ed esecuzione capitale, le quattro fondamentali modalità di espressione della violenza umana che, intrecciate in vario modo, affiancano quella più spesso deprecata, la guerra.

 

* * * * *

 

Mi è difficile condividere il grande entusiasmo suscitato in molti lettori (soprattutto giovani, pare) dal romanzo di Hanif Kureishi Il Budda delle periferie (The Buddha of Suburbia, 1990, trad. it. di Ivan Cotroneo, Bompiani, Milano 2003). Romanzo di formazione di un giovane figlio di emigrati indiani nella Londra spumeggiante dei primissimi anni Settanta, tra gruppi e gruppetti rock, punk, residui hippy, teatro underground, droghe e soprattutto molto sesso, per lo più etero, ma anche un po’ omo, è scontato, a tratti banale. Il racconto degli ambienti e delle persone è condotto bene, si capisce la presenza dell’editing, un fantasma che Kureishi deve aver bene introiettato, ma alla lunga il tutto è noioso, per me, che trovo le situazioni descritte del tutto ovvie nel loro preteso anticonformismo postmoderno, assolutamente consono ai modelli vigenti. Se vuoi aver successo, devi scrivere un romanzo così, si potrebbe dire, e Kureishi l’ha scritto. Omologazione letteraria, integrazione perfetta. Se uno pensa di trovarvi delle nozioni profonde sulla vita delle periferie, e degli emigrati asiatici in esse, è fuori strada. In fondo, il padre impiegatuccio indiano, che si atteggia a guru (da quattro soldi, ottenendo però un relativo ascolto e trovando l’amore di una donna) e dà il titolo al romanzo, potrebbe anche non essere affatto indiano. Il suo carattere indiano è inesistente. Qui delle due l’una: o Kureishi vuol far intendere che gli immigrati tendono ad essere assorbiti senza residui nell’Occidente dove tutto è merce (compresi teatro, letteratura e musica), o non è in grado di penetrare lo specifico cultural-religioso (in effetti questi immigrati sono paki, quindi musulmani, quindi col buddismo e l’induismo dovrebbero essere in conflitto: de hoc nihil). Propendo per entrambe le ipotesi. Kureishi è del tutto fuori da ogni possibilità di comprensione del religioso: “Pensavo di essere uno dei pochi al mondo ad essermi accorto che le religioni sono infantili e incomprensibili” (p. 300). Per la verità, anche l’anatomia canina non è nota all’autore. Altrimenti non avrebbe concepito una scena così ridicola come quella del protagonista che viene “violentato” da un grosso cane, recandone poi tracce di sperma sulla giacca. Una scena che oltre che assurda e fisicamente  impossibile è anche del tutto gratuita. Come è gratuito nel romanzo l’elemento omosessuale, che serve solo a ottenere una tonalità di apparente irriverenza e giovanilismo ribaldo, del tipo “Avevo già smanettato diversi cazzi a scuola; eravamo sempre lì a toccarci e a strofinarci” (p. 27). E “quando venne nella mia mano fu, vi assicuro, uno dei momenti più significativi della mia adolescenza (ibidem)”. Caspita! Una adolescenza indubbiamente ricca di significato, si potrebbe dire, letta da Kureishi in chiave di freudismo nazional-popolare estremizzato e seriale.

 

26 dicembre 2004

 

DUE LIBRI