DUE LIBRI, UNA PAGINA (5)

Letture di Fabio Brotto

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Ne Il crepuscolo degli dei della steppa, di Ismail Kadaré (1981), edito in Italia da SEI nel 1982 nella traduzione di M. Varca e riedito nel 1993:

Intorno c'era il chiasso abituale di una serata danzante dell'Istituto Gorki, con quel colore particolare che viene dal contrasto tra la gloria eterna della letteratura ed i suoi rappresentanti viventi, che a tratti si mettevano a ballare goffamente, balbettavano o dicevano banalità. Sapevo che quelle serate avevano vera vita soltanto nelle prime ore, quando le ragazze erano ancora suggestionate all'idea di conoscere finalmente degli scrittori. E quei Goethe e quei Villon, i loro cavalieri, stavano loro intorno: ecco la gloria, vicinissima, dovevano soltanto voltare il capo. Le presento il mio amico Piotr Reutski, un poeta. Ha letto Il mattino delle betulle? L'autore è lui. Davvero? Sì, è proprio lui. E tutto questo veleggiava in un'aura di sottintesi, di illusioni che conoscendo gli scrittori si possa diventare un personaggio, magari acquisire il diritto di vedere le proprie iniziali in capo ad un poema o ad un racconto, per non parlare dei diari postumi, della corrispondenza intima, delle memorie, degli archivi.

Eravamo ancora nella prima metà della serata (perché nella seconda la verità si toglieva a poco a poco i veli, e arrivava il momento in cui le ragazze incominciavano a guardare i cavalieri con disprezzo e cercavano di sfuggire alle loro strette; capitava anche, come nel caso di Nutfulla Shakenov, che una schiaffeggiasse l'uomo di cui, due ore prima, sognava di vedere il nome unito al proprio per l'eternità, sul marmo della tomba, accanto ai versi che lui le avrebbe dedicato [...] (p.55)

Una tristezza abissale, ma né sentimentale né lacrimosa, spira dalle pagine del romanzo di Kadaré, che dipinge con sintesi mirabile le condizioni dell'alta cultura letteraria nella tarda Unione Sovietica. Terribile risalta il meccanismo persecutorio messo in atto nei confronti di Pasternak in occasione del conferimento del Nobel all'autore de Il dottor Zivago. Il conformismo e la pochezza morale degli intellettuali in queste pagine appaiono desolanti. I singoli sono stritolati dalla ragione di stato, come capita anche al protagonista albanese, che la crisi nei rapporti tra l'Unione Sovietica e il suo paese costringe a interrompere ogni rapporto con la ragazza russa che lo ama.

 

Ne I sette pilastri della saggezza di T.E. Lawrence (1926), edito in Italia da Bompiani nel 1949 e riedito per la ventesima volta nel 2000 nella traduzione (discutibile) di E. Linder:

Su ogni campo ed in ogni valle truppe turche fuggivano incespicando verso nord, incalzate dai nostri uomini che, resi più arditi dal calare della notte, serravano il nemico. Ogni villaggio raggiunto dalla battaglia faceva la propria parte. Il vento nero e gelido echeggiava selvaggiamente di colpi di fucile, grida, scariche turche, e galoppate improvvise quando qualche drappello delle due parti si scontrava furiosamente.

Il nemico aveva tentato al tramonto di fare sosta e d'accamparsi, ma Khalid li aveva costretti a riprendere la fuga. Alcuni si misero in marcia, altri restarono. Parecchi si addormentarono esausti lungo la strada. Privi ormai di ogni ordine e collegamento, vagavano sotto le raffiche in gruppi sperduti, pronti a sparare ed a correte a ogni incontro con noi o fra di loro. Gli Arabi erano altrettanto disseminati, e quasi altrettanto malsicuri.

Facevano eccezione i distaccamenti tedeschi, e qui per la prima volta mi sentii orgoglioso del nemico che aveva ucciso i miei fratelli. [è in corso la Grande Guerra] Erano lontani duemila miglia dalle loro case, senza speranza né guida, in condizioni abbastanza disperate da fiaccare gli spiriti più coraggiosi. Eppure le loro compagnie restavano unite in buon ordine, muovendosi fra la confusione di Arabi e Turchi come navi corazzate, gli uomini fermi in volto e silenziosi. Attaccati, si fermavano, prendevano posizione e facevano fuoco a comando. Non mostravano fretta né esitazione. Non gridavano. Furono magnifici. (p.766-777)

Non si trova molta saggezza leggendo i Seven Pillars of Wisdom, ma sarebbe certo meglio leggere il libro di Lawrence d'Arabia nell'originale, perché se la mente dell'autore non è metafisicamente limpida e filosofeggia penosamente (ma è una pena autentica), la sua scrittura è spesso smagliante. Il traduttore traduce ostrich (struzzo) con ostrica, con la gustosa conseguenza che cinque capi arabi vengono "portando in dono uova d'ostriche arabe abbondanti nel loro deserto". (p.199) Non so se questo errore si tramandi da venti edizioni. Non si trova vera saggezza, in questo libro, ma molta avventura, un problema d'identità culturale, un'ossessione per la purezza, un'estetica della guerra che si traduce in ammirazione per il valore anche del nemico, merce rara questa negli ultimi tempi.

19 settembre 2001