DUE LIBRI, UNA PAGINA (48)

Letture di Fabio Brotto

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Foglie cadute di Vasìlij Ròzanov (1912, trad. it. a cura di A. Pescetto, Adelphi, Milano 1989) è un testo ambizioso, nonostante la forma disorganica – ma dopo Nietzsche l’organizzazione di un libro con pretese filosofiche è un fattore secondario. Trovo Ròzanov un autore petulante, con insostenibili pretese di grandezza, e però un vero esempio di mimesi conflittuale, cui va ascritta anche la sua brama di impossessarsi dell’amante di Dostoèvskij, lo scrittore idolatrato e il modello, Apollinàrija Sùslova: un classico esempio di dimostrazione concreta della verità della teoria girardiana del desiderio. Nel saggio di A. M. Ripellino riportato alla fine del libro, Ròzanov è definito “russo sino alla nausea” (p. 416). E in effetti il personaggio , di “natura flaccida e catarrale”, è piuttosto scostante. Ma ciò che nel testo mi interessa maggiormente è la prova che non è possibile esaltare la nazionalità fino a farne un valore assoluto senza cadere nell’anti-ebraismo. E Ròzanov infatti vi cade in pieno, come mostrano i passi che qui riporto.

 

È  raro imbattersi in un ebreo che non possegga qualche talento, ma non cercate tra loro il genio. Di­fatti Spinoza, di cui menano vanto universale, è stato un imitatore di Cartesio, mentre il genio è inimitabile e incapace di imitare.

Entrambi, il genio e anche il solo talento, emanano dal loro rapporto con la Divinità. E, “attraverso que­sto legame”, nessuno è privo di un certo grado di in­gegno, come riflesso prossimo o remoto della Divinità stessa. Ma, d’altra parte, tutto appartiene a Dio e gli ebrei devono al loro Dio la propria forza e la pro­pria debolezza. È come se, letteralmente, barcollassero tutti di fronte a Lui, perché Egli solo è grande. Tra essi, nemmeno Mosè, nemmeno i profeti manifestano quella grandezza soggettiva, quella libera personalità che caratterizzano a volte i non ebrei. Accanto a un Cartesio, a un Leibniz, a un Kant tutti i loro pensato­ri sembrano “fabbricanti o rabberciatori di orologi”. In confronto allo splendore di uno Shakespeare, cosa sono gli scrittori ebrei da Heine ad Àjzman? La ma­gnanimità di un Bakùnin non trapela mai dal loro concetto di libertà. “Ampiezza di respiro” e “ardire” sono incompatibili con l’ebraismo. Essi continuano a “camminare in catena” dinanzi a Dio. E la catena li preserva, ma li limita, condizionandoli. (pp. 159 – 160)

 

Il sesso è una grande ossessione di Ròzanov. Egli vede il cristianesimo come un platonismo desessualizzante, e vorrebbe che sorgesse qualcosa come un cristianesimo fallico, che celebrasse le forze della vita, della riproduzione e della sessualità. Anche qui serpeggia l’idea dell’ebreo libidinoso. Ma poiché la libido sessuale è potere, il cristianesimo dovrebbe, secondo l’autore, non combatterla e opporle ascesi e mortificazione della carne, sibbene esaltarla, per non soggiacere a coloro che vi sono da sempre immersi e ne traggono forza.

 

Nel sesso c’è potere, il sesso è potere. A una forza sif­fatta gli ebrei sono legati mani e piedi, mentre i cri­stiani ne restano indenni. Ecco perché gli ebrei hanno il sopravvento sui cristiani.

La lotta è qui, nella profondità del seme, anziché al­la superficie, e la profondità è tale che vengono le ver­tigini.

 

L’ulteriore rigetto del sesso da parte cristiana porte­rà a un sopravvento sempre maggiore dell’ebraismo. Ragion per cui ho cominciato, credo così “opportuna­mente “, a predicare il sesso. Sia pure in parte, il cri­stianesimo dovrà diventare fallico (regolando prole, divorzio e famiglia, rendendone più denso il sostrato, aumentando il numero dei matrimoni).

 

Ahimè, gli ebrei colti non lo capiscono se non em­piricamente, e i cristiani istruiti si guardano bene dal darsene per intesi. (p. 189)

 

I più ricorrenti tra i luoghi comuni sugli Ebrei trovano spazio nei frammenti rozanoviani di Foglie cadute, come nel seguente, ove peraltro il lettore non capisce da che cosa sarebbe determinato il rimanente 78% del “successo”.

 

Violenza e brutalità segnano il 2% del “successo “; il 20% è frutto di cortesia e servilismo.

Gli ebrei l’hanno capita più degli altri, prima ancora che nascesse Nostro Signore. E da quel bel dì sono sempre “in auge “, lasciando affondare i loro avver­sari.

Ecco, in succinto, tutta la storia, semplice e com­plessa.

 

Non ho mai incontrato un ebreo che insultasse o battesse un altro ebreo, o lo trattasse rudemente. Ma ficcano l’ago, certi loro aghi, fino in fondo. Trattando­si di commercio, di beni materiali, di carriere rimune­rate, allora si fanno avanti e tolgono tutto agli altri. (p. 269)

 

   Il russo è minacciato dall’ebreo (come il tedesco?). Un cancro dunque si è insediato dentro il nobile ma rustico popolo russo. Le mani ebree si protendono ad arraffare ogni cosa. Il passo successivo non potrà che essere breve…

 

          I “servigi” resi dagli ebrei sono come unghiate alle mani, la “cortesia” ebraica scotta come fuoco.

In verità, valendosi di loro, la mia gente incontrerà la sua rovina. Circuito da tanta affabilità, il mio popo­lo sarà soffocato e disperso.

(in seguito ad una lettera di G. sugli ebrei, 28 dicembre)

 

Perché è un popolo aspro e ruvido, il nostro. Un po­polo grezzo.

Convolerà in massa verso gli ebrei, e fra cent’anni “tutto sarà in mani ebree “. (p. 275)

 

* * * * * * *

 

   La Modernità è per Zola una forza scatenata che tutto travolge, rigenera e di nuovo abbatte. L’edificare frenetico nella Parigi ottocentesca, come in generale nelle grandi metropoli dell’Occidente, procede con violenza. Il vecchio deve essere abbattuto, per costruire un nuovo che spesso diventa rapidamente fatiscente. Questo processo tipico della società capitalistica è guardato da Zola con sostanziale simpatia, come legato al progresso e all’affermazione sociale, in testi come Al paradiso delle signore, mentre nel citatissimo L’ammazzatoio (L’Assommoir – 1876, trad. it. di L. Collodi, Newton Compton, Roma 1995) esso appare brutale e disumano. Ne L’ammazzatoio, grande ritratto della Parigi dei suburbi operai pieni di bettole dove i lavoratori si stordiscono nell’alcool, risalta la capacità zoliana di collocare luoghi e persone sul sottile confine tra realismo e fantasmagoria. Zola sta stretto nei famosi canoni del naturalismo. Lo si vede anche soltanto nelle sue grandi scene descrittive. Ecco la protagonista, la lavandaia Gervaise, madre della celebre Nanà, che va a vedere per la prima volta l’immane caseggiato dove vive il suo uomo. Questa immensità insieme vivente e morente è uno dei capi saldi della narrazione, e mi sembra ricco di significato, anticipatore, anche, di un possibile futuro nero per buona parte dell’umanità.

 

Parlando, avevano percorso un centinaio di metri della rue de la Goutte–­d’Or. L’uomo si fermò, e alzò gli occhi, dicendo:

«Ecco la casa... Io sono nato un po’ più in là, al 22... Ma questo fabbri­cato, in ogni modo, è una bella opera di muratura! All’interno, è grande come una caserma!».

Gervaise alzò la testa, guardò la facciata. Sulla strada, l’edificio era di cinque piani, e a ogni piano si allineavano quindici finestre, le cui per­siane nere, con le stecche rotte, davano un’aria di squallore a quella im­mensa massa di mattoni. Accanto al portone quattro botteghe occupavano il pianterreno: a destra l’ampio stanzone di una bettola piuttosto sordida, a sinistra un carbonaio, un merciaio e una venditrice di ombrelli. L’edificio sembrava tanto più colossale in quanto si innalzava tra due costruzioni piccole e basse, misere, praticamente appiccicate ad esso, il quale, simile a un blocco di calcina impastata grossolanamente, s’imputridiva e si sbri­ciolava sotto la pioggia. Contro il cielo chiaro, al disopra dei tetti vicini, si stagliava quell’enorme cubo grezzo, con le fiancate senza intonaco, color fango, e faceva pensare a un’interminabile e nuda successione di muri di prigione, su cui file e file di addentellati sembravano mascelle che sbadigliassero nel vuoto. Ma Gervaise guardava soprattutto il portone: un immenso portone rotondo che arrivava fino al secondo piano, aperto su un portico profondissimo, in fondo al quale si intravedeva lo smorto chia­rore di un grande cortile. In mezzo a quel portico, lastricato come la strada, scorreva un rigagnolo, la cui acqua era di un rosa molto tenue.

«Entrate!», disse Coupeau. «Non vi mangeranno mica.»

Gervaise preferì aspettarlo per la strada. Nell’attesa, entrò sotto il por­tico, spingendosi fino alla portineria, che era a destra. E là, sulla soglia del cortile, alzò di nuovo lo sguardo. All’interno, l’edificio aveva sei piani, e quattro facciate tutte uguali chiudevano l’ampio quadrato del cor­tile. Le mura grigie erano divorate da una lebbra giallastra, rigate dalla sgocciolatura dei tetti, e s’innalzavano, completamente piatte, dal selciato fino alle ardesie del tetto, senza una modanatura. Soltanto i tubi di scarico si piegavano a gomito all’altezza dei piani, dove i cassoni degli acquai, spalancati, mostravano le macchie della ghisa arrugginita. Alle finestre mancanti di persiane i vetri nudi erano di un torbido verde, come di acqua sporca. Da alcune, spalancate, penzolavano materassi a quadretti blu, messi lì a prendere aria; davanti ad altre, su corde tese, asciugavano capi di biancheria, il bucato di una famiglia: le camicie dell’uomo, le cami­ciole della donna, le mutandine dei bambini. A una finestra del primo piano era steso un pannolino da neonato, tutto sporco. Dall’alto in basso, le abitazioni troppo anguste esplodevano all’esterno, facendo uscire da ogni apertura brandelli della loro miseria. In basso, a uso di tutte le fac­ciate, una porta alta e stretta, senza rivestimenti di legno, come tagliata nel nudo intonaco, si apriva su un vestibolo pieno di crepe, in fondo al quale iniziavano i gradini fangosi di una scala con la ringhiera di ferro. C’erano quattro scale, indicate con le prime quattro lettere dell’alfabeto, dipinte sui muri. I pianterreni erano immense officine, chiuse da vetrate nere di polvere: si vedeva fiammeggiare la fucina di un fabbro ferraio, si sentivano i colpi di pialla di un falegname; mentre, vicino alla portineria, dal laboratorio di un tintore usciva, gorgogliando rumorosamente, quel ruscello di un tenue rosa che scorreva sotto il portico. Sporcato dalle poz­zanghere di acqua colorata, dai trucioli, dai bruscoli di carbone. con sui bordi una stenta erba che cresceva anche tra le lastre sconnesse del sel­ciato, il cortile era illuminato da un crudo chiarore, e come tagliato in due dalla linea sulla quale il sole si fermava. Dalla parte dell’ombra, intorno alla fontana, il cui rubinetto gocciolante manteneva il cortile in una co­stante umidità, tre gallinelle, con le zampe tutte inzaccherate, becchetta­vano il suolo, alla ricerca di qualche verme. Gervaise, lentamente, percor­reva tutto il caseggiato con lo sguardo, abbassandolo dal sesto piano al selciato, facendolo risalire fino al tetto, sorpresa da quella dimensione, sentendosi nel cuore di un organismo vivente, nel centro stesso di una città, e provava un vivo interesse per quella casa, come se si fosse trovata di fronte a una persona di proporzioni gigantesche. (pp. 49 – 50)

 

 

1 novembre 2004

 

DUE LIBRI