DUE LIBRI, UNA PAGINA (45)

Letture di Fabio Brotto

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Capita che anche in libri che non consuonano con il nostro spirito possiamo leggere delle pagine splendenti, sulle quali il nostro occhio ritorna più volte, a rilevare i movimenti aperti e quelli più nascosti. Il libro di Benjamin, romanzo-diario di Bo Carpelan (Benjamins bok, 1997, trad. it. C. Giorgetti Cima, Iperborea, Milano 2003), è una sorta di lunga confessione, uno scavo nei detriti e nei piccoli oggetti della memoria alla ricerca di una responsabilità personale (di una condanna o di una assoluzione o di qualcos’altro) per un fatto in cui il narratore è rimasto coinvolto nella sua fanciullezza. La condizione di demente in cui un suo amico è precipitato in quei tempi lontani a causa di un oscuro incidente interroga Benjamin, che cerca una risposta. Ma tradurre il passato per la coscienza del presente non è una cosa facile. Benjamin nella vita fa il traduttore, ma questo non l’aiuta in quell’altra ben più gravosa opera di traduzione. Così, la cifra fondamentale di questo libro crepuscolare (boreale, verrebbe da dire), pur niente affatto disperato, è la malinconia. Che è magnificamente declinata nelle righe seguenti.

 

 

La malinconia non è un passivo guardarsi l’ombelico, è uno stile di vita, un modo di vedere l’esistenza, nella sua forma migliore è lucidità. Ha poco a che fare con il sentimentalismo. È un rendersi conto: che la vita è breve, che la morte attende tutti, che la malattia e la sofferenza fanno parte della vita. La malinconia confi­na con la tristezza, una brutta parola. Occorre forse una certa forza interiore per vedere la caducità e co­glierne la bellezza. La malinconia confina anche con la rassegnazione, pure questa una brutta parola agli occhi di molti. Mai rassegnarsi! In piedi e via! Più azione! esclamano gli esuberanti, e danno una bella pacca sulla schiena al loro prossimo, magari già malconcio. La ras­segnazione è il legittimo rifugio al triste pensiero che non posso far nulla riguardo a un sacco di cose, nono­stante tutti gli appelli e i bei pensieri. Per tornare alla malinconia: è un buon rimedio contro tutta l’arroganza che la lotta per la sopravvivenza porta con sé tra gli es­seri umani. Guardate quanto sono bello, sano, e im­mortale! Ma gli allegri urrà si spengono con l’arrivo del gelo e dell’autunno. Allora è preferibile avere una dife­sa discreta ma salda nel profondo, magari in forma di una solida fede. La malinconia richiede una certa dose di equilibrio, di contemplazione, di solitudine e di ca­pacità di ascoltare, la propria vita come l’altrui. È il tampone necessario e legittimo contro il dolore profon­do e in questo somiglia alla convinzione religiosa, quella che non pretende nulla ma dà. La tristezza, la malin­conia non offrono nessuna panacea. Sanno che cosa vogliono dire le sconfitte e come si può faticosamente superarle. Non promettono nulla che non possano mantenere. Sono le alte giornate d’autunno dopo un’e­state traditrice. (p. 71)

 

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La felicità perduta è un tema assolutamente originario. Declinato in mille modi consimili dall’alba dell’arte consapevole, questo tema del “nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria” riappare continuamente nel corso dei secoli in tutte le culture, il più delle volte connesso con una melanconica contemplazione della caducità. Leggendo l’aurea prosa di Ernst Jünger, che racchiude in sé e intreccia molto della tradizione del grande stile tedesco, nell’incipit del romanzo Sulle scogliere di marmo (Auf den Marmorklippen,  1939, trad. it. A. Pellegrini, Ugo Guanda Editore, Parma 2002), troviamo quasi un mosaico di parole già dette, di frasi già risuonate, e che torneranno infinitamente anche nei tempi a venire.

 

 

Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrevocabilmente tra­scorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi. Le immagini risorgono, più an­cora allettanti nell’alone del ricordo, e vi ripensiamo come al corpo di una donna amata, che morta riposa nella pro­fonda terra e che simile a un miraggio riappare, circonfusa di spirituale splendore, suscitando in noi un brivido di sgomento. Sempre di nuovo ritroviamo negli affannosi so­gni il passato, in ogni suo aspetto, e come ciechi brancolia­mo verso di esso. La coppa della vita e dell’amore ci sem­bra non esser stata colma sino all’orlo, per noi, e nessun rimpianto vale a ridonarci tutto ciò che non abbiamo avu­to. Oh, fosse questa tristezza almeno d’insegnamento per ogni nuovo attimo di felicità!

Il ricordo di quegli anni di luce solare e di calmo splen­dore della luna ne diviene più dolce ancora, se l’orrore li terminò d’improvviso. E ora comprendiamo come già un felice caso per noi uomini sia il proseguire la vita nelle no­stre piccole comunità, in una casa ove la pace regni, fra buoni conversari, accolti da un saluto affettuoso a mattina e a sera. Ahi, troppo tardi riconosciamo che la fortuna ci era in tal modo prodiga di doni. (p. 5)

 

 

8 luglio 2004

 

DUE LIBRI UNA PAGINA