DUE LIBRI, UNA PAGINA (44)

Letture di Fabio Brotto

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I Ghepardi di Finn Carling (Gepardene, 1998, trad. it.  P. M. Marocco, Iperborea, Milano2003) sono un breve romanzo densissimo e polisenso, in cui è difficile scindere il piano del reale da quello dell'immaginario, e che pone, nel modo della narrativa, alcune questioni fondamentali e angosciose: quella del rapporto tra l'uomo e gli animali, quella del rapporto tra giovinezza e vecchiaia, quella della memoria e del dolore della memoria, quella dell'identità del soggetto in un mondo in cui tutto è labile e diviene polvere, quella della comunicazione tra gli esseri e della ricerca della verità, quella dell'impossibile libertà. Eppure, miracolo della scrittura di  Carling, questa densità è leggera. Ci sono quattro personaggi umani. Un Vecchio che ogni giorno sta seduto, vestito sempre dello stesso cappotto d'estate e d'inverno, presso la gabbia che contiene due ghepardi, uno vecchio e prossimo alla morte, l'altra giovane - sta lì immobile apparentemente guardando nel vuoto, in realtà parlando col secondo personaggio, una ragazzina bionda vestita sempre con lo stesso vestitino estivo in tutte le stagioni. I due si raccontano delle storie – perché “l’oblio non è una difesa, è precursore della morte. Bisogna ricordare la verità del passato per poter vivere” (p. 44) – , storie nelle quali chi di volta in volta è il narrante ricorda episodi della vita passata, in cui si è trovato ad essere questo o quell'animale: racconti duri, spesso atroci. Pare, poi, che la fanciulla sia vista solo dal Vecchio. Il terzo personaggio umano è un giardiniere che cerca di scoprire la verità sul Vecchio, e lo segue anche, individuando tre possibili sue case, tre possibili identità, ciascuna amara e triste. Il quarto è il custode, che comprende gli animali, che è affezionato al vecchio ghepardo, che vorrebbe dargli la libertà. C'è un'evidente relazione tra il vecchio ghepardo e il Vecchio: entrambi hanno avuto una vita precedente, il ghepardo libero nella savana prima della cattura, il Vecchio chissà dove, chissà come. E la ragazzina? Il suo presente è fantasmatico.  È un'anima? Ha un rapporto col giovane ghepardo femmina?  Il nome con cui la ragazzina chiama il vecchio è Rabindranath, il nome di Tagore, e quello con cui è chiamata dal vecchio è Gitanjali, il titolo di una raccolta del grande poeta indiano. Quel che è certo è che in questo romanzo animali e uomini appaiono affratellati da un destino comune (e tra i vari attori animali delle storie raccontate dalle due voci rammemoranti e narranti neppure uno è un erbivoro, sono tutti predatori). E i loro punti di vista si scambiano.

 

 “Era strano”, riprese il vecchio dopo una breve pausa, “starsene su quel palchetto a guardare se stesso come si guarda uno sconosciuto. E pensare: per quale ragione vive, con quell’aria così spenta? Per quanto si possa dire la stessa cosa di me. Penso ogni mattina: Perché mi sveglio? Perché non posso evitarlo? Ma non ho scampo; sono costretto, anco­ra una volta, a vivere una giornata esattamente u­guale a tutte le altre. Qui sul palchetto, immobile, mentre questa giovane creatura mi assilla in conti­nuazione e il pubblico ci osserva, ci indica, lancia sassolini per farmi scendere. Ma io non scendo. Non reagisco. Non sento più nemmeno i sassolini che mi colpiscono.

Perché non li gettano anche addosso al vecchio, per farlo muovere? Sarà perché non è per vedere lui che hanno pagato. E poi le persone anziane stanno spesso sedute così, sulle panchine o da qual­che altra parte. Alla fine non stanno neanche più sedute, cadono a terra e vengono calate in una fos­sa. A differenza di noi, loro non diventano mangime. Del resto, poco importa chi ti mangia dopo morto: se sono le bestie che vivono sopra o sotto la terra.

 

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Romanzo breve di algida perfezione questo di Inoue Yasushi,  Il fucile da caccia (Ryōjū, 1949, trad. it. G. Amitrano, Adelphi, Milano 2004). In realtà vi si parla ben poco sia di caccia che di fucile. La scena di caccia è soltanto il punto di partenza. Al narratore capita di essere colpito dalla figura di un uomo che vede salire sulle pendici di un monte, armato di fucile e preceduto da un setter bianco e nero (una situazione in cui posso vedere me stesso, salvo che la mia doppietta non è una Churchill inglese, ma un'arma italiana, e la mia setter non è bianco-nera, ma nera focata). Ispirato da questa visione, il narratore scrive una poesia e l'invia alla rivista L'amico del cacciatore, che la pubblica. Accade che gli giunga poi una lettera dell'ispiratore, del  cacciatore, proprio quello,  che vi si è riconosciuto. Questi, profondamente colpito dalla poesia, vi acclude, affidandole al narratore, anche tre lunghe lettere, che tre donne gli avevano scritte: la moglie, l'amante, e la figlia dell'amante. Ne esce il quadro (chiamarlo storia mi è un po' difficile) triste e nitido di un amore trascorso, mortale. E io qui riporto la poesia, perché mi ha un po', come dire, toccato.

 

Con una grossa pipa da marinaio in bocca,

gli stivali ai piedi,

e un setter che gli correva avanti,

l’uomo calpestava il terreno ghiacciato

salendo lento un sentiero erboso

sul monte Amagi, all’inizio d’inverno.

Venticinque cartucce nella cintura,

una giacca di pelle marrone bruciato,

e un fucile, un fucile da caccia,

un Churchill a doppia canna.

 

Cos’era a fare di lui un freddo guerriero,

armato d’acciaio bianco e splendente

per uccidere le creature?

In quel rapido incontro qualcosa

nell’alta figura del cacciatore di spalle

mi attrasse con forza inspiegabile.

 

Da quel giorno all’improvviso mi accade,

nelle stazioni delle città,

nelle strade affollate di notte,

di pensare: Ah, potessi camminare

anch’io come lui!

Con quel passo così lento, calmo,

freddo.

E ogni volta nei miei occhi chiusi

a fargli da sfondo non è il ghiacciato

paesaggio

del monte Amagi all’inizio d’inverno

ma il bianco alveo di un fiume desolato,

chissà dove.

Il suo fucile da caccia, lucido e splendente,

gli preme sul fianco

scavando nello spirito solitario, nella

carne solitaria

di quell’uomo di mezza età.

E una strana bellezza, umida di sangue,

emana da lui in quei momenti,

invisibile mentre punta il fucile sulle sue

prede.

 

 

 

17 giugno 2004

 

DUE LIBRI