DUE LIBRI, UNA PAGINA (41)

Letture di Fabio Brotto

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Un mondo a parte (1951, trad. it. G. Magi riveduta dall’aut., Feltrinelli, Milano 1994, 2003) è uno dei grandi libri sull’universo concentrazionario del totalitarismo novecentesco. Per intensità, durezza e altezza della scrittura sta con Levi, Solženicyn e Šalamov. In Italia è stato colpevolmente ignorato per decenni (anche in Francia, potenza dell’intellettualità filocomunista). Forse più ancora degli altri testi famosi, questo ha una misura ed un ritmo tali da farne un classico. Riporto un passo che riguarda la condizione delle donne nei lager sovietici.

A giudicare da quel che ho visto nel campo, gli uomini sop­portano la fame, sia fisica sia sessuale, molto meglio delle donne. Secondo gli elementari principi di etica del campo, coloro che giungevano a vincere la resistenza di una donna privandola del cibo, soddisfacevano i suoi due fondamentali bisogni, quando alla fine ella cedeva. Se, richiamando alla mente tutto ciò che è accaduto in Europa durante l’ultima guerra, si vuole intenderne il significato, occorre dimenticare i principi della morale corren­te nella seconda metà del XIX secolo e nelle prime decadi del XX, sui quali si fondava la vita dei nostri nonni e dei nostri padri: epoca quella che parve realizzare il mito positivistico del pro­gresso. Un marxista ortodosso direbbe che non esiste una mora­le in senso assoluto, perché l’esperienza individuale è condizionata dalle circostanze materiali: il che significa che ogni epoca, ogni paese e ogni classe sociale crea la morale propria, o che questi tre fattori uniti creano quella che potremmo chiamare la legge non scritta della condotta da seguire in determinate situa­zioni. Le esperienze degli ultimi vent’anni in Germania e nella Russia sovietica danno una notevole conferma a questa teoria. In questi due paesi si è sperimentato che, quando il fisico di un uomo ha raggiunto il limite estremo di resistenza, non si può più contare, come si riteneva prima, sulla forza di carattere e sul rispetto dei valori spirituali; non c’è nulla in realtà che l’uomo non possa esser indotto a fare dalla fame e dalla sofferenza fisi­ca. Questa “nuova morale” non è un codice di condotta onesta, poiché trova il suo fondamento nella convenienza delle azioni, e sebbene le sue zanne oggi siano cresciute aguzze e pericolose, le sue origini vanno riportate all’Inquisizione spagnola, che fece spuntare quei denti. Non dobbiamo respingere con leggerezza questo dato di fatto. L’antica morale della chiesa cattolica e la nuova morale del sistema sovietico hanno in comune la convin­zione fondamentale che l’uomo privo di fede — fede nel sistema rivelato dei valori spirituali nel primo caso, o nel sistema impo­sto dei valori materiali nel secondo — è un mucchio informe di rifiuti. La rivoluzione di Lysenko nel campo della genetica ha in­vertito radicalmente i principi basilari della chiesa cattolica. Per quest’ultima l’uomo si perde nel vortice del peccato e della dan­nazione se non viene salvato dalla luce della grazia soprannatu­rale; secondo il credo materialistico l’uomo è quello che foggia­no artificialmente le circostanze. Ma l’uno e l’altro sistema privano l’uomo della propria volontà; dalla formula adottata per stabilire la ragion d’essere di un uomo sulla terra, dipende se il mucchio dei rifiuti produrrà l’esemplare voluto dalla coltivazio­ne biologica, o il fiore benedetto dell’anima umana. Io non sono tra coloro che per l’esperienza degli orrori della guerra hanno fi­nito con l’ammettere la “nuova morale”, e nemmeno tra quelli che in tali orrori scorgono ancora una prova dell’impotenza umana di fronte al prevalere di Satana. Sono giunto al convinci­mento che l’uomo può essere umano solo in condizioni umane, e considero assurdo il giudicarlo severamente dalle azioni che egli compie in condizioni disumane, come sarebbe assurdo mi­surare l’acqua dal fuoco, e la terra dall’inferno. E la difficoltà, per uno scrittore che intenda descrivere obiettivamente un cam­po di lavoro sovietico, è ch’egli è costretto a scendere nelle profondità dell’inferno dove non è possibile trovare ragioni umane che spieghino azioni disumane. E di laggiù i volti dei suoi compagni morti e di quelli forse ancora in vita guardano a lui, e le loro labbra, livide di fame e di freddo, sussurrano: “Rac­conta tutta la verità su di noi, di’ che cosa siamo stati costretti a fare”.

In difesa delle donne va detto che la morale del campo, co­me ogni altro sistema di valori, aveva la sua ipocrisia. Così, per esempio, a nessuno sarebbe passato per la mente di biasimare un giovane se, per migliorare la sua situazione, diventava l’amante dell’anziana dottoressa dell’ospedale, ma la graziosa ra­gazza che si dava per fame al vecchio ripugnante addetto al de­posito del pane, era naturalmente una prostituta. Non furono mai considerate immorali le regolari denunzie mensili alla terza sezione alle quali quasi tutti i brigadieri e i periti tecnici ricorre­vano per fare le proprie vendette personali; ma una donna che lasciava di notte il recinto per andare a letto col comandante del campo era considerata una prostituta, e della peggior specie, per aver infranto la solidarietà dei prigionieri contro gli uomini libe­ri. Era normale che un prigioniero appena arrivato consegnasse al suo brigadiere gli ultimi resti dei suoi abiti borghesi per otte­nere una buona classifica di rendimento nel lavoro (su questa base si stabilivano le razioni quotidiane per ogni prigioniero); ma c’era chi si scandalizzava se una ragazza senza un soldo, cur­va sotto il peso di un’ascia nella foresta, dava a quello stesso bri­gadiere la prima o la seconda sera del suo arrivo nel campo l’unica proprietà terrena che le restasse: il suo corpo. Un prigio­niero colto in flagrante nell’atto di rubare il pane a un a1tro, sa­rebbe con ogni probabilità morto in conseguenza della punizio­ne inflittagli dagli urka”, che erano i supremi legislatori e giudi­ci della morale del campo; ma tra i polacchi c’era un certo prete che occultava la dignità pastorale sotto gli stracci di prigioniero e che per confessare e dare l’assoluzione fissava il prezzo di 200 grammi di pane (100 grammi di meno del vecchio uzbeco che leggeva la fortuna sulle mani), eppure viveva tra i suoi fedeli in odore di santità.

L’origine di questo fenomeno complesso e oscuro è nel desi­derio inconscio, che esiste in ogni vasta comunità, di esporre alla censura della “pubblica opinione” i trasgressori colti sul fatto, per poter imbiancare la propria coscienza a poco prezzo. Le donne si prestavano benissimo a servire da capri espiatori, non solo perché di rado avevano da vendere qualcos’altro che il pro­prio corpo, ma anche perché persino nel campo portavano su di sé il peso della morale convenzionale vigente nel mondo ester­no, secondo la quale l’uomo che possiede una donna dopo un breve corteggiamento è un brillante seduttore, ma la donna che si dà a un uomo appena conosciuto è di facili costumi. (p.151 sgg.)

 

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Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. Ho letto questo libro perché mi era stato detto che il protagonista del romanzo di Mark Haddon The Curious Incident of the Dog in the Night-Time (2003, trad. P. Novarese, Einaudi, Torino 2003) è un ragazzino autistico, affetto dalla Sindrome di Asperger. E, per avventura, io ho un figlio autistico. L’autismo è un disturbo generalizzato dello sviluppo psichico (probabilmente di origine genetica, comunque con una base organica: in ogni caso riguarda il funzionamento del cervello) sul quale si sa ancora molto poco. Certo è che tocca profondamente le sfere della percezione, della comunicazione e del linguaggio. Al soggetto autistico la realtà non appare come appare alle persone normali. E di autistici ce ne sono tanti, e sono assai diversi tra loro, e alcuni eccellono in particolari settori. Christopher, il protagonista del romanzo di Haddon, eccelle in matematica. La storia si presenta come un’indagine sulla morte violenta del cane di una vicina di casa, che il ragazzino trova ucciso con un forcone, di cui vuole scoprire il colpevole. È un’indagine svolta da un personaggio del quale non si potrebbe trovare uno meno adatto a svolgere un’indagine. Nei romanzi, di solito, il detective è un esperto di umanità, conosce gli altri, si sa addirittura calare nei panni dell’assassino, pensa o si sforza di pensare come lui. Christopher, invece, non sa affatto pensare come gli altri, e la sua differenza sta anzitutto nella sua essenza a-sociale (il suo desiderio profondo è quello di un mondo senza gli altri, ama gli animali come esseri non metaforizzanti, incapaci di “mentire”, mentre le persone comuni gli appaiono assurde, fondamentalmente irrazionali e antimatematiche.

Perché questo è il punto: per la mente di Christopher la matematica è il regno della pura ragione – e della sicurezza psicologica. Nella matematica la mente autistica trova la sua certezza. Ed è interessante il fatto che per il protagonista la matematica sia reale, sia la sostanza del mondo: tutto ciò che sfugge alla matematica è, in qualche misura, irreale, come tutto ciò che è metaforico. Christopher è scienziato, non poeta. La sua logica è rigorosa: eliminata ogni metafora, cade non solo la religione, ma anche la letteratura, le storielle, le barzellette, e risultano incomprensibili e assurdi anche molti divieti come, ad esempio, non calpestare l’erba. Della metafora il protagonista dice:

 

Credo che potrebbe anche essere definita una bugia, perché il cielo non si riesce a toccarlo con un dito e la gen­te non tiene gli scheletri nell’armadio. E quando mi con­centro e cerco di rappresentare nella mia testa frasi come queste non faccio altro che confondermi, perché immagi­nare qualcuno con dei diavoli attaccati ai capelli mi fa di­menticare di cosa sta parlando la persona che ho di fronte.

Il mio nome è una metafora. Significa colui che porta Cristo e deriva dal greco χριστος (che significa Gesù Cri­sto) e da φερειν, ed è il nome dato a san Cristoforo dopo aver trasportato Gesù Cristo dall’altra parte di un fiume.

Mi domando come si chiamasse prima di trasportare Cristo dall’altra parte del fiume. In realtà non veniva chia­mato in nessun modo perché si tratta di una storia apo­crifa, e quindi anche questa è una bugia.

Mia madre diceva sempre che Christopher era un bel no­me perché apparteneva a un uomo buono e gentile, ma io non voglio che il mio nome abbia niente a che fare con l’es­sere buoni e gentili. Voglio che il mio nome significhi me. (p. 22)

 

Al termine della narrazione, troviamo Christopher che deve sostenere un esame di matematica, durante il quale il supervisore, il Reverendo Peters, legge The Cost of Discipleship, un libro di Dietrich Bonhoeffer, il teologo tedesco che pagò con la morte nel lager la sua opposizione ad Hitler. Debbo confessare che il senso di questo particolare, se c’è, mi sfugge totalmente.

 

30 gennaio 2004-01-30

 

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