DUE LIBRI, UNA PAGINA (39)

Letture di Fabio Brotto

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Le ultime righe del romanzo di V.S. Naipaul Una vita a metà (Half a life, 2001, trad. it. F. Cavagnoli, Adelphi, Milano 2002) mi sembrano espressive di una condizione dell'esistenza che la letteratura occidentale ci dichiara da tempo: la condizione dei non riusciti, dei frustrati, degli incapaci di volere, di coloro che non potranno mai dire "confesso che ho vissuto" (la vita vera è altrove, quella che si vive è quella di un altro, sempre). Costoro, gli uomini vuoti, rappresentano la stragrande maggioranza dei personaggi della narrativa. Questo ritorno di Naipaul al romanzo dopo molti anni di altra scrittura non mi sembra molto riuscito; non mi sembra, in ogni caso, necessario. Se si tralascia la particolarità del rapporto alle proprie radici tipico di Naipaul, che qui però non è sostanziale, la introvabilità dell'ubi consistam, la impossibilità della realizzazione nell'amore, l'essere perennemente in fuga sono gli elementi sempre ritornanti nella letteratura alta dell'ultimo secolo. Non possono non esserci, non esser narrati e rinarrati, probabilmente, ma in questo romanzo lo sono stancamente.

Quando Ana venne in ospedale presi coraggio e le dissi che volevo divorziare.

Quando ritornò a trovarmi le dissi: "Ho quarantun anni. Sono stanco di vivere la tua vita".

"L'hai voluto tu, Willie. L'hai chiesto tu. Io ho dovuto pensarci".

"Lo so. Tu hai fatto tutto quello che potevi per me. Mi hai reso la vita facile. Senza di te non avrei mai potuto vivere qui. Quando ti chiesi di venire con te, a Londra, ero impaurito. Non sapevo dove andare. Alla fine del semestre mi avrebbero cacciato dal college e io non sapevo che cosa fare per rimanere a galla. Ma la parte migliore della vita è ormai alle mie spalle e io non ho fatto niente".

"Hai paura della nuova guerra".

"Anche se andiamo in Portogallo, anche se mi lasciano entrare, sarebbe comunque la tua vita. Mi sono nascosto per troppo tempo".

"Forse non è stata neppure veramente la mia vita " disse Ana. (231-232) 

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Giorno di silenzio a Tangeri di Tahar Ben Jelloun (Une journée de silence à Tanger, 1989, trad. it E. Volterrani, Einaudi, Torino 1994) è il ritratto di un vecchio - mi piace usare, anche per me stesso, questa parola oggi presso di noi rifiutata da tutti - alle soglie della morte. Un personaggio complesso, contraddittorio e affascinante proprio perché pienamente umano, con lati simpatici anche, ma pure con aspetti piuttosto scostanti. Una grande prova dei livelli cui può giungere Ben Jelloun quando controlla la sua eccessiva tendenza alla liricità, all'impasto linguistico da poeta, e si mantiene prosatore, romanziere creatore di caratteri. Riporto un brevissimo passo che parla degli ospizi.

Laggiù i vecchi li ricoverano in una casa pulita, con un piccolo giardino pulito e delle infermiere pulite. Da noi il personale di assistenza mastica chewing-gum e puzza di sudore. Al momento dell'iniezione, quando si china su di me, mi turo il naso. Da noi non sarebbe una casa di riposo, una casa de déscanso, ma un pollaio per vecchi stupidi ancora pieni di illusioni sul genere umano. Per fortuna che da noi i ricchi non hanno ancora scoperto il ricovero per anziani. Può darsi che sia per questo che i nostri cimiteri sono più belli di quelli degli Europei. Sono aperti come campi di grano selvatico. Generalmente si seppelliscono i morti in una collina che guarda verso la città. Si dice persino che i morti vegliano su di noi. Che sia una collina soleggiata e piantata ad ulivi, oppure un parking lastricato di marmo, la terra è la stessa. Ha lo stesso sapore, trattiene la stessa umidità, gli stessi insetti, gli stessi vermi e le stesse radici. Cosa importa il posto? Il sole non è che un'illusione. Provate a domandare alle pietre se preferiscono essere battute dalla pioggia o da un sole cocente. (90-91)

5 dicembre 2003

DUE LIBRI, UNA PAGINA