DUE LIBRI, UNA PAGINA (35)

Letture di Fabio Brotto

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È breve la misura di Laura Mancinelli narratrice. Lei stessa lo riconosce apertamente. I suoi romanzi sono di poche pagine. Leggiadri però e deliziosi, come i numerosi cibi che vi compaiono. In pochi autori come in Laura Mancinelli si trova il gusto della tavola, del cibo genuino, cucinato con amore, destinato alla convivialità, vero medium dell'amicizia tra gli umani. Legato ad una acuta coscienza del passare di tutte le cose, vissuta non con senso tragico ma con elegiaca tenerezza. Così non ci si può meravigliare del fatto che la (breve) autobiografia Andante con tenerezza (Einaudi, Torino 2002) cominci con la ricetta delle melanzane imbottite. La brevità della scrittura mancinelliana (poiché i suoi libri sono brevi e lievi) che si può apprezzare nelle sue storie pseudomedievali, come I dodici abati di Challant o Gli occhi dell'imperatore (e nei suoi pseudogialli, i tre Casi del capitano Flores), torna qui al meglio, in quanto spogliata da ogni gioco con la forma linguistica. La vita di Laura Mancinelli, dalla prima infanzia al presente segnato da una malattia che le impedisce di muoversi, è narrata in capitoletti veloci, in squarci che colgono non tanto degli eventi specifici - che pur son detti - quanto atmosfere affettive - spesso legate a paesaggi, urbani o rurali. Tu chiedi: perché si scrivono ancora libri come questo, che paiono lontani dallo spirito del tempo? E rispondi: perché si leggono ancora (con piacere).

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Il sorriso eterno di Pär Lagerkvist (1920, trad. it. G. Prampolini, Iperborea, Milano 1990) è un romanzo anomalo, in apparenza. Lagerkvist è uno di quegli atei usciti dal luteranesimo nordico che vivono drammaticamente l'impossibilità di un ritorno alla fede dei padri, e che anelano alla trascendenza, ad un luogo supremo di conciliazione. Qui la storia si svolge tra i morti. Come tutti i moderni, Lagerkvist non riesce a rappresentare in modo poeticamente convincente il mondo dei defunti, l'altro mondo. E qui abbiamo un aldilà spoglio, in cui i morti sono sospesi in una condizione larvale, o meglio appaiono fissati nel ricordo della vita che hanno vissuto. Siedono nel buio, metafora del nulla, però parlano, sebbene paiano non ascoltarsi l'un l'altro per davvero. Ad un certo punto decidono di alzarsi e partire alla ricerca di Dio (che il traduttore, chissà perché scrive con l'iniziale minuscola). Camminano per un tempo lunghissimo, in folla innumerabile (dunque agiscono, e il tempo esiste per loro - filosoficamente parlando, il romanzo non sta in piedi). Infine trovano Dio. È un vecchio lavoratore manuale, immagine di demiurgo stanco e vecchio ma ancora valido e attivo, che risponde alle disperate richieste dei morti con dei ripetuti "sono un uomo semplice", "ho fatto meglio che ho potuto". Secondo Claudio Magris, che scrive la prefazione, il dialogo tra questo Dio e la massa dei morti è la cosa più poetica del romanzo. Sarà. A me pare un'immagine assai debole, come la consolazione finale dei morti appare sospesa sul nulla. Ma forse il far risaltare l'impotenza del divino, e della narrazione moderna del divino, che non può che farlo coincidere con l'umano, era un obiettivo di Lagerkvist. Ai miei occhi il romanzo è un romanzo fallito, e il suo fallimento è determinato anzitutto dal voler rappresentare Dio, mantenendo nel contempo un tono generale serio, tra l'elegiaco e il tragico, mentre il Dio rappresentato in quanto tale tende piuttosto al comico. Quindi, in fondo il romanzo tanto anomalo non è.

3 luglio 2003

DUE LIBRI