DUE LIBRI, UNA PAGINA (33)

Letture di Fabio Brotto

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Avevo letto, di Knut Hamsun, solo Fame, nel 1979 nell'edizione Adelphi - me l'aveva regalato una ragazza, ahi giovinezza tempo delle occasioni perdute - e non mi era piaciuto affatto. Il personaggio protagonista, anzi unico agonista, l'avevo trovato insopportabile, addirittura disumano. Solitamente, quando un autore mi dispiace al primo incontro non lo frequento più, e così è accaduto con Hamsun, nonostante le pagine di Claudio Magris su di lui mi avessero tentato, tempo addietro. Poi, qualche anno fa, mi sono imbattuto nel bel libro di Per Olov Enquist Processo a Hamsun (sottotitolo Un racconto per film, si tratta della sceneggiatura scritta da Enquist per il film Hamsun di Jean Troell presentato a Venezia nel 1996 - Iperborea, Milano 1996) e mi sono trovato di fronte ad un ritratto bellissimo di questo vecchio scrittore processato per tradimento della sua patria, la Norvegia, e collaborazionismo con l'invasore nazista. Un libro, quello di Enquist, mosso da una pietà umana controllata ma proprio per questo persuasiva e affascinante, nei confronti di un uomo il cui unico titolo per meritarla è la vecchiezza, il suo stare ancora fisicamente vigoroso sul limite della vita. Ora nel giro di tre giorni, avendo ancora in bocca il sapore delle pagine di Enquist, ho letto Pan (1894, trad.it. F. Ferrari, Adelphi, Milano 2001), La regina di Saba (1897, trad.it. G. Paterniti, Iperborea, Milano 1999) e Per i sentieri dove cresce l'erba (1948, trad.it. M.V. D'Avino, Fazi Editore, Roma 1997). Pan, Fame, e Per i sentieri dove cresce l'erba sono considerati capolavori di Hamsun. Se una narrazione, per essere ancora viva, non si deve limitare ad essere testimonianza di una cultura, a fornire ad es. informazioni su modi di intendere vita e letteratura in certi ambienti nordico-germanici di fine Ottocento, ma deve comunicare al lettore una vita di entità fittizie - i personaggi - che ci appaia nella lettura vivissima e interessante, allora devo dire che i libri di Hamsun mi lasciano freddino. Prendiamo Pan: Thomas Glahn, voce narrante del diario che costituisce il corpus del libro e suo protagonista, è l'instabile vagabondo hamsuniano di tutti i libri di Hamsun: sradicato, senza misura, estraneo alla civiltà borghese e anarcoide, incapace di amare una donna, incapace di amare veramente anche la natura - non scherziamo, spara a tutti gli uccelli, anche ad un'aquila, non è nemmeno un vero cacciatore ( e questo mi fa davvero arrabbiare), uccide il suo fedele cane da caccia e ne manda il cadavere alla ragazza cui lo ha promesso in dono (vivo). Una bestia, un imbecille che se non morisse prematuramente ammazzato da un rivale sarebbe già pronto per diventare da vecchio un accolito dei nazisti, come - non c'è da sorprendersi a posteriori leggendone i libri - divenne a suo tempo il suo povero creatore.

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Credo di aver capito che cosa mi attira nei libri scritti da persone dalla vita lunga, che hanno attraversato i loro secoli: mi interessano le lunghe parabole di esistenze che molto hanno conosciuto, che molto hanno visto, che molto hanno capito (non al modo di Hamsun, ma a quello di un Julien Green o di un Nagib Mahfuz). Mi interessa vedere come e in che cosa si muta un uomo, maturando fino agli anni tardi. Insomma, mi interessano coloro che sono diventati vecchi saggi, che sono diventati quello che ogni essere umano dovrebbe diventare se il Cielo gli donasse una lunga vita. Per questo, anche, mi piace leggere tutti i libri di un autore. Non che soffra di biografismo ingenuo: so che tra la vita e l'opera non c'è identità. Non c'è neppure estraneità, però, e in ogni caso i libri di un saggio non sono come i libri di uno stolto. Uno dei grandi errori dell'Occidente è stato quello di separare etica e arte. Un altro è stato quello di imporre all'arte delle etiche forzate. Etica e arte devono stare in un rapporto dialettico. Ma la cultura nel suo assieme, non che l'arte, non è vaccino contro le mostruosità della politica, ché altrimenti non avremmo avuto lezioni di letteratura a quattro passi dai forni crematori in azione. La cultura ha dimostrato nel paese più colto d'Europa di non essere un antidoto al Male.

C'è qualcosa di soffocante in Miramar di Nagib Mahfuz (1967, trad. it. I. Camera d'Afflitto, Edizioni Lavoro, Roma 2002). Sarà forse l'ambiente in cui si svolge la vicenda, la piccola pensione il cui nome dà il titolo, gestita da una ex tenutaria di bordello greca ad Alesssandria d'Egitto; sarà forse il fatto che la vicenda è narrata quattro volte in quattro versioni differenti attraverso le voci di quattro diversi pensionanti, di cui uno solo è vicino in spirito all'autore; sarà forse il fatto che la vigilia della disastrosa Guerra dei Sei Giorni determina un clima particolarmente allucinato, anche se nel romanzo non è presente alcuna diretta allusione al conflitto con Israele. In ogni caso, il tema della perenne frustrazione egiziana e araba mi sembra qui svolto con arte sottile. Mahfuz è un autore sobrio e umanamente ricco, che riesce a dar voce allo squallore di esistenze sostanzialmente fallite. Questa pensione protesa sul mare nella città più cosmopolita d'Egitto, con le sue poche stanze in cui i rapporti umani non riescono ad essere sani ed esplodono nel conflitto, mi sembra una metafora della vita dell'Egitto moderno, con le sue velleità di modernizzazione e di grande politica internazionale e il suo ricadere nelle povertà e negli estremismi.

 

16 maggio 2003

 

DUE LIBRI