DUE LIBRI, UNA PAGINA (31)

Letture di Fabio Brotto

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Non è un testo nuovo, questo Religion and Empire (che reca il sottotitolo The dynamics of Aztec and Inca expansionism e viene continuamente ristampato dalla Cambridge University Press, io ho in mano l'edizione del 2001) di Geoffrey Conrad ed Arthur Demarest. È un testo del 1984, e non mi risulta che sia mai stato tradotto in italiano, ma forse mi sbaglio. Vi sono giunto a causa del mio interesse per la pratica religiosa del sacrificio, nata in anni ormai lontani dalla lettura di Homo necans di Burkert e de La violenza e il sacro di Girard. Gli Aztechi--o più precisamente i Mexica--sono stati il popolo sacrificale per eccellenza, e hanno espresso anche--credo--la struttura statale più lontana dalla mentalità occidentale, insieme agli Incas. Due grandi stati creati nel giro di pochissimi anni, e già in crisi quando arrivarono i conquistadores di Cortés e Pizarro. Due stati con due ideologie religioso-politiche che, secondo Conrad e Demarest, devono essere assolutamente tenute ben presenti da chi voglia comprendere come Aztechi e Incas si siano potuti espandere in un modo così fulmineo e virulento.

Conrad e Demarest sono fautori di un approccio olistico allo studio delle civiltà antiche, un approccio per cui bisogna tendere ad una comprensione dell'insieme, e non si può di conseguenza prescindere dai moventi delle azioni di quei popoli. Moventi che sono prevalentemente religiosi, ove la religione non sia concepita nel modo occidentale moderno, ovviamente, ovvero come una sfera privata tra le tante sfere. Il nemico fondamentale dei due autori è l'impostazione organicistica che vede il popolo come appunto un organismo, e valuta i suoi comportamenti e le sue istituzioni come risposte ai bisogni dell'intero, della collettività intesa come un insieme onnicomprensivo. Nella sfera dell'umano, secondo Conrad e Demarest, bisogna invece tener conto di un vasto numero di fattori, tra cui gli interessi immediati di singoli gruppi e di singoli individui. Ad esempio, nell'impero inca è evidente il conflitto di interessi tra le corti dei re morti (che continuano ad esistere come corti, con tanto di cerimoniali, visite della mummia del padre morto a quella del figlio morto nel palazzo di quest'ultimo e viceversa, possedimenti terrieri dei re morti, con tasse, rendite, ecc. ecc.) e la corte dell'unico re vivente, che quindi è spinto ad una politica imperialistica dalla necessità di procurarsi rendite adeguate, fino al prevedibile collasso finale di un impero la cui ideologia è insieme la sua forza e la sua debolezza.

L'ideologia politico-religiosa degli Aztechi è una delle costruzioni umane più affascinanti e terribili. È a tal punto fondata sull'idea di guerra che anche le donne morte di parto sono assimilate ai guerrieri morti e fatte assurgere al corteggio del dio Huitzilopochtli (il Sole). Che, come è noto, per rimanere forte e sconfiggere sempre di nuovo la Notte, necessita di sangue, di sangue eletto, del sangue dei guerrieri. Da cui le guerre, fatte per procurarsi prigionieri da sacrificare nei celebri rituali sui templi a gradinate. Con un risvolto decisamente anti-economico: i maschi validi che venivano massicciamente sacrificati--e mangiati dall'élite guerriera dei Mexica--avrebbero potuto garantire come pagatori di tasse e tributi un elevato apporto di cibo. Potenza dell'ideologia!

A proposito, siccome gli Occidentali sono sempre gli arci-cattivi, qualche autore ha sostenuto che i sacrifici di massa sono un'invenzione dell'Inquisizione spagnola, ignorando la ricchissima documentazione scientifica: potenza dell'ideologia! D'altra parte io stesso ho udito uno stimatissimo collega sostenere che le vittime dei sacrifici mesoamericani erano volontarie, convinte di passare mediante il sacrificio ad uno stadio di vita più elevato. Perché--ovviamente--il livello spirituale dei precolombiani è da intendersi a priori come superiore a quello degli Occidentali. Ove non si capisce, perché, allora, dovrei condannare l'Inquisizione. Forse che il livello spirituale di Torquemada è inferiore al mio? Potenza dell'ideologia!

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Hanno qualcosa di gotico i racconti di Gustaw Herling raccolti (in numero di sette, come è giusto) in un volumetto dal titolo Don Ildebrando (Feltrinelli, Milano 1999). La loro genesi è particolare: sono infatti come germinati dal grande corpo del Diario scritto di notte, di cui al n.15 di DUE LIBRI. Il male ne è il soggetto, nel duplice senso di argomento e attore delle vicende narrate. Il male, di cui al n.22 di DUE LIBRI, è per Herling una presenza costante e solida nelle vicende umane, e qui si esprime in forme diverse, dalla saga familiare diabolica di Don Ildebrando (che dà il titolo alla raccolta), all'ossessione ispirata a Poe di Polvere, alla soffocante sequenza di morti di Ferragosto, per me il racconto più bello, che si conclude con la frase che qui riporto. Per me il Ferragosto è stato, è e sarà, finché esisterà il mondo, il momento della crisi della nostra vita con la nostra morte. (p.149)

12 aprile 2003

DUE LIBRI