DUE LIBRI, UNA PAGINA (29)

Letture di Fabio Brotto

brottof@libero.it

http://www.bibliosofia.net/ 

 

Conobbi Sergio Quinzio nel 1985, a Venezia, dove allora vivevo, in occasione di una conferenza nella quale parlò del suo ultimo libro La croce e il nulla. Lo conobbi personalmente, perché dopo la conferenza Quinzio cenò in casa di amici, e ricordo bene la conversazione - cui partecipò Mario Cantilena, che con lo scrittore aveva avuto un rapporto epistolare - per le calli, mentre lo accompagnavamo all'albergo. Mi fece una profonda impressione, quella di una fede cristiana terribilmente urgente, assolutamente drammatica, impossibile. La ritrovo in questo Misterium iniquitatis (Adelphi, Milano 1995), il suo testamento spirituale, che leggo soltanto ora. Quinzio si professava un semplice credente, diceva di non essere un teologo o un filosofo. Pure, il suo modo di trattare la Scrittura e la Tradizione mostra conoscenza profonda, penetrazione dei problemi. Per lui, il problema è uno solo: il non adempimento della promessa cristiana, il crescente allontanamento del mondo da Dio, della Chiesa dalla sua missione. Questa era ed è anzitutto l'annuncio della resurrezione dei morti, che non c'è stata, che deve essere attesa, ma non può. Tanto che la Chiesa programma un Terzo Millennio, ecc., poiché non avverte affatto come imminente la venuta finale della giustizia di Dio. Essa ha rinunciato ad essere apocalittica, cioè ha fallito, perché cristiano e apocalittico sono una cosa sola. Per Quinzio, una Chiesa che non viva entro un'escatologia conseguente non è veramente cristiana, e se non è veramente cristiana, è anticristica. Alle pagine 76-77 leggiamo:

Tutto spinge ad applicare alla figura di Giacomo quello che Paolo dice dell'anticristo, il quale siede nel tempio di Dio additando se stesso come Dio ("ostendens se tamquam sit Deus", dice il testo latino con maggiore aderenza all'originale greco). La sua oggettiva apostasia dalla vera fede, e quindi la sua religiosa empietà, consisteva agli occhi di Paolo, come s'è detto, nel fatto di affermare la necessaria continuità dell'ordine sacro. Dopo la venuta del Messia ciò equivaleva a negare il carattere ultimo e decisivo della sua venuta. Il permanere, o il rinnovarsi, dell'ordine sacro sancisce ancora una volta la separazione tra sacro e profano, tra Dio e uomo, in definitiva dunque l'inefficacia salvifica dell'incarnazione e della croce. La cosiddetta "eresia giudaizzante" consisteva in questo, non solo per Paolo ma per l'Apocalisse (cfr. Ap 2, 9).

Ma se la Chiesa ha rinnovato l'ordine sacro costituendosi come ambito del non profano, ed entrando in dialettica anzitutto interna fin dalle origini con l'opposizione tra Paolo (superamento del sacro) e Giacomo (restaurazione del sacro in forma nuova), e poi esterna col Moderno che essa stessa nella sua componente demitizzante ha generato, in che cosa l'apostasia anticristica del Cristianesimo si differenzia dalla caduta sacrificale di cui parla René Girard? In nulla, poiché qualsiasi ordine sacro si fonda sul sacrificio, nasce dal sacrificio e ad esso continuamente ritorna. Il suo rapporto con la violenza è ambivalente. La Chiesa nei suoi duemila anni di storia è ritornata al sacrificale in continuazione, ma anche vi si è opposta, perché Cristo e anticristo sono nel suo seno, in conflitto perenne. L'Occidente moderno ha voluto vedere nella Chiesa il sacro, e non ha visto invece che in essa è anche la critica più profonda del sacro, la sua radicale dissoluzione. Non ha colto l'antinomia che è nella Chiesa stessa, e che prima era nella Bibbia. Così la contemporaneità amorale e anomista dell'Occidente a sua volta pare antisacrale, mentre cova in sé il sacro nelle sue forme più violente, e lo manifesta in tutti i modi. Poiché il sacro è polimorfo, ma produce sempre da un lato culti ed idoli, dall'altra sacrifici e vittime. Il Novecento, secolo dei massacri, ha portato al parossismo la tendenza umana all'iniquità, con un mare di violenze e di sofferenze inaudito. Quinzio, toccato dall'esperienza della sofferenza umana fin nelle midolla, sa che essa supera la misura del male eticamente inteso, e che l'iniquità che si esprime nel Misterium iniquitatis non è razionalizzabile. È appunto un mysterium di cui i preti, dediti all'umano troppo umano, non amano parlare, che i teologi annacquano nell'erudizione. Un mysterium di fronte al quale Quinzio ha cristianamente vissuto.

 

* * * * * *

 

 Credere e non credere è il titolo italiano (il Mulino, Bologna 1993) di un libro apparso in inglese nel 1970 col titolo The Paradox of History, e tradotto in Italia nell'anno successivo. In esso Nicola Chiaromonte scrive del problema del senso della storia, investigandolo attraverso la prospettiva di alcuni romanzieri: Stendhal, Tolstoj, Martin du Gard, Malraux, Pasternak. Autori molto diversi tra loro, ma che in comune hanno la questione del rapporto tra il singolo individuo - e il suo senso dell'esistenza, il suo problema del significato della vita - e la grande storia, che rivela la sua inafferrabile alterità soprattutto nella guerra. Da un lato l'individuo, dall'altro la rete degli eventi, piccoli, infinitesimi, grandi, massimi, che nessuno può vedere tutta, perché l'uomo non è Dio. Sì che esaminare i grandi eventi ricercando cause, leggi storiche, ecc., non può che portare ad abbagli, a fraintendimenti, a falsa coscienza, a ideologia, e infine alla totale fuoriuscita dalla verità. Quante battaglie sono state decise da variabili imprevedibili, come la pioggia a Waterloo? Nella sconfitta finale di Trotzkij quanto contò la caccia alle anatre in cui si buscò quel raffreddore che gli impedì di partecipare a quella riunione? [ A proposito: Lenin andava a caccia, come Trotzkij e come Bucharin, quasi quasi mi sono simpatici]. Non si può dire, per difetto di visione. Chi azzarda giudizi sicuri in questo campo pecca di hybris. Peccato essenziale del Novecento, il secolo della falsificazione ideologica a tutti i livelli, il secolo in cui tutti sentenziano a partire dalla loro sicura individuazione delle cause di questo e di quello.

Nell'agire, non abbiamo altra guida tranne ciò che crediamo gli uni degli altri e del mondo in cui viviamo. Napoleone, Kutuzov, l'ultimo dei loro soldati, l'uomo più geniale come il più mediocre, il più lucido e raziocinante come il più sciocco, nessuno può mai oltrepassare il limite che, all'ultimo, fa di ogni sapere un semplice credere, di ogni azione un colpo di dadi a rischio di se stessi e d'altrui. Nel campo degli eventi umani, la nozione di causa non ha senso.

Questo è il limite che rende così stolta l'arroganza dei potenti. (57)

 

11 marzo 2003 

 DUE LIBRI