DUE LIBRI, UNA PAGINA (23)

Letture di Fabio Brotto

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 La lettura di Cristina Campo rappresenta per me un'esperienza singolare e, per così dire, ambivalente. Da un lato avverto il fascino di quest'esistenza nascosta, di questa sensibilità eccezionalmente acuta, di questa tensione alla purezza e alla bellezza assolute, di questa straordinaria ricchezza di letture, di questa capacità di pensare contro il proprio tempo. Dall'altro mi sgomenta questo stesso fare della bellezza il centro assoluto della vita, e della religione. È il modo di vivere la religione della Campo, è il suo modo di vivere e pensare il cattolicesimo, che mi dà travaglio. Mi sembra di essere rigettato in quel modo di sperimentare la fede che ho conosciuto negli anni 1950: forte identità, opposizione al nemico (rappresentato, più che dai comunisti, dai protestanti), ossessione della purezza (anzitutto in ambito sessuale, se non soltanto in questo), lotta contro il demonio, incensi e funzioni in latino. Sono la liturgia e il rito le cose belle per eccellenza, secondo Cristina Campo, che vive il passaggio dal latino al volgare nella messa come una tragedia spirituale tremenda, poiché … il paesaggio, il linguaggio, il mito e il rito, che sono i quattro elementi della felicità, sono oggi diventati i quattro bersagli dell'odio concentrato dell'occidente (p. 215 di Sotto falso nome, Adelphi, Milano 1998). In questo libro, che raccoglie testi vari composti in occasioni diversissime, pubblicati sotto pseudonimi diversi, mi sembrano particolarmente interessanti due elementi: la critica, se così si può definirla, a Simone Weil, che peraltro è un suo nume tutelare, perché non si sarebbe sufficientemente slegata dall'illuminismo delle sue origini (Alain) e non avrebbe letto abbastanza, anzi quasi nulla, dei grandi maestri spirituali della Chiesa, non avendone peraltro uno vivente adeguato a lei; e perché sarebbe stata, in fondo in fondo, troppo orgogliosa, troppo convinta di una propria autosufficienza spirituale. E però nella Campo, la cui tensione alla perfezione dell'anima cosparge i suoi testi di perle di rara bellezza, mi sembra mancare la rivelazione dell'orrore della croce, l'elemento tragico dostoevskiano, senza il quale il cristianesimo rischia di apparire come una declinazione del religioso e del sacro, una delle possibili. 

 

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Pensare il sessantotto. È realmente possibile, oggi? Non lo so. È quello che cerca di fare Alberto Biuso nello stimolante saggio-pamphlet Contro il sessantotto (Guida, Napoli 1998). Il libro è bello perché fa pensare, e se non si pensa il sessantotto, si penseranno altre cose. Biuso vede il '68 come un punto di snodo fondamentale, ineludibile da chi voglia comprendere il nostro presente, e pronuncia su di esso un giudizio pesantemente negativo. Il '68 è il padre di tutte le nefandezze successive: dalla TV onnivora e oppiacea alla politica-spettacolo, dalla dequalificazione della scuola - sulla quale Biuso ha parole di cui condivido ogni iota - al terrorismo, ecc. Se molti giudizi di Biuso mi sembrano condivisibili, come, per restare nella scuola, quello sugli effetti devastanti della Lettera ad una professoressa, è sulle cause profonde dei fenomeni che le tesi di Biuso mi sembrano problematiche. Egli infatti si concentra sul sessantotto italiano, e lo isola e lo tratta in sé, semmai collegando la crisi generalizzata del quadro culturale e dei costumi italici a fenomeni di portata amplissima, come l'affermarsi nella contemporaneità dell'uomo-massa, verso il quale egli esprime un disprezzo nietzscheano, accennando soltanto ai nessi che uniscono la protesta - anzi, la contestazione, come si diceva allora - giovanile italiana a quella dei giovani degli altri paesi industrializzati dell'Occidente. Biuso è certamente assai acuto, soprattutto nell'individuazione in Rousseau del padre di tutti i sommovimenti degli ultimi due secoli, ma per il mio sentire è troppo legato a Nietzsche e a tutta una tradizione illuministica - laicistica di anticristianesimo radicale. Alla radice di tutto il male di cui gronda l'ultimo secolo, infatti, egli pone l'enfasi posta dal cristianesimo sull'eguaglianza tra gli umani e sulla giustizia. Su questo punto in particolare la raffinatezza del suo pensiero, come avviene in tutti i laicisti di qualsiasi ascendenza culturale, lascia il campo a quella grossezza che in altri egli aborre: dimenticando di rilevare, ad esempio, che se don Milani nella Chiesa era isolato un motivo doveva pur esserci, e che la Chiesa non si presenta come egualitaria, ma come gerarchica (nemmeno il Paradiso è egualitario in senso sociale). D'altra parte, Biuso afferma perentoriamente l'ineguaglianza come principio che sorge dalla stessa biologia, e che non si può negare, pena le più atroci distorsioni nella vita sociale. Ma la biologia è un logos sul bios, un discorso sulla vita degli enti che nasce appunto come logos umano, è una realtà comunque culturalmente determinata. Biuso poi usa frequentemente il termine male. Gli si può ribattere che, in mancanza di una loro fondazione trascendente, il Bene come il Male sono lì dove ciascuno li pone, sono soggettivi, o determinati dalla società e quindi oggettivi solo in quanto inter-relazione: sempre contestabili, quindi, nella loro determinazione, da qualsiasi soggetto dica dostoevskianamente: io non ci sto.

Infine, mi pare che Biuso dovrebbe riflettere sulla reciprocità, sul mutuo riconoscimento della comune essenza umana, come ciò in cui soltanto siamo eguali, come possibile via d'uscita dall'opposizione eguaglianza-ineguaglianza che ha tormentato la storia dell'umanità. Solo un'antropologia che si occupi della generazione dell'umano, e della mimesi che sta al suo inizio, e quindi fondi quella radicale differenza dell'umano dall'animale che Biuso nega, può giungere alla soluzione del problema.

 

 

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