DUE LIBRI, UNA PAGINA (22)

Letture di Fabio Brotto

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L'ancora del mediterraneo ha pubblicato, nel 2000, un dialogo tra Gustaw Herling ed Édith de la Héronnière, dal titolo Conversazione sul male. Ne riporto l'inizio.

Come intende cominciare?

Vorrei cominciare da un racconto. Durante l'estate dello scorso anno è venuto da me un giovane studente del seminario religioso superiore della città polacca di Pelplin, per una breve intervista. Avendo letto alcuni miei libri, era interessato al mio atteggiamento in rapporto al Male. Secondo lui, giovane seminarista, il Male può essere definito come l'assenza del Bene. Questo punto di vista è estremamente diffuso tra i cattolici, per i quali il Male è semplicemente mancanza del Bene, una specie di disordine causato da rapporti non corretti, non precisi tra gli elementi del Bene. Il Male, cioè, ha origine da una disposizione irregolare degli elementi del Bene.

Il mio punto di vista a tal proposito è profondamente diverso. Sono manicheo. Sono del parere che il Male esista in modo immanente, come un fenomeno specifico, non riducibile dunque all'assenza del Bene, bensì dotato di una realtà propria e indipendente.

A tal riguardo vorrei citare, dalla prefazione di Krzysztof Pomian all'edizione francese del mio Diario scritto di notte, un passo particolarmente significativo: "La sensibilità di Herling è manichea, e tale è la metafisica sottesa alla sua opera. Ma il manicheismo non è certo un culto del Male. Esso ammette l'esistenza di due principi nettamente distinti, il cui scontro riempie la storia del mondo, del Bene e del Male, della Luce e delle Tenebre".

Questa posizione, oltretutto, non è solo mia personale. Anche Simone Weil la condivideva, come testimonia questo brano tratto dalla Lettera a un religioso: "Per quello che posso capire non c'è vera differenza, se non nelle modalità espressive, tra la concezione manichea e quella cristiana nel rapporto tra il Bene e il Male. La tradizione manichea, se studiata con sufficiente pietà e attenzione, è una di quelle in cui si può esser certi di trovare la verità".

Preparando questa nostra conversazione ho approfondito l'argomento consultando dei testi, concentrando particolarmente l'attenzione su due volumi. Il primo è un'antologia polacca, La filosofia del male, nella quale sono raccolti brani di tre autori francesi, Jean Nabert, Gabriel Marcel e Paul Ricoeur. Il secondo libro che ho letto, o che piuttosto ho cercato di leggere, è quello di uno studioso polacco di filosofia, Cezary Wodzinski, che s'intitola Heidegger e il problema del male. Nel primo volume, l'antologia dei tre filosofi, soltanto Marcel, a mio avviso, ha compreso veramente cosa è essenziale nel fenomeno del Male. Infatti egli è l'unico a impiegare la parola "mistero" a proposito del Male, che non è generalmente utilizzata per un'ovvia ragione, poiché se il Male è semplicemente assenza del Bene, non è un mistero.

Solo di recente, all'interno dell'ambiente ecclesiastico, questa espressione sta conoscendo una certa diffusione, cosa che apprezzo. Molto spesso parla di "mistero del Male" l'arcivescovo di Milano, il cardinale Martini, e anche il teologo laico italiano, il biblista Sergio Quinzio, ha scritto un libro che prefigura il cristianesimo del futuro. In questo libro si racconta che l'ultimo papa della storia, il quale prenderà il nome di Pietro II - fatto che indica la fine del cristianesimo -, pubblicherà due encicliche, una delle quali si chiamerà Il mistero dell'iniquità, che di fatto significa il "mistero del Male". Così oggigiorno si assiste sempre più spesso all'impiego della parola "mistero" a proposito del Male.

Pur non negando una predilezione per Marcel, un filosofo esistenzialista cristiano, non intendo sottovalutare Nabert e Ricoeur. Tutti e tre hanno sottolineato l'inesprimibilità del Male, il suo sottrarsi alla dicibilità. Nabert, per esempio, sostiene che è una chose injustifiable, perché se fosse giustificabile non sarebbe il Male. È dunque connaturato al fenomeno il fatto che nessuna parola riesca a esprimerlo. Da parte sua, Ricoeur definisce il Male come una sorta di sacrum negativo. Anche Marcel parla del sacro, ma considera il Male il risultato della scomparsa del sacrum nella nostra vita moderna. Secondo lui, è questa la ragione della diffusione inarrestabile del Male. Marcel aggiunge che l'assenza del sacrum rende tragico il mondo, lo costringe a un'esistenza di paura: "Les hommes sont contre l'humain".

Particolarmente rilevante è la riflessione che Ricoeur pone a corollario delle sue tesi: c'è qualcosa di radicale nel Male, qualcosa di assolutamente indipendente, assurda, inspiegabile. L'unica sua possibile modalità di espressione è rappresentata - e sono perfettamente d'accordo con lui - dall'arte, in virtù della quale esso diviene un tremendum fascinosum.

 

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Nella mia ricerca ho notato che grandi pensatori e i loro seguaci tendono ad operare in un ingiustificabile isolamento gli uni dagli altri. Barth fa dei commenti su Kierkegaard che rivelano, a volte, una carenza di lettura accurata e di interpretazione; egli probabilmente non ha mai letto nulla di Voegelin. Voegelin raramente fa qualche menzione di Kierkegaard o Barth e molto probabilmente non ha letto nulla di Girard. Girard raramente cita Kierkegaard o Barth e molto probabilmente non ha letto nulla di Voegelin. Trovo questa situazione frustrante e sconcertante, un fallimento dell'erudizione su certi punti capitali ove esiste la più grande potenzialità di dialogo e di reciproca fecondazione. Superare questo ingiustificabile isolamento, e portare questi pensatori a dialogare tra loro è per me un obiettivo primario.

Scrive così Charles Bellinger nell'introduzione (p.11) al suo The Genealogy of Violence, che ha come sottotitolo Reflections on Creation, Freedom and Evil (Oxford University Press, New York, 2001). Bellinger cerca di vedere Kierkegaard in una nuova luce, tale che possa rendere sensata una sua interazione, per così dire, con René Girard. Coordinando la teoria girardiana della dimensione orizzontale del desiderio e del capro espiatorio con la visione kierkegaardiana della dimensione verticale dell'esistenza in relazione con Dio, Bellinger pensa di poter formulare una teoria teologica delle radici della violenza. La cosa più interessante, tra le tante interessanti, che ho trovato in questo libro è il parallelo tra due pensatori in apparenza così diversi come Girard e Kierkegaard nel concetto di una Caduta del Cristianesimo: nella logica sacrificale, secondo Girard, nella Cristianità borghese secondo Kierkegaard: entrambi i pensatori secondo Bellinger sono qualificabili come "anabattisti", in quanto il cristianesimo per risorgere deve tornare all'origine, e l'origine è l'Evangelo di Gesù Cristo.

La teoria psicologica di Girard comincia con la percezione di una manchevolezza esistenziale, il motore che spinge il desiderio mimetico e la rivalità. Ma perché gli esseri umani hanno questa percezione di manchevolezza? Questo è il genere di domanda fondamentale cui la scienza sociale "empirica" non può rispondere, proprio come una scienza fisica "empirica" non può dire che cosa abbia preceduto il Big Bang. Il pensiero di Kierkegaard suggerisce una risposta teologica a questa domanda. Noi abbiamo questa percezione di manchevolezza perché siamo creature la cui creazione non è terminata. Siamo immaturi. Non siamo ancora arrivati al telos della nostra esistenza. Siamo implicati nel processo della creazione, che è in corso. In questa prospettiva di fondo, il pensiero di Kierkegaard mostra come la teoria secolare e orizzontale di Girard possa essere sviluppata fino al più profondo livello di intuizione teologica. (p.74)

 

26 ottobre 2002

 

A DUE LIBRI