DUE LIBRI, UNA PAGINA (21)

Letture di Fabio Brotto

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Le proporzioni colossali di un romanzo non bastano a tenermene lontano, eppure per anni avevo differito la lettura de Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli. Non so perché. Preso il coraggio a due mani, quest'estate l'ho letto dalla prima all'ultima delle sue 2090 (circa) pagine (Oscar classici della Mondadori). E' stato uno sforzo notevole, con un che di ascetico da parte mia. Che dirne? Questo romanzo è la mimesi del Po, scorre lento e lutulento, con morte gore e repentine esondazioni, e appare in tutti i sensi tardo, pre-critico per così dire. Forse il suo fascino sta anche qui.

Di tutte le digressioni storiche in cui Bacchelli s'impelaga mi resta il senso della precarietà dell'Italia unita, della marea di ingiustizie che hanno seguito l'unificazione, segnando forse per sempre il carattere della nazione. Ed è interessante, al proposito, la descrizione bacchelliana della lotta tra i mugnai fluviali e la guardia di finanza al tempo della tassa sul macinato, con l'applicazione alle macine di strumenti misuratori del numero dei giri, su cui si sarebbero calcolate le imposte dovute, e le forme di boicottaggio e di evasione fiscale: eterno problema italico.

Nel Mulino del Po non mancano certo le scene grandiose, in cinemascope, di catastrofi storiche e naturali. Le scene iniziali, della campagna napoleonica di Russia sono potenti, l'espediente del satanico dono del capitano Maurelio Mazzacorati al protagonista Lazzaro Scacerni sta tra un certo Balzac e il Rovani di Cento anni. Lazzaro Scacerni mi piace molto, as a character, anche perché ama la caccia ai beccaccini, ma il suo personaggio non è per nulla novecentesco: è, in sostanza, tutto d'un pezzo, e il suo dissidio morale è legato ad un'idea assai tradizionale di peccato. Ci sono poi i cattivi-cattivi, dei veri villains, come il figlio dello stesso Scacerni, tutti brutti e ripugnanti anche nel fisico.

Questo Guerra e pace all'italiana, senza i personaggi complessi di Tolstoj, questo epos della gente molinara, rivela, ancora una volta, l'impossibilità dell'epos nella modernità: esso è possibile solo se la guerra è celebrata in quanto guerra, e se il divino (comunque inteso) vi partecipa come l'umano.

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"Il tempo e il luogo non hanno stabilità; il desiderio lascia solo melanconia": le ultime parole di uno dei brevi brani che costituiscono gli Echi di un'autobiografia di Naghib Mahfuz ( trad. A. Lamarra, con un'intensa prefazione di Nadine Gordimer, Tullio Pironti Editore, Napoli 1999) potrebbero rappresentare l'essenza di questo libro. Abbiamo qui il distillato di Mahfuz, giunto alla vecchiaia e ad una sapienza che presenta, nella diversità, molti punti di contatto con quella di un altro grande, prolifico vecchio della letteratura, Julien Green. Ad entrambi la vita è stata generosa di anni, di anni pieni, ed essi li hanno saputi usare per giungere alla saggezza: intensamente, drammaticamente cristiana in Green, come mostra il suo Journal, sufica o quasi-sufica in Mahfuz. Ciò che li unisce è la saggezza come accettazione delle contraddizioni dell'esistenza umana. Così, in Mahfuz come in Green la sensualità, ad esempio, non è negata ma compresa e vissuta in una sorta di aufhebung che la supera mantenendola. Negli Echi Mahfuz trapassa dalle brevi narrazioni, prive di qualsiasi riferimento cronologico, ai detti attribuiti ad uno sceicco Abd-Rabbih al Ta'ih (l'orfano), che rinnovano un genere tradizionale. Questi non sono appunti per un'autobiografia, ma echi appunto, risonanze, che in una vecchiaia matura di sapienza raccontano di una vita vissuta fino in fondo: fisicamente, sentimentalmente, intellettualmente. Ne riporto qui alcune righe.

Il segreto della vita

Mi passò accanto nella mia reclusione come una rosa in boccio su uno stelo verdeggiante. Poi, i ricordi di quei giorni luminosi scorsero via in fretta e io fui preso dallo sgomento per il fuggire del tempo. Un giorno in cui mi lamentavo della vita con un mio saggio amico, egli così commentò:

"Puoi forse negare di avere avuto la tua parte del calore e della fragranza del mondo?" Io, allora, enumerai le cose belle che avevo ricevuto dalla vita e che erano una prova del favore dimostratomi da Colui che di tutto dispone, ed egli disse:

"Gli esempi che hai enumerato della tua buona sorte sono la prova che essa ha parteggiato per te".

Dopo un breve silenzio mi chiese: "Non ricordi di aver provato gioia in quei momenti?"

"Ricordo un sentimento fugace di letizia sotto la palma dei datteri", risposi.

"Il sapore, lo ricordi?"

"Delizioso, più di tutti i casi di buona sorte messi insieme".

Alle mie parole egli replicò dolcemente: "Sappi che è questo il segreto della vita e della sua luce".

21 ottobre 2002

 

A DUE LIBRI