DUE LIBRI, UNA PAGINA (20)

Letture di Fabio Brotto

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Il rione dei ragazzi di Naghib Mahfuz (1959, pubblicato in Italia da Tullio Pironti, Napoli 2001, trad. M.Murzi) è un romanzo ambizioso. Non conosco sufficientemente la letteratura araba, ed egiziana in particolare, per poter dire se letterariamente questo sia un bel libro all'interno della tradizione cui appartiene, e tuttavia, dato che è un romanzo, cioè appartiene ad un genere internazionale e inter-culturale sì, ma germinato dalla cultura occidentale, credo di doverlo definire un libro almeno in parte fallito. Nobilmente però. E' fallito, secondo me, come romanzo. I suoi personaggi sono tanto più deboli come personaggi, quanto più in Mahfuz è forte l'ambizione di farne delle figure simboliche. E che figure simboliche! Il rione o quartiere del titolo sorge intorno alla casa di un uomo potentissimo, il fondatore, Ghabalawi (figura di Abramo) che continua a vivere nascosto nel succedersi delle generazioni che lo venerano e lo invocano pur non vedendolo mai. Esse sono divise e sempre in conflitto, benché il combattivo Ghabal (Mosé), l'uomo più buono di tutti, Rifaa (Gesù), e Kassem che è sintesi dei primi due (Maometto), siano tutti del sangue di Ghabalawi e si sforzino, di volta in volta, di portare la pace. Il senso mi pare chiaro: le tre tradizioni monoteistiche abramiche sono in un ingiustificato conflitto fratricida, e occorre giungere ad una soluzione di pace. Ma chi la porterà? La violenza e l'oppressione regnano sempre sovrane nel quartiere, e nessuno dei gruppi sfugge al suo dilagare. Infine Arafa, mago (figura di modernizzatore-tecnologo - forse con riferimento ai modernizzatori dell'Egitto negli anni 1950), con tutte le buone intenzioni da cui è animato non riesce a ottenere altro che far morire il vecchissimo, nascosto Ghabalawi. E il destino della sua opera non è del tutto chiaro, anche se il libro vuol terminare con una speranza di avvenire conciliato.

Se come romanzo Il rione dei ragazzi non è un capolavoro, il suo livello spirituale è però alto. Vi si respira saggezza, amore per gli uomini, con un che di sufico e con un sentore di Tre Anelli. Gli islamisti radicali egiziani condannarono a morte Mahfuz per le sue idee di dialogo e conciliazione, ed egli subì un attentato. Di questi tempi, vale la pena leggerlo.

 

 

Vi sono studiosi di filosofia, oggi, che tendono irresistibilmente alla narrativa. Come se l'aver frequentato romanzieri all'interno di un percorso di riflessione filosofica li spingesse a passare dall'utilizzo di narratori per lo sviluppo del proprio pensiero (quanti non si sono riferiti a Dostoevskij, ultimamente, a cominciare da Pareyson!) alla narrazione in proprio. Franco Rella, ad esempio, ha scritto il romanzo L'ultimo uomo (1996), che ho letto due anni fa, ma di cui non ricordo nulla: segno che non era forse una gran cosa, almeno per me. L'ultimo uomo non aggiunge nulla ai libri del Rella pensatore, pensatore drammatico, che ha bisogno di riferirsi ad altri, ad artisti come Van Gogh o Rembrandt, per far emergere una conoscenza sin-patica, ermeneuticamente produttiva. Rella tende alla narrazione (anche Negli occhi di Vincent vi sono parti che sfiorano la narrativa, ma nella sostanza non è un narratore, ma un ricercatore di verità. Nel suo ultimo libro Figure del male (Feltrinelli, Milano 2002), egli esprime al meglio la sua tensione conoscitiva di fronte al massimo enigma, quello del male, confrontandosi con situazioni e autori e tradizioni (il Libro di Giobbe in particolare) in un modo che sta tra il teorico e l'esistenziale. Il mettersi in gioco personale, in qualche modo, di Rella è ciò che mi piace di più, nei suoi libri, ma ne costituisce anche un limite filosofico: di qui anche il proliferare di figure (Carl, Alex, Barnaba) che sono suoi doppi, senza autonomia di personaggi: sono pure maschere che potrebbero anche essere considerate inutili.

Rella vede che male non è solo la violenza, come sembra pensare René Girard, ma anche la souffrance "implicita in tutte le passioni", iscritta, in definitiva, nel limite intrinseco alla creatura (uso qui questo termine cristiano che non è in contrasto con il pensiero di Rella, che deve non poco a Simone Weil). E giustamente intende che un uomo ridotto a puro patire, come un malato ridotto a cosa, sarebbe un problema radicale anche in una società redenta da ogni violenza umana.

Più narratore di Rella mi pare Sergio Givone. Il suo Favola delle cose ultime (Einaudi 1998) è un bel romanzo, di cui ci si ricorda qualche personaggio. Oltre al protagonista Ranabota (soprannome: sta per rana che non ha ancora terminato il suo sviluppo), il sanguigno pretone cacciatore, ad esempio, che ama la caccia ai beccaccini, "uccelli indiavolati", come l'amano Lazzaro Scacerni e il sottoscritto (cfr. Artemis, in questo sito).

[ 8 settembre 2002]

A DUE LIBRI