DUE LIBRI, UNA PAGINA (19)

Letture di Fabio Brotto

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Che cosa si intende per verità? E per realtà? Ovviamente questa doppia domanda è filosoficamente ingenua, anche perché evoca subito la questione del che cosa e apre la strada all'aporia. E tuttavia come non impelagarsi in questioni del genere quando ogni libro che si rispetti, nell'ultimo secolo secondo i modi tipici del modernismo e del postmodernismo, finisce per porre al lettore siffatti interrogativi, anche ove la coscienza dell'autore, in quanto è manifesta nel libro stesso, ne sembri estranea? Forse nessuna cultura ha il potere di definire in modo stabile questi concetti, ma quello della semplice vita? Secondo Giorgio Agamben, nella nostra cultura il concetto della vita non viene mai definito come tale. Con questa affermazione inizia il suo L'aperto (Bollati Boringhieri, Torino 2002), che reca il sottotitolo L'uomo e l'animale e costituisce un complemento al famoso e bellissimo Homo sacer (Einaudi 1995). L'aperto mi pare un libro di domande. Ad es., a pag.14 leggo:

Che cos'è l'uomo, se esso è sempre il luogo - e, insieme, il risultato - di divisioni e cesure incessanti? Lavorare su queste divisioni, chiedersi in che modo - nell'uomo - l'uomo è stato separato dal non-uomo e l'animale dall'umano, è più urgente che prendere posizione sulle grandi questioni, sui cosiddetti valori e diritti umani. E, forse, anche la sfera più luminosa delle relazioni col divino dipende, in qualche modo, da quella - più oscura - che ci separa dall'animale. (p. 24)

E penso quanto abbiano da dire in proposito le antropogenesi di René Girard ed Eric Gans, i quali certo concordano su questa urgenza. Se vogliamo salvare l'umano dobbiamo mantenere - o restaurare là dove è stata recentemente compromessa - la differenza tra la vita animale e la vita umana. Leggo a pag. 29:

Quando la differenza si cancella e i due termini collassano l'uno sull'altro - come sembra oggi avvenire -, anche la differenza tra l'essere e il nulla, il lecito e l'illecito, il divino e il demonico viene meno e, in suo luogo, appare qualcosa per cui perfino i nomi sembrano mancarci.

Come non riferire quel qualcosa ad una condizione di violenza del tutto priva di limiti, cioè al caos? Leggendo questo breve testo (99 pagine, un numero suggestivo) non si può evitare di pensare quanto singolarmente vicino sia il pacifico animalista di oggi al nazista per cui la vita dell'ebreo non è umana.

L'umanizzazione integrale dell'animale coincide con una animalizzazione integrale dell'uomo (p.80).

 

 

Il divino, l'animale e l'umano non sono separati da una chiara linea di demarcazione nel primo romanzo di Jean Giono, La menzogna di Ulisse (1927 - tradotto in italiano da B. Bruno per la Biblioteca del Vascello, Roma 1994). Il titolo originario sembra quello di un saggio: Naissance l'Odyssée. Il mondo di questo Ulisse gioniano è bensì mediterraneo, ma non appare, se non superficialmente, connotato da quelle intenzioni para-filologiche che distinguono molti romanzi novecenteschi ambientati nell'antichità. Come il nobile ma fallito tentativo di Vintila Horia di narrare la vita di Platone ne La settima lettera (Rizzoli 2000), o quello di narrare la vita di una Pizia operato da William Golding ne La doppia voce (Corbaccio 1996). Questo Ulisse mangia pomodori, qualche volta, ed è in sostanza un cialtrone sognatore e donnaiolo, che tarda a tornare in patria perché gli piace una vita leggera da fannullone e da bevitore. M attenzione, qui non c'è affatto l'intento dissacratorio, di demistificazione, proprio di tante opere moderniste nei confronti dell'antico. Qui c'è l'esatto contrario, qui Giono ci mostra la nascita di un mito, quello di Ulisse, generato in un mondo in cui verità e menzogna non sono distinguibili, e la fama della sua forza rende realmente forte lo smunto e consumato reduce da Troia. Gli dèi, la natura, gli uomini, le donne, tutti sono assorbiti da una mitopoiesi che secondo Giono è la realtà stessa. Questo Ulisse è nello stesso tempo un povero diavolo ed un eroe, così come nel mondo pagano una cosa può essere se stessa e insieme anche un dio.

L'incipit di questo breve romanzo è rapinoso, e mostra come la grande prosa di Giono si sia manifestata con tutte le sue qualità fin dalla prima opera.

Disteso sulla sabbia umida, Ulisse aprì gli occhi e vide il cielo. Null'altro che il cielo! Sotto di lui, la carne esangue della terra che partecipa ancora all'astuzia delle acque.

Il mare perfido ululava dolcemente: le sue molli labbra verdi baciavano senza sosta, con baci feroci, la dura mascella delle rocce.

E basta questo poco per far sentire come tutto sia carne in Giono. Ma dove tutto è carne, lì il sacrificio attende le sue vittime. E infatti il forte Antinoo è massacrato da Ulisse, che è fisicamente debole, ma ha con sé l'universo, e lo stesso Ulisse, alla fine, andrà incontro alla morte che lo aspetta in Telemaco. Perché dove c'è mito c'è sangue, e di solito è umano.

[25 agosto 2002]

 

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