DUE LIBRI, UNA PAGINA (111)

Letture di Fabio Brotto

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Avvince molto più che tanti romanzi odierni il libro di Christopher Hale La crociata di Himmler. La spedizione nazista in Tibet nel 1938 (Himmler’s Crusade, 2003, trad. it. di S. Minucci, Garzanti 2006). Vi è molta avventura, qualcosa che ogni tanto ricorda Indiana Jones, ma i fatti narrati sono reali e documentati. Il protagonista della storia è Ernst Schäfer, studioso, esploratore ed SS, con incarico da parte di Himmler di svolgere un’ardita spedizione nel cuore del Tibet per trovarvi tracce di un’antichissima presenza ariana.

Il libro è molto ricco: gallerie di personaggi (e foto d’epoca) tibetani e germanici, con gli inglesi sospettosi e i giochi politico-diplomatici che fanno da contorno ad un intreccio straordinario di scienza reale e follia nazista. Alcuni passi chiedono riflessione. Come questo.

 

Per cominciare, non esisteva alcuna insita contraddizione tra un perverso regime totalitario e la scienza – assumendo, per riprendere l’espressione di Robert Proctor, che “la scienza è ciò che fanno gli scienziati”. Nelle Conversazioni di Hitler a tavola, una delle parole più ricorrenti è Wissenschaft, scienza. Sebbene Himmler fosse affascinato da quella che non può essere altrimenti definita che finta scienza, e alcuni scienziati tedeschi, come Johannes Stark, discutessero di sviluppare una “fisica ariana” da contrapporre alla “relatività ebraica”, molti e svariati tipi di scienza vennero promossi con successo dopo il 1933. Proctor ha dimostrato, per fare soltanto un esempio, che la “guerra nazista al cancro” portò a un’importantissima ricerca basata su standard rigidamente epidemiologici. L’elemento propulsivo della ricerca sul cancro era ovviamente l’idea di salute razziale, ma non necessariamente le cattive idee producono cattiva scienza. Negli anni Trenta i settori chimico e biotecnologico segnarono un forte sviluppo. Nessuno crea motori a reazione, razzi V2 o il gas zyklon-B credendo ad Atlantide. Il Terzo Reich non fu assolutamente un deserto scientifico, un dato di fatto che genera inquietanti riflessioni sull’amoralità della scienza. Nel 1946 la Società tedesca di fisica sostenne di aver sempre protetto “die Sache einer sauberen und anständigen wissenschaftlichen Physik”, la pura e dignitosa fisica scientifica. E aveva ragione. I dittatori non possono mutare le leggi della natura. (pp. 152 -153)

 

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Animal Rights and Wrongs è il titololo originale di questo libro di Roger Scruton, la cui prima edizione inglese risale al 1996, e che è stato pubblicato in traduzione italiana (di D. Damiani, non sempre precisissima, a mio avviso) da Raffaello Cortina nel 2008 col titolo Gli animali hanno diritti?. Per me, che sono cacciatore e pescatore, la tematica dei diritti degli animali è assai interessante, e devo dire che nellle argomentazioni di Scruton mi ritrovo totalmente. Anch’io, come lui, ritengo che non abbia senso pensare che gli animali abbiano diritti per sé, e che la questione si ponga solo dal punto di vista umano, esclusivamente all’interno dell’orizzonte della rappresentazione umana. Infatti non ha alcun senso pensare che gli animali abbiano diritti anche prescindendo dal loro rapporto con gli umani, e questo per il semplice fatto che la sfera del diritto è una produzione della nostra specie, e di nessun’altra.

Quindi il riconoscimento di diritti a quella o a quell’altra specie animale dipende in modo assoluto dall’arbitrarietà delle culture umane. I Cinesi mangiano i cani, mentre per noi Occidentali l’uccisione di un cane è un reato, e addirittura l’idea di eliminare a fucilate i cani assassini che in questi giorni hanno sbranato persone in Sicilia turba fortemente la maggior parte di noi. Di converso, ci turbano ben poco le sofferenze dei bovini chiusi nelle stalle e portati nei macelli industriali, e l’idea che il bicchiere di latte che beviamo sia reso possibile dalla morte di un vitello non ci passa neppure per la testa. Dunque, nella nostra civiltà gatti e cani hanno molti diritti, vitelli e polli ne hanno molti meno. E quando qualcosa minaccia la nostra salute, come il virus della mucca pazza o l’influenza aviaria, il massacro di milioni di animali non ci commuove per nulla, semplicemente distogliamo lo sguardo. Secondo Scruton, la differenza fondamentale tra l’umano e l’animale è che il primo è un essere morale, il secondo no (in termini generativi noi possiamo sostenere che moralità e linguaggio nascono insieme nel gesto di appropriazione interrotto della scena originaria, luogo della fuoruscita dell’umanità dall’animalità).

 

Come ho già sostenuto, che gli esseri umani siano gli unici esseri morali sulla Terra è questione empirica: tendo a pensare che sotto questo aspetto noi si sia i soli, come credo che qualunque evidenza che altre specie abbiano varcato il confine e siano entrate nella sfera morale ci obbligherebbe a trattare i loro membri come noi trattiamo i nostri simili. Questo non significherebbe soltanto accordare loro dei diritti, considerare inviolabili la loro vita, le parti del loro corpo e la loro libertà, e accettarli come oggetti di emozioni superiori, ma vorrebbe anche dire imporre loro doveri e responsabilità, ragionare con loro e trattarli come soggetti alla legge morale. Tuttavia, allo status morale si accompagnano grandi vantaggi e al contempo grevi fardelli: a meno che non si sia nella posizione di imporre i secondi, i primi non hanno significato, poiché sono tali solo per chi sa come metterli a profitto o, in altre parole, per chi considera se stesso vincolato da doveri morali e responsabile delle proprie azioni. (p. 29)

 

11 aprile 2009

 

DUE LIBRI, UNA PAGINA

 

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