DUE LIBRI, UNA PAGINA (109)

Letture di Fabio Brotto

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Forse prima di poter affermare che si tratta di una generazione baciata dagli dèi, bisognerebbe rammentare l’antica riflessione sulla felicità del re Priamo, di cui prima della caduta di Troia si sarebbe potuto dire che fosse l’uomo più felice della terra, ignorando che avrebbe visto in tarda età la sua meravigliosa città distrutta, e lo scempio dei figli e delle figlie. Occorre dunque attendere la sua fine terrena prima di poter proclamare la felicità di un vivente, che sia singolo o gruppo.

La generazione baciata dagli dèi secondo l’io narrante di Voglio una vita come la mia di Marco Santagata (Guanda 2008) è quella nata nel quinquennio 1945 -1950 (ci rientro per 3 giorni, essendo nato il 28 dicembre 1950). Le ragioni addotte dal Marco narrante, specchio ambiguo e infedele dello scrittore, per asserire la felicità generazionale, sono diverse, ma quella fondamentale sta nel fatto che si tratta della prima generazione a non avere attraversato una guerra. Da questo primo motivo di eccezionalità scaturiscono gli altri, come l’aver conosciuto l’italia ancora preindustriale e poi il boom, l’inurbamento delle masse contadine, la rivoluzione sessuale, quella informatica, e così via. Il ritratto della generazione dei sessantenni o giù di lì oscilla tra il compiaciuto e il cinico, secondo il carattere di questo Marco, che offre un quadro dell’Italia dell’ultimo mezzo secolo molto crudo e insieme divertente. Il testo sta tra il saggio e il diario personale, ed è un romanzo solo in quanto il genere è così polimorfo da ingoiare qualsiasi tipo di scrittura. L’adottare come voce narrante un doppio di sé che non è però un doppio identico è anche un espediente per sparare giudizi che possono essere addossati all’altro. Così sono molto godibili le pagine sulla scuola e l’università (anche questo Marco come l’autore è un italianista).

 

Parlo del Liceo Classico, ovviamente. Ai miei tempi lo Scientifico era ritenuto un surrogato, uno spezzatino di materie buono per tutti gli usi, tranne che per una vera formazione. Mica circolava allora la balla delle due culture: gli accessi all’università erano differenziati; gli scienziati, quelli veri, avevano pure loro una formazione umanistica e gli ingegneri erano considerati per ciò che erano, ingegneri, appunto: a chi mai sarebbe passato per la testa di definirli intellettuali!
Quando ripenso al mio iter scolastico mi sento un po’ l’Attila della scuola italiana: io uscivo da un ciclo, e subito dopo quel ciclo deperiva. Ho fatto l’esame di terza elementare, e poco dopo lo hanno abolito; l’esame di quinta, e hanno abolito pure quello; ho sostenuto l’esame di ammissione alla Media, e poco dopo hanno istituito la Media unificata, senza prova d’ingresso; quello di quinta ginnasio, ed e sparito. Della mia Maturità, all’antica, con tutte le materie, e pure i riferimenti agli anni passati, hanno fatto una burletta. All’università io, modernista, sono stato obbligato a superare tutti gli esami fondamentali (per intenderci, prova scritta di latino e storia antica con lettura dei testi in greco); appena ne sono venuto via, ecco dispiegarsi una delle conquiste del Sessantotto: la liberalizzazione dei piani di. studio. ll che, in soldoni, significava che storia del cinema valeva quanto glottologia, che i testi latini si studiavano in traduzione italiana, che la stessa letteratura italiana poteva essere tranquillamente ignorata e via cantando. Con il passare degli anni la situazione è poi ulteriormente peggiorata. Ma quando, ormai vecchio docente, io e altri volenterosi ci siamo adoperati per porre rimedio a tanto sfascio, e siamo riusciti a varare la cosiddetta riforma della didattica, abbiamo partorito, Dio ci perdoni, un mostro di geometrica inefficienza, un coacervo di statuti, regolamenti, commi, percorsi, lacciuoli molto ma molto più brutto dell’essere informe che ha sostituito. A Riccardo come mia (nostra) unica scusante posso dire che, se gli dèi non vogliono, non c’è niente da fare. Avranno un progetto che ci sfugge: stiamo contenti, umana gente, al quia. (pp. 108 -109)

 

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Un professore (un umanista) fa per lanciarsi sotto il treno, il Sunset limited che sta passando a cento all’ora, per porre fine ad una vita che giudica del tutto insensata. Un nero, un uomo dal passato violento che crede di essere stato salvato da Cristo e di dover a sua volta salvare altre vite, lo afferra e gli impedisce di morire, e lo porta a casa sua. Una specie di sequestro a fin di bene, lo tiene chiuso per ore in casa cercando di convertirlo dalla intenzione di morire all’amore della vita. I due non potrebbero essere più diversi. L’ultimo libro di Cormac McCarthy, Sunset Limited (ed. it. Einaudi 2008), è un lungo dibattito tra due voci, che sono due polarità opposte, il bianco e il nero.

 

Le ragioni di una fede radicale e quelle di una ragione altrettanto radicale si avvitano e si avvinghiano in una dialettica che non lascia scampo: aut-aut. C’è però uno squilibrio, perché il professore è un uomo colto, e l’altro è un semplice, ma un semplice che ha conosciuto la violenza (in un carcere, e qui il racconto del nero ci riporta al McCarthy che conosciamo bene) ed è scampato alla morte per un soffio. Il finale è aperto, infine, come la porta della casa del nero, da cui il bianco esce, sembra, per tornare ai binari del Sunset Limited, mentre il nero si rivolge a un Dio che non risponde. Le ragioni del bianco per desiderare la morte non sono quelle dei comuni suicidi, questo è chiaro fin dall’inizio. E’ la sua civiltà, la civiltà occidentale, che a lui sembra ormai priva di senso, e anzi sembra rivelare il non senso di tutte le cose, dell’intero mondo. In fondo, quella del professore è la posizione di Leopardi. Ma il Recanatese si trattenne dal suicidio a causa dell’ “amante compagnia” (vedi il Dialogo di Plotino e di Porfirio), il bianco di McCarthy non ha per alcun altro umano amicizia o amore.

Vi sono due passi, verso la fine del libro, in cui la posizione del bianco appare nella sua, per così dire, pienezza nichilistica.

 

NERO  E qual è il mondo che conosci tu?


BIANCO  Non credo che lo voglia sapere.


NERO   invece.


BIANCO  Non penso proprio.


NERO  Avanti.

 

BIANCO  Come vuole. Per me il mondo è fondamentalmente un campo di lavori forzati da cui ogni giorno si estraggono a sorte dei detenuti - completamente innocenti - perché vengano giustiziati. Non è cosí che la vedo. E cosí che è. Esistono pareri diversi? Certo. Resistono a un esame approfondito? No.


NERO  Cavoli.


BIANCO  Allora. Vuole dare anche lei un’occhiata a quell’orario ?


NERO  E non ci si può fare un bel niente.


BIANCO  No. Gli sforzi che fa la gente per migliorare il mondo invariabilmente lo peggiorano. Una volta pensavo che ci fossero delle eccezioni alla regola. Ma adesso non lo penso piú. (p. 102)

 

Dunque, da un lato la dostoevskiana visione della condanna dell’innocente, delle moltitudini di non colpevoli per cui il mondo è un inferno in vita, senza una ragione. Dall’altro l’impossibilità di un miglioramento della vita umana sulla terra. Come si può infatti affermare che la vita oggi sia migliore di quella di un tempo, se non basandosi su argomenti fragili, smontabili e soggettivi? Dopo che tutti i tentativi di creare paradisi in terra hanno creato altri inferni in aggiunta a quelli già esistenti?

 

NERO  Mi prendi per il culo?


BIANCO  No che non la prendo per il culo. Se la gente vedesse il mondo per com’è davvero. Se vedesse la propria vita per com’è davvero. Senza sogni o illusioni. Non credo che troverebbe un solo motivo per non scegliere di morire il prima possibile.


NERO  Cazzo, professore.


BIANCO (freddo) Io non ci credo in Dio. Lo capisce, questo? Si guardi intorno, amico mio. Non lo vede? Il frastuono e le grida della gente che soffre saranno musica per le orecchie di Dio. E io rifuggo queste discussioni. Il discorso dell’ateo del villaggio che ha come unica passione quella di vilipendere dalla mattina alla sera qualcosa di cui nega innanzitutto l’esistenza. La comunanza di cui lei parla è basata solo e soltanto sul dolore. E se quel dolore fosse veramente collettivo invece che soltanto ripetitivo, il suo peso basterebbe a staccare il mondo dalle pareti dell’universo e a farlo precipitare in fiamme in mezzo a quel po’ di notte che saprebbe ancora generare prima di ridursi a un nulla che non è neppure cenere. E la giustizia? La fratellanza? La vita eterna? Santo cielo, amico mio. Mi mostri una religione che prepari l’uomo alla morte. Al nulla. Quella sarebbe una chiesa in cui potrei entrare. La sua prepara solamente ad altra vita. Ad altri sogni, illusioni e bugie. Se si potesse bandire la paura della morte dal cuore degli uomini, non vivrebbero un giorno di piú. Chi sarebbe disposto a sopportare questo incubo, se non per paura dell’incubo che lo seguirà? Sopra ogni gioia pende l’ombra dell’ascia. Ogni strada porta alla morte. O peggio. Ogni amicizia. Ogni amore. Tormenti, tradimenti, lutti, sofferenza, dolore, vecchiaia, umiliazione, malattie orrende e lunghissime. E alla fine di tutto una sola conclusione. Per lei e per ogni persona e ogni cosa a cui ha scelto di legarsi. Ecco la vera fratellanza. La vera comunità. Di cui tutti sono membri a vita. E lei mi viene a dire che nel mio fratello sta la mia salvezza? La mia salvezza? Be’, allora lo maledico. Lo maledico sotto ogni forma e sembianza. Mi ci rivedo, in lui? che mi ci rivedo. E quello che vedo mi disgusta. Mi capisce? Riesce a capirmi? (pp. 114 - 115)

 

Dopo la lettura di questo libretto, rileggersi La ginestra e il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

 

 

3 gennaio 2009

 

 

DUE LIBRI, UNA PAGINA

 

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