Dov’è il giardino?

Leggendo Giulio Mozzi

 

Elisabetta Liguori

 

elisabetta.liguori-lisi@poste.it

 

 

Sincero come la terra il Giulio Mozzi di “Questo è il giardino”, una raccolta di racconti recentemente rieditata dalla Sironi, casa editrice di cui l’autore stesso è oggi editor. Le prime due edizioni erano andate quasi del tutto esaurite e poiché parliamo di una lettura che in tanti hanno chiesto a gran voce, ecco per noi il nuovo libretto. Un caso unico nel suo genere.

Parlo con vero stupore di un’opera che ha la purezza del diamante, che lascia liberi. E innocenti, tutti. Qui quello che commuove è l’assoluta pacata ragionata spontaneità della scrittura di Mozzi, un racconto dopo l’altro. Spontanea ma non casuale. Leggendo, si ha l’impressione cioè che la sua scrittura non sia mai più forte del pensiero che trasporta, ma che, di certe emozioni e faticate certezze, rappresenti l’unico veicolo possibile. Scoprirlo leggendo è stata pura felicità per me. Un libro onesto e rivelatorio. Un libro grazie al quale chi legge può scoprire l’esistenza di uomini per i quali scrivere è un caso quanto una necessità. Può scoprire che a volte la scrittura migliore sale a galla da sé, esplode, urge. La scrittura di Mozzi per questa ragione sembra stupita da se stessa: il pensiero latente trova forma piano pianissimo, per ragionamenti elicoidali, per tappe, la grammatica fa da ponteggio ed alla fine il pensiero che non c’era, c’è. Miracoloso. Il pensiero, i piccoli fatti della vita, l’anima, il tempo finalmente sono davanti a noi. Si possono toccare quasi. Meravigliosamente corporei.

Ma un libro così, probabilmente, lo si può scrivere una volta soltanto nella vita, forse addirittura mai, come  afferma anche l’autore in molte delle interviste, che oggi girano in rete.

Rivelato il trucco, la magia non è più ripetibile.

I racconti di Mozzi, pur se pervasi tutti dalla medesima composta meraviglia, sono però molto diversi tra loro. Sono come pezzi di vetro. Non per nulla, uno degli stessi racconti ha proprio questo titolo: “VETRI”. In esso rintraccio la perfetta esemplificazione del lavoro dello scrittore, di uno scrittore come Mozzi almeno. Osservare una vetrata che, presa a martellate, va in frantumi, osservarla senza sentirsi per questo Spinoza, osservare il particolare, cogliere la forma del frammento e poi quella del quadro intero. Questo il lavoro da fare. Tentare cioè di ricomporre l’anima dell’universo: ogni pezzo ha valore in sé, ché un solo pezzo pesa come l’anima tutta, ma la pulsione verso l’impossibile opera di ricostruzione è inevitabile. Questa è la forza della scrittura stessa. Il fine. Una ricostruzione scientifica per deduzione, ché la scrittura deve essere scienza anche quando racconta il fantastico. E dare certezze, anche se per poco.

Così Giulio scrive pensieri non sintetici, ma vitali, esatti come certi quadri dell’epoca imperiale cinese, con luci ed ombre nette; controllati, non rapidi. Giulio è lento infatti, e lentamente arriva all’essenziale, arriva a scrivere le uniche frasi che contano davvero e che sembravano impossibili da scrivere. Qualcosa che ha molto a che fare con la verità.

Quest’estate in Puglia ho sentito Mozzi parlare del suo racconto “Lettera accompagnatoria”. Con pacatezza l’autore ha raccontato al pubblico presente come è nata questa storia. La prima in assoluto. La lettera in questione era nata dal desiderio di compensare la perdita di un’amica alla quale un borseggiatore aveva rubato la borsa contenente, oltre agli effetti personali, anche due lettere particolarmente amate. Giulio ha immaginato il pensiero, le scoperte, le necessità, i pudori di questo ipotetico ladruncolo, ma non solo. Giulio ha parlato di sé. Giulio ha ragionato sul senso dello scrivere lettere. Di quello che tutti facciamo, salvo poi scoprire per caso che tutto questo subbuglio è scrittura, o di più: è letteratura, se si è proprio fortunati.

E questo tema mi acchiappa, lo ammetto. Già, perché scriviamo lettere agli altri? Per descrivere il mondo forse, e poi godere di quel silenzio pago e gonfio che segue l’aver parlato? Mi viene in mente l’ultimo recentissimo libro della Krauss, “La storia dell’amore”, già caso letterario, in cui si muove un libro nel libro, essenziale, una sorte d’epistolario d’amore in cui si afferma che a vivere in un mondo non descritto ci si sentirebbe troppo soli. In cui l’autore è convinto che esistano le parole giuste per ogni cosa e basti solo trovarle per credere di essere un po’ più felici. Ecco: una cosa così. Scrivere per scovare in qualche dove i propri simili e dirgli cosa accade.

Nel primo racconto di Mozzi, dicevamo, un gentile borseggiatore, alle prese con il proprio mestiere, scopre che una sola lettera può avere una forza dirompente; scopre che l’avvicinamento all’altro, attraverso le parole, è possibile; non solo, in più proietta una luce fortissima sulle nostre vite, le rende finalmente visibili, significative. Rivela l’essenziale. Quindi, un uomo che si sforza di cogliere l’anima delle sue vittime per agire con maggiore efficacia, avvezzo per necessità ad osservare gli altri per individuare il momento più opportuno al furto, scopre così di desiderare ardentemente essere lui l’autore o il destinatario delle lettere che ha sottratto per errore, e nonostante tutto decide di restituirle alla proprietaria. E’ chiaro: l’uomo è affascinato da quelle lettere rubate, perché gli restituiscono il ritmo rumoroso di mondi veri, lo avvicinano come nient’altro ad esseri umani veri, di carne e sangue; non a totem o simboli o ombre. Sono lettere come segnavia verso un’altra creatura, attraverso percorsi tortuosi, confusi ed euforici, che però, attenzione, non allontanano dal proprio labirinto abituale, dai propri limiti quotidiani. Le stesse lettere, anzi, giustificano, perdonano, rimettono in pace l’uomo con i propri silenzi. Ecco perché il ladro decide di scrivere alla sua vittima, io credo: per creare qualcosa di suo, una volta soltanto, solo una; per aggiungere invece di sottrarre, per potersi perdonare, pur sapendo di non poter firmare alla fine quella sua lettera.

Tutto questo diventa racconto. Giulio Mozzi, sere fa, giunto al sud, raccontava ad un pubblico attonito proprio questo: come si era reso conto che la naturale pulsione alla condivisione, alla ricerca, al condono, ed il lavoro puntigliosamente scientifico che ne era seguito, era diventato un racconto.

Ma una raccolta, come questa prima di Mozzi, non si ferma a questo. Raccoglie molto di più.

Alla Lettera, segue lo sguardo attento dell’ ”Apprendista”, figura simbolo: un ragazzetto, uno dei tanti oggi, che nell’instabilità professionale ed emotiva trova la sua dimensione umana. L’osservazione è anche qui minuziosa e nasce dall’esperienza concreta dell’autore. Del ragazzo descrive il maturare, il confrontarsi con i fatti quotidiani, il cronicizzarsi di una serie di domande, il bisogno quasi fisico di continuare a porsele per sempre e la sofferenza che segue all’interrompersi del ritmo dell’attesa, quando, come è nell’ordine delle cose umane, l’apprendistato termina.

Poi c’è il vecchio salgariano Yanez, che invecchia lentamente nell’immobilità del ricordo e diventa mito in solitudine, solo per gli occhi di pochi eletti osservatori. Aspetta l’”Unghia” di Dio. Un mito che sembra non poter morire come vorrebbe, desiderando egli stesso proprio quella povertà dell’essere, che non può avere, che Dio sembra non volergli concedere.

C’è pure l’adolescenza di “Tana” che ha bisogno di angeli, in un clima da Cielo sopra Berlino: un racconto metafisico sulle difficoltà nell’accettazione dell’altro e di sé.

Ancora una figura di recluso per scelta, quella di “ F. , un altro racconto il cui protagonista ricorda chiaramente il magistrato Falcone, che si immola per lo Stato con una rabbia silenziosa e discreta: tutti sembrano responsabili davanti allo spalancarsi di un corpo vinto dal tritolo, che conserva la voglia di rivendicare il diritto all’amore fino all’ultimo istante, fino al confine ultimo, oltre il confine ultimo.

Ci sono i “Treni”, pure. Ci sono nel racconto più enigmatico. Il treno, la partenza in generale, qui diventa strumento per staccarsi dal mondo e, strano, anche per colmare una mancanza. Certe rotaie producono una specie di sonno senza sogni, che protegge i più vitali segreti d’uomo; un sonno che è movimento verso altro, allontanamento oltre che speranza di buona novella. Il treno infatti porta il protagonista lontano dai i suoi desideri ossessivi, verso i desideri di altri. Verso l’incerto, nella speranza di vincere l’incertezza delle parole, agendo. Il viaggio come reazione del corpo, quindi. Alla fine possiamo dirlo: per tutti, proprio per tutti, il movimento del viaggio offre delle possibilità. Si può tornare indietro, non arrivare alla destinazione ultima, si può cambiare idea, fermarsi prima o dopo, interrompere il viaggio stesso; tutto questo si può fare con il corpo, ma non con le parole, non con una lettera. Una volta che le parole sono state dette o scritte o non pronunciate per incapacità, non c’è più nulla che si possa fare. Il viaggio, invece, potrebbe essere un’alternativa alla scrittura ed alle parole, perché nel breve intervallo temporale di un qualsiasi partire, duri quel che duri, si è come protetti da se stessi. Non accade nulla, eppure si ha la certezza del movimento. E’ già qualcosa. Si applica una sospensione, che dà stabilità.

Ma questo non è affatto un racconto ottimista. Il protagonista, giunto a destinazione, si accorge che la sospensione imposta non è stata di alcuna utilità concreta per lui: il sonno del viaggio lo porta solo a ripetere gli errori di sempre.

Lo scrittore come stereotipo ricompare poi nel racconto dal titolo “ Per la pubblicazione del mio primo libro”. Viene da chiedersi: ma che gente siamo noi? Noi che scriviamo, intendo.

Che senso acquistano i libri una volta che, trasformato il pensiero in oggetto, ci si ritrova in mano questo mucchio di carte ben rilegate e se ne deve parlare con altri? Avviene questa condivisione tra uomini? e come? Perché un uomo, anzi tanti uomini, fanno del desiderio di pubblicare, di dire a voce alta qualcosa, una vera ossessione? Chi sono questi ” pazzi”?

Mozzi, oltre che scrittore, è uomo che maneggia libri, che li cura, li sceglie, li legge. Sa di cosa parla, sente questi pazzi orrendamente vicini a lui. Ne condivide le due passioni vessanti ( ed anch’io!): la passione per sé ( anch’io!) e la passione per il giudizio altrui ( anch’io!). Così che, quando il pazzo di turno si siede davanti alla sua tastiera, prova una grande convinzione per quello che va raccontando, e subito dopo una grande paura per come potranno reagire gli altri davanti a quelle parole certe, non più modificabili in alcun modo.

Mozzi è meravigliosamente lucido nel descrivere gli universi che girano intorno ai libri, le conventicole, il bisogno del gruppo, la dipendenza, il disgusto. E parlando di Scrittori, non può non parlare anche dei Lettori. Di quanto sia difficile; sia per lo scrittore, costretto a consentire che una parte di sé si disperda; sia per il lettore, convinto di far suoi pensieri altrui, corpi e immagini altrui, bisognoso di dare corporeità alle parole che altri hanno fabbricato. Una fatica immane per tutti. E il fine? La compiutezza forse.

Geniale Giulio a riconoscere infine che quello che fanno i costruttori di racconti è ristrutturare i loro piccoli modi, fare ordine, scegliendo un senso, una lettura, tra le tante possibili. Una per sempre. Regalano confini, una realtà delimitata; felice, infelice, su episodi autentici o di pura fantasia, non conta: quello che soddisfa è la certezza della descrizione.

Una sorta di vendetta nei confronti dell’equivocità dell’esistenza.

Questo è il nostro giardino, come in una poesia di John Donne.

Giulio ha ragione. Mi guardo intorno e mi convinco che Giulio ha ragione.

E per questo, a questo punto, io ritengo che parlare di una raccolta di scritti tanto integra, racconto per racconto, sia necessario. Assolutamente necessario.

 

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