Dio e il Sacro

Il serpente in Eden, una lettura storico-critica

 Fabio Brotto

brottof@libero.it

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La cultura palestinese intorno al 1000 a.C. conosceva due entità animali, nelle quali massimamente si concentrava la potenza del Sacro (nel senso di intensità vitale, permanenza entro il mutamento, forza generativa, incontrovertibilità e superiore sapienza): il toro e il serpente. Se molti sanno che il prestigio e il fascino del toro erano in quei tempi così soverchianti da esercitare un’irresistibile attrazione religiosa verso le sue potenti forme, al punto che Aronne le attribuisce, nel vitello d’oro, al Dio liberatore (Esodo 32, 1-6), meno numerosi sono coloro che conoscono le ragioni della scelta del serpente come entità animale in cui si raffigura il nemico di Dio nel mito del Giardino in Genesi 3. Da sempre in esso la tradizione ebraico-cristiana ha visto Satana, e questa interpretazione non può essere contestata. Va posta però la questione: perché la forma serpentina? Perché proprio il serpente e non un altro animale? In effetti, ora sappiamo che lo scrittore jahvista che ha fornito la storia che si legge nel Genesi non ha scelto a caso. La sua scelta illumina non solo il senso originario della narrazione biblica del peccato originale, ma molte altre fondamentali cose ancora.

 I culti cananei 

Prima dell’istituzione della monarchia in Israele, Gedeone aveva ottenuto la successione in una specie di regno ereditario ad Ofra di Manasse, nella regione collinosa centrale. Colà egli eresse nel santuario una statua dorata di YHVH, e ne fece un centro di culto popolare in Israele (Giudici, 8,27). In precedenza egli aveva distrutto un altare di Baal e di Ascera, che suo padre aveva innalzato a dispetto del proprio nome jahvistico di Joash. Facendo questo, Gedeone aveva suscitato una violenta reazione dei concittadini, cui lo stesso padre suo aveva risposto: "Sta forse a voi difendere la causa di Baal o venire in suo aiuto? (…) Se egli è un dio si vendichi contro chi ha distrutto il suo altare" (Giudici, 6,31).Occorre tener presente che Baal, divinità siro-cananea dalla figura abbastanza complessa, paredro della grande dea madre Anat, era anche divinità fallica, per lo più rappresentata aniconicamente con una pietra ritta che non ammetteva equivoci (masseba), cui corrispondeva, nello stesso luogo alto (altura sacra), la forma egualmente aniconica della divinità femminile (ascera), rappresentata da un albero sfrondato o da un palo. L’episodio di Gedeone dimostra da un lato i progressi dello jahvismo nell’undicesimo secolo, ma anche che Baal e il mito e i riti della vegetazione avevano radici troppo profonde nella Terra per poter essere totalmente scalzati da quella che agli abitatori della Palestina dovette sembrare un’intrusione estranea dal deserto. Questi riti e miti erano del resto tutt’altro che mal visti dalla maggioranza della popolazione tra le tribù ebraiche. Tanto YHVH che Baal erano visti, infatti, come dèi delle tempeste, dispensatori delle piogge (cfr. l’inizio del canto di Debora, Giudici 5), della fertilità, ed esseri celesti, per cui la loro reciproca assimilazione era inevitabile, anche se in origine YHVH non era una tipica divinità della vegetazione. Perciò, quando egli divenne il dio nazionale di Israele, che esercitava funzioni analoghe a quelle degli dèi di Canaan e dei culti ad essi dedicati per propiziare la loro funzione di controllori degli eventi atmosferici, si preparò il terreno ad un movimento sincretistico, che continuò per molto tempo, anche dopo l’istituzione della monarchia in Israele. Tutto questo appare evidente dalla famosa disputa del Carmelo (I Re 18, 17 sgg.).

Gli attributi e la natura dei Baal cananei vennero così traferiti a YHVH, e nei santuari a lui dedicati il suo culto non differiva da quelli dei precedenti occupanti. Lo dimostrano il simbolismo adottato e le ripetute denunce, da parte dei profeti, del sincretismo, che prevaleva ancora nell’ottavo secolo e continuò fino all’esilio babilonese nonostante tutti i tentativi di riforma religiosa.

Il culto del toro a Bethel e in Dan (I Re 12, 28; II Cronache, 11, 15 e 13, 8) non fu, in verità, un’innovazione di Geroboamo. Questo re non fece che ripristinare nel regno settentrionale l’antico culto col suo simbolismo e con la sua gerarchia. Occorre tener presente, infatti, che Baal nella cultura cananea si manifesta in forma di toro, ma anche in forme umane e, ciò che più conta in questo nostro discorso, di serpente. E’ dunque evidente come, per capire il senso profondo della lotta tra baalismo e jahvismo, così importante per lo sviluppo storico della fede d’Israele (e di conseguenza per la storia della cultura umana), non si può evitare il tentativo di comprendere la posizione occupata da Baal nelle concezioni religiose del tempo, che influenzarono profondamente gli Israeliti.

Baal era dunque inizialmente soltanto il paredro della grande dea madre Anat, ma finì per assumere, nel corso dei secoli, una sempre maggior autonomia da questa figura divina femminile. Nel culto cananeo Baal è l’aiutante della dea. E’ fertilizzatore, datore di vita, rigeneratore, ristoratore. Nella mitologia cananea egli compare come il distruttore del drago cosmico e caotico Zabil Yammu, il serpente del mare. Con questa vittoria egli diviene la figura di primo piano del pantheon siro-cananeo, ponendo sullo sfondo quello che era il dio supremo, El. [L’emarginazione della divinità suprema originaria, la sua riduzione a deus otiosus, è un fenomeno ben conosciuto nell’ambito della storia delle religioni, individuato a suo tempo dal grande R. Pettazzoni (cfr. L’essere supremo nelle religioni primitive)] Baal è il salvatore del cosmo, ma ad un certo punto viene ucciso dal suo avversario Mot, il signore dell’oscuro mondo sotterraneo e delle forze sinistre della morte, della sterilità e della siccità, nel calore dell’estate senza pioggia. E mentre Baal si trova nelle regioni sotterranee, la vegetazione languisce. Quando alla fine la potente sorella-sposa Anat lo fa uscire dal mondo ctonio e lo ricolloca nella sua funzione, la siccità finisce, e la fecondità ritorna sulla terra. Come compagno di Anat, Baal rappresenta l’elemento fecondatore maschile.

Al mito gli uomini si associavano liturgicamente, forse con celebrazioni a scadenza settennale (Ezechiele, 8, 14). Si veda, anche, il ruolo della Regina del cielo in Geremia 44, 17 sgg. E in Osea, 2, 8. La grande dea, di cui Baal è la controparte maschile, ha un carattere tellurico-lunare. Come la pioggia è il principio maschile, così la terra-luna è l’elemento femminile divino che presiede alla regolarità dei cicli naturali fecondi. I riti con cui gli uomini partecipano del ciclo ierogamico celeste, che inonda di sé la natura, hanno spesso un carattere apertamente sessuale. E si passò da una fase in cui tutta la collettività si dava all’orgia sacra di comunione con le forze della natura ipostatizzate nei modelli divini, ad una successiva in cui il rito sessuale sacro era incanalato entro i limiti e secondo le modalità della prostituzione sacra. Esisteva addirittura una dea, Qedesh, il cui nome significa qualcosa come Etera delle Etere, somma prostituta dunque, di cui abbiamo testimonianze archeologiche: veniva rappresentata con due serpenti che la fiancheggiavano, scendendo paralleli alle gambe.

La prostituzione sacra dilagò in Israele (Geremia 5, 7; Deuteronomio 23, 18-19; Osea, 4, 12 sgg.).

  Israele e il culto del serpente 

Anche quando si opponevano ad essi, gli Israeliti erano perfettamente a conoscenza dei culti religiosi di Canaan, dei quali il più importante era quello della coppia divina Baal-Anat. E’ all’interno di questo contesto religioso che emerge il ruolo del serpente.

Occorre rilevare anzitutto come la Luna possa avere una personificazione serpentina, che sorge, in ultima analisi, dalla percezione della Luna stessa come fonte delle realtà viventi e come fondamento e origine della fecondità e della rigenerazione periodica. La forma del serpente ha nell’immaginario religioso valenze multiple, e tra le più importanti si deve considerare la sua rigenerazione. In quanto annualmente esce nuovo dalla propria vecchia pelle, per non morire mai se non viene schiacciato da qualcuno. Il serpente è un animale che si trasforma. Esso, in quanto è lunare, cioè eterno, e vive sotto terra, conosce tutti i segreti, è fonte di sapienza, prevede l’avvenire. Lo stesso simbolismo centrale di fecondità e rinnovamento, soggette alla Luna e distribuite dalla Luna stessa o da forme della stessa sostanza (Magna Mater, Terra Mater), spiega la presenza del serpente nell’iconografia o nei riti delle Grandi Dee della fecondità universale. In quanto attributo della Grande Dea, il serpente conserva il suo carattere lunare di rigenerazione ciclica, unito al carattere tellurico.

E’ molto importante il fatto che il culto del serpente si sia mantenuto costantemente come un elemento integrante dello jahvismo, finché non intervenne Ezechia a sradicarlo con drastici provvedimenti (II Cronache, 29). Come il toro a Bethel, esso era una figura di primo piano nel mito e nei riti della vegetazione: sia il serpente che il toro erano dovunque simboli della fertilità della Dea Madre. In questo senso non possono esserci dubbi sul fatto che il serpente-idolo Nehustan in Gerusalemme, e i suoi poteri di guarigione, rafforzati dai sacrifici fatti davanti ad esso, avessero un’origine cananea (II Re, 18). Il serpente come datore di vita e rinnovatore di vita deve essere visto insieme al suo aspetto di guaritore e dio della medicina. Esso è salvatore anche in senso fisico-individuale, oltre che cosmico, poiché gli antichi Semiti erano incapaci di fare alcuna distinzione tra i due piani, ma li identificavano. 

Abbiamo oggi ampio materiale iconografico documentante la bontà come carattere del serpente siro-cananeo. In Fenici si credeva che fosse un animale divino, identificato col soffio della vita, simbolo dell’eterna giovinezza e della vita eterna. Era ritenuto immortale, a meno che patisse morte violenta. Nella stessa area geografica il dio della medicina 'Esmûn (più tardi conosciuto come 'Adôn, cioè Signore) era anche rappresentato da un serpente. E’ chiaro che la menzione del serpente non poteva non richiamare alla mente dell’israelita precisamente questo carattere divino. D’altra parte di questo l’arte vicino-orientale antica ci ha lasciato innumerevoli testimonianze: dai serpenti accoppiati fino al dio mesopotamico Nin-gis-Zidda (Signore della vita) con i serpenti che sorgono dalle spalle. Fino alla connessione, in Egitto, con la croce uncinata, che è il segno della vita.

A ciò che si è fin qui detto, occorre aggiungere che il serpente è associato alle idee di sapienza, soprattutto di ordine magico, e di intelligenza. Nelle concezioni mitiche del mondo intelligenza e sessualità, le due componenti fondamentali dell’essere umano in quanto al medesimo tempo toccano la zona dell’infinito e del mistero, sono concepite in primo luogo come qualità divine. Vita e saggezza vanno insieme.

Due dei grandi interrogativi che interessano l’uomo dell’Oriente biblico si riferiscono alla vita e alla civiltà. Il fenomeno della civiltà, tipico dei paesi vicino-orientali, altro non era che una manifestazione della potenza vitale e fecondatrice degli dèi. L’agricoltura, la prosperità economica, le realizzzazioni tecniche dell’uomo derivavano in ultima istanza dagli dèi della vita. La vita è un mistero insondabile, e come mistero è posseduta e data solo dagli dèi, perché essi soli ne sono conoscitori. Donde il continuo stretto rapporto di vita (sessuale, agraria, cosmica) e di sapienza (e delle sue manifestazioni nella civiltà e nell’arte). La chiave della vita è una conoscenza. La procreazione presuppone una partecipazione al potere meraviglioso e divino del conoscere. In questo senso la fecondità degli animali e dell’uomo è condizionata dalla fecondità e dalle ierogamie archetipe degli dèi. Ciò significa che l’uomo dei miti sacralizza la sapienza e l’energia vitale, e perciò anche la civiltà e la sessualità. Nello jahvismo, invece, il concetto di creazione trascendentalizza Dio rispetto al cosmo, e dunque in esso il primo sessuato non è Dio, ma l’uomo. 

La tradizione jahvista 

Quando il redattore jahvista scrive le pagine di Genesi 2-3, egli interpreta la condizione spirituale dell’Israele del suo tempo. Il racconto della tentazione di Adamo ed Eva contiene un attacco israelita al sincretismo come esisteva tra le religioni israelita e cananea. L’origine della storia narrata nella Bibbia sembra essere stata cananea, è più che probabile cioè che essa provenga proprio dal milieu cui la versione biblica della stessa storia intende opporsi. Essa riflette infatti il vecchio Bâmâ cananeo, il bosco sacro, con tutto ciò che vi è dentro: l’albero della vita, l’acqua vivificante, i guardiani all’entrata, e soprattutto il serpente. L’obiettivo della storia originale è deliberatamente frainteso dall’autore biblico, e stravolto per ragioni polemiche. Nel Genesi, infatti, il serpente svolge un ruolo diametralmente opposto a quello che ricopre nei miti del vicino Oriente. E tuttavia il serpente è ancora l’immagine cananea di un dio della fertilità, la cui presenza nel paradiso stesso, vicino all’albero della vita e al fiume primevo non può essere una fonte di stupore.

Quella che abbiamo davanti è una storia che richiamava associazioni mentali assai meno teologiche di quel che l’autore sperava che i suoi ascoltatori avrebbero recepito. Di qui l’enfasi di Genesi, 3, 1. Per quella gente il serpente aveva un altro significato, e non puramente animale. Se non riconosciamo che il serpente era una figura mitica, e che gli ascoltatori capivano molto bene quando era nominato, l’affermazione del v.1 risulta incomprensibile. Infatti solo dove abbiamo mito noi possiamo demitologizzare. E qui solo l’uomo è soggetto etico. Ciò che noi chiaramente non abbiamo, rispetto al mito, è una caratteristica che in esso frequentemente si trova, se non sempre, cioè il ruolo giocato dalla natura, che dà al mito il suo carattere ciclico, indipendente dalle categorie di spazio e di tempo determinati e storici, e rende possibile la regolarità della sua rappresentazione drammatica e rituale attraverso il culto. D’altra parte, è precisamente qui che noi troviamo un aspetto tipico dei miti cosmogonici, che possiamo ritrovare attraverso l’intera storia umana: un evento nel tempo primordiale i cui effetti si protraggono e sono permanenti.

Nella primitiva storia cananea il giudizio sul serpente doveva essere stato positivo, dato che questi aiuta l’uomo a conseguire certi poteri che gli mancavano, ma che erano suoi di diritto. Riducendo il serpente da protagonista eroico-divino a semplice animale, ed eliminando il lieto o semi-lieto fine che presumibilmente doveva coronare la storia originale, l’autore biblico viene a sostenere che precisamente ciò che produce vita e fertilità in Canaan, in Israele è ribellione contro Dio e causa di morte e rovina, perché è empietà ed allontanamento dalla rivelazione del vero Dio.

Da parte di molti è stato intravisto un carattere sessuale nel peccato di origine. Tuttavia il peccato di origine non ha natura di peccato sessuale per sé. Infatti noi conosciamo un contesto che corrisponde perfettamente al carattere del serpente e ai motivi sessuali indubbiamente presenti nel testo biblico, e questo è il culto cananeo della fertilità, ove una parte importantissima, se non fondamentale, era giocata da rapporti sessuali extramatrimoniali. In tale contesto, il concetto di un accesso alla sfera del divino e ai suoi poteri era normale e diffuso nel pensiero semitico e nel mondo che circondava il devoto ebreo, ma egli rigettava questa idea come empia e maledetta. La divinizzazione che il serpente prospetta all’uomo non è ciò che potrebbe sembrare a prima vista, cioè una trasformazione sostanziale della sua natura, piuttosto è quella contingente divinizzazione conferita dal culto della fertilità.

Qui è il reale peccato dell’uomo, come anche l’elemento di verità contenuto nelle celebri parole del serpente: l’uomo desiderava appropriarsi di prerogative divine scaturenti dai culti della fertilità. Si trattava non solo di un’appropriazione lecita e possibile, tra i popoli del vicino Oriente, ma dell’unica condizione necessaria per la vita della comunità. Questo era il modo che permetteva al cananeo, sebbene in una forma precaria, di conseguire l’onnipotenza sulla natura. Bisogna rilevare che il testo biblico ancora crede in questa possibilità, tanto che al v. 22 Dio stesso afferma che il tentativo umano ha quasi avuto successo con l’albero della conoscenza, e così, per evitare pericoli di recidiva, è meglio per Dio allontanare l’uomo anche dall’altro albero, quello della vita.

Possiamo dunque postulare almeno due strati per la storia biblica: il cananeo anzitutto, nel quale la benigna divinità-serpente insegna agli uomini i poteri divini inerenti all’esercizio rituale del sesso, e mostra loro come farne uso per governare il cosmo. Con una probabile seconda parte, che esprimeva l’opposizione di parte del pantheon, seguita da una punizione dell’uomo, senza però che potessero essere annullate le sue conquiste. La storia sarebbe stata così l’etiologia dei culti della fertilità, ma anche la spiegazione del fatto che i culti non sempre producono gli effetti desiderati dall’uomo, sì che l’uomo stesso è costretto a condurre una vita sovente misera e precaria. Una volta che la storia passò in Israele, subì una sostanziale demitizzazione: il serpente divenne un animale. Il Dio cosmico è ora YHVH, che si rivela nella storia dell’uomo, e non nella natura. La responsabilità di ciò che è avvenuto è caricata sulle spalle dell’uomo, e il concetto di colpa è introdotto come un nuovo elemento nel mito del Giardino.

Dunque, se i simboli chiave in rapporto al peccato sono quelli del serpente e dell’albero della scienza, che evocano tanto la conoscenza quanto i poteri della vita, questi non sono solo simboli di realtà trascendentali, ma alludono anche concretamente alla loro presente manifestazione nei popoli civili e dediti ai culti della fecondità. In qualche modo il serpente è Canaan, con tutte le sue seduzioni e influenze sopra Israele. Rappresenta la tentazione della sapienza, della penetrazione nel mistero della vita. Offre ad Israele la possibilità di mangiare i frutti dell’albero della sapienza, di entrare nel mondo delle pratiche rituali della fertilità per partecipare al mondo divino, per comunicare con gli dèi della civiltà e della forza generativa.

L’infedeltà a YHVH, unico e asessuale, comporta il rivolgersi a dèi-coppie, dèi sapienti, trasfigurati in ierofanie telluriche, cosmiche, culturali. Se la scienza e la sessualità sono qualità autonome, e pertanto profane, nell’uomo, il ritorno a Baal e al suo pantheon significa un’alienazione di qualcosa che è propriamente e solamente umano. E’una risacralizzazione deviata, riferentesi a poteri sacri estranei all’esperienza salvifica di Israele, iniziata presso il roveto ardente. Colà alla domanda ancora religiosa di Mosè, che gli chiede quale sia il suo nome (Esodo, 3, 13), dal luogo in cui nulla è nella forma in cui il bisogno religioso vorrebbe che fosse, viene risposto: Io sono colui che sono. Nel roveto non c’è un’alternativa agli dèi d’Egitto che sia analoga a quel che essi sono, ma il totalmente altro. E questo totalmente altro non può essere fatto rientrare nelle categorie del sacro. La tentazione di sacralizzare la cultura e la sessualità non può che orientare verso Baal e i suoi simili. Dunque nel racconto del Giardino il problema fondamentale che si pone l’autore biblico non è quello della sessualità e del suo valore, ma quello dell’infedeltà di Israele all’alleanza, manifestata nei fatti dal continuo volgersi al sacro, agli dèi della vita e della civiltà.

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